Francesco Loredan Doge CXVI. – Anni 1752-1762

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Sala dello Scrutinio. Jacopo Guarana. Ritratto di Francesco Loredan

Francesco Loredan Doge CXVI. — Anni 1752-1762 (a)

Concorrevano al principato Francesco Loredano, chiaro per molte cariche sostenute, e Giovanni Emo, procuratore di San Marco; ma al primo scrutinio dei quarantuno elettori rimase eletto il Loredano, con molta soddisfazione dei Veneziani.

Anche sotto il di lui reggimento continuò a goder pace la Repubblica, in ciò concerne alle armi, che sempre posarono; non però perfettamente la godette per alcune questioni sorte all’esterno, e per una gravissima suscitatasi nell’interno.

Una delle esterne, quella cioè con Ragusa, mossa per motivi di navigazione e di commercio nel Golfo, veniva sopita con la mediazione del pascià della Bosnia, a ciò incaricato dal sultano, obbligandosi i Ragusei di mandare ogni tre anni un bacino d’argento del valore di venti zecchini al capitano del Golfo, portato da due dei loro nobili, mentre i Veneziani acconsentivano dal canto loro di lasciar libero il transito ai navigli ragusei per il Golfo, di non impedir loro la pesca del corallo, e di non tagliar legna nei boschi di Ragusa.

Più grave vertenza insorgeva con la corte di Roma, a cagione del decreto 7 settembre 1754, col quale, richiamando in vigore le disposizioni antiche, e in conformità alla politica mai sempre seguita dalla Repubblica, si metteva freno agli infiniti ricorsi che dai sudditi, per ignoranza, senza discernimento, e forse anche per malizia, si facevano a Roma, alfine di ottenere indulgenze, grazie, dispense, privilegi con pregiudizio all’esteriore disciplina regolata dalla santa Chiesa, ed alle leggi dello Stato. Decretava adunque il Senato che non sarebbe per l’avvenire messo in attività alcuno di siffatti Brevi se non si fosse ottenuto per le vie ordinarie volute dal governo, e da questo approvato e regolarmente licenziato. Ciò parve al pontefice Benedetto XIV una lesione all’autorità pontificale, e ne fece gravi lagnanze: alle quali il Senato tostamente rispose, dandone li più minuti chiarimenti per mezzo dell’ambasciatore Cappello. Ma il papa non suadendosi, né valendo la mediazione delle corti di Parigi e di Vienna, né tampoco gli uffici del nuovo ambasciatore Pietro Correr, inviato a Roma perciò, la questione rimaneva tuttavia viva alla morte di Benedetto XIV. Succeduto nel trono pontificale Carlo Rezzonico, veneziano, che prese il nome di Clemente XIII, la Repubblica celebrò quell’avvenimento con grandi feste, luminarie, fuochi artificiati, processioni e spettacoli durati otto giorni di seguito, e proluse grandi onori alla famiglia del nuovo gerarca, inviando anche a Roma otto ambasciatori straordinari a gratularlo. Il pontefice per ciò ne fu tocco vivamente, e fino dai primi giorni del suo regno volse l’animo a por fine alla lunga questione, scrivendo egli stesso una lettera affettuosa alla Repubblica. Alla quale il Senato non stimò conveniente resistere più a lungo, e rispose al pontefice, il 12 agosto 1758, che riconoscendo, come riconosceva il papa nella sua scritta, la facoltà legislativa nata con la Repubblica, e sempre da lei esercitata, per libera autorità del Senato, ritirava il decreto promovitor del disgusto: ed il papa, soddisfattissimo di quell’atto, scrisse un Breve di ringraziamento e benedizione alla Repubblica. Per tal modo ebbe termine sì delicata questione; ma rimase sempre in vigore l’obbligo dell’exequatur e del registro all’ufficio della revisione per ogni Breve che venisse da Roma.

Per dimostrare più ancora la sua gratitudine alla Repubblica, Clemente XIII, l’anno appresso, spediva la prima rosa d’oro da lui benedetta in dono a Venezia, col mezzo di mons. Giuseppe Firrao, allora cameriere secreto papale, poi nunzio apostolico a Venezia, indi cardinale. Il quale, presentatosi in collegio, esponeva i paterni sentimenti di sua santità verso la patria amatissima, che voleva contraddistinta con quel dono prima di ciascun altro principe. Poi il giorno 3 giugno 1759, nella basilica di San Marco, seguiva la solenne funzione della pubblica consegna della rosa in mano del doge Loredano, il quale ricevutala, la deponeva nel tesoro marciano, ove rimase con le altre fino allo spegnersi della Repubblica; nel qual tempo vennero tutte con altre preziosità rapite da chi portava sul labbro la libertà, nel cuore la fellonia, la irreligione e il desiderio degli altrui averi.

A maggior prova del suo caldo amore verso la patria, e della lasciata sua sede episcopale di Padova, il pontefice stesso scrisse nell’albo dei santi il Beato Girolamo Emiliani, patrizio veneto e fondatore dell’ordine dei chierici regolari somaschi, ed innalzò all’onore degli altari il cardinale Gregorio Barbarigo, prima vescovo di Bergamo, poi di Padova.

La grave scissura nata poi nell’interno, superiormente accennata, da qualche tempo sordamente minacciava scoppiare, per lo scontento che ingenerato aveva il procedere dei Dieci e degli Inquisitori di Stato, i quali, parecchie volte, abusavano del loro potere. Alcuni fatti recentemente accaduti, tra cui quello dell’Avvogadore di comun Angelo Querini, il quale di spiriti alteri, e non tollerante che gli Inquisitori e i Dieci avessero, i primi richiamata una crestaia da lui a torto bandita, ed i secondi tagliata una determinazione del magistrato di Sanità, in punto della questione mossa fra la scuola grande della Carità ed il clero di San Vitale per la tumulazione dell’allora defunto Anton-Maria Vincenti, segretario del Senato, il Querini, si diceva, appellò da prima il decreto dei Dieci al Maggior Consiglio; poi, più sempre crescendo in ardimento, si andava formando un partito; sicché parve utile agli Inquisitori di Stato devenire alla deliberazione violenta di farlo arrestare, e sotto sicura scorta tradurre nel castello di Verona.

Non é a dire quale e quanto levasse rumore per la città questo fatto; quali le querele innalzate dai parenti e dagli amici del Querini; quale lo scontento generale dei nobili. Il quale scontento apertamente si manifestò pochi dì appresso, allorquando, cioè, si doveva procedere alla nuova elezione del corpo dei Dieci; mentre nessuno dei proposti ottenne il numero legale dei suffragi, e replicata più volte la votazione nei dì seguenti, tornò sempre vuota di effetto.

Il concorso di tanti voti nell’escludere la nomina al Consiglio dei Dieci era una manifesta condanna di quel tribunale; per cui più grave facendosi la cosa, si radunavano, in segreta consulta nella stanza stessa del doge, i sei consiglieri, i tre capi delle quarantie, ed il segretario legista Michelangelo Marini; e dopo molte discussioni, deliberavano di proporre al Maggior Consiglio la nomina dei correttori, come nel 1628. Recato il progetto di legge il dì 3 settembre 1761 in pieno Collegio, e il 6 nel Maggior Consiglio, nel quale posto ai voti il di 9, fu approvato. Si deliberava quindi che si dovessero eleggere prontamente i cinque correttori con le solite forme, alfine di rivedere i capitolari di tutti i consigli e collegi; con facoltà di prendere le loro istruzioni da chi e dove loro paresse più opportuno, e con l’obbligo di portare al più presto al Maggior Consiglio l’operato. Erano incaricati di propor modo altresì di regolare i segretari e ministri di tutti i suddetti consigli e collegi, e che dando la preferenza al capitolare del Consiglio dei Dieci, fossero i correttori temiti, sotto debito di sacramento, di proporre le loro opinioni per deliberarsi quello che sarà giudicato conveniente intorno alla sua regolazione ed autorità in materia dei nobili, e specialmente di quelli che sono costituiti in magistrati, uffici e reggimenti Continuerebbe intanto l’elezione del nuovo Consiglio dei Dieci, e sarebbero eseguite tutte le parti, o decreti del Maggior Consiglio, che vi si riferiscono. Infine, dovrebbero i consiglieri convocare, ad ogni richiesta dei correttori; il Maggior Consiglio, e le parti che essi avessero a proporre si dovessero leggere prima nel collegio, poi nel Maggior Consiglio otto giorni avanti che ne seguisse la ballottazione, a tenore della legge 11 luglio 1624.

Approvata dal Maggior Consiglio la proposta di elezione dei correttori, vennero nominati, dopo non lieve tumulto, Marco Foscarini, procurator di San Marco; Alvise Zeno, avvogador di Comun; Pier Antonio Malipiero, dei quaranta; Girolamo Grimani, fu savio del Consiglio e Lorenzo Alessandro II Marcello, capo del Consiglio dei Dieci. Appartenevano il Foscarini, il Grimani, il Marcello al partito conservatore, lo Zeno ed il Malipiero all’opposizione.

Nella prima adunanza tenuta il dì 15 settembre i correttori elessero a segretari Giovanni Colombo segretario del Senato, e Pietro Franceschi notaio straordinario nella cancelleria ducale, il quale scrisse dappoi la storia di questa correzione, volume che si conserva inedito nella biblioteca Marciana.

Dopo di avere i correttori studiate le leggi, di avere esaminato i documenti e raccolte le informazioni, si adunarono a discuter fra loro l’intralciato e geloso argomento. Opinavano il Malipiero e lo Zeno, che si dovesse moderar grandemente l’autorità del tribunale pei soli patrizi; e in quella vece il Marcello ed il Grimani desideravano, innanzi tratto, che si studiasse a fondo la materia, non parendo loro che il por mano così ciecamente a cotale riforma fosse prudente, né consentaneo alla espettazione generale, anzi essere cosa pericolosa: doversi porre bensì radicali rimedi, ma con disposizioni di massima generali a tutte le classi indistintamente dei cittadini. Della quale regolazione si mostrò partigiano il Foscarini, dichiarando però che avrebbe parlato alla sua volta, e quando si fosse bene approfondato nella materia.

Raccoltisi in seguito più volte i correttori, gli opponenti Malipiero e Zeno tornarono sulle prime proposte, ed i conservatori Foscarini, Grimani e Marcello, alle primiere osservazioni e desideri. Finalmente, dopo lunghe discussioni, si accordarono nel doversi togliere al Consiglio dei Dieci e agli inquisitori di Stato ogni ingerenza nelle materie civili, che avrebbero ad essere di sola spettanza dei relativi magistrati, rimanendo ai soli capi la facoltà di metter pace e tranquillità nelle famiglie dei nobili, senza potersi dal suddetto Consiglio e dagli inquisitori impedire o sospendere per alcun modo l’azione dei consigli, collegi, magistrati e reggimenti, né trattenere gli avvogadori dal portar querele delle contravvenzioni innanzi al Maggior Consiglio.

Anche intorno agli oggetti di pubblica amministrazione li correttori convennero in alcune radicali regolazioni da farsi, ma quando si venne all’argomento principale, cioè dell’autorità da esercitarsi dal Consiglio dei Dieci e dagli inquisitori di Stato sui nobili. In discrepanza delle opinioni sorse in modo inconciliabile: per cui i due partiti, accesi dalle più calde passioni, si posero in aperta lotta. Quindi formularono entrambi una diversa proposizione, e deliberarono di presentarla al Maggior Consiglio. Nel frattempo l’ansietà e l’aspettazione del pubblico crescevano ogni dì più che si andava dilazionando, o per l’uno o per l’altro motivo, quella presentazione. Finalmente il 16 gennaio 1762 si lessero in collegio ambedue le proposte, e il dì appresso si portarono al Maggior Consiglio. Seguita la lettura, e quindi sostenute le emende dai consiglieri Troilo Malipiero, Paolo Renier e Gasparo Moro, e dai due capi della Quarantia criminale Alvise Foscari e Pietro Bonfadini, si attese, come di metodo, otto giorni prima di devenire alla deliberazione. Passati i quali, lette nuovamente le proposte, ed ascoltate le emende suggerite, saliva la bigoncia il Malipiero avversando l’operato dei correttori: al quale rispondeva robustamente il Foscarini, sicché, fatti girare i bossoli, fu preso di dar passo alle proposte dei correttori medesimi, e, nei giorni seguenti, dovessero queste discutersi e passare quindi ai suffragi.

Si ripigliava la trattazione il 7 marzo seguente, e primo a parlare fu il correttore Zeno; ma non avendo potuto finire la sua lunga orazione, la seguitò il dì appresso. In essa combatteva la proposta dei tre col leghi avversari; ma il Foscarini sorgendo tosto prometteva convincerlo d’errore il posdomani, scudo ormai l’ora tarda. E per verità, la mattina del giorno 10 il Foscarini, salita la bigoncia, con arringa eloquente e ragionata stringeva siffattamente l’avversario, che quantunque questi nuovamente ripigliasse a parlare, anche per le altre orazioni dette dal Marcello, da Marc’Antonio Zorzi, uno dei quaranta, e dal Grimani, a cui non valse manco la lunga orazione di Paolo Renier, che oppugnava ambedue le proposte, fu deciso di passare finalmente ai suffragi.

£ si passò in fatti il dì 16 del mese anzidetto, e dopo tre ballottazioni, fu vinto il partito dei tre correttori, sì ben sostenuto dal Foscarini, e ciò con infinita gioia del popolo, che in numero stragrande erasi raccolto nella piazza e nella corte del palazzo, ansioso della deliberazione. Tutte le vie echeggiarono allora di plausi e di canti, massime intorno ai palazzi del Foscarini, del Marcello e del Grimani, ove si fecero fuochi artificiati e baldorie, mentre alcuni tristi della plebe volevano porre in fiamme le dimore dello Zeno e del Renier, salvati però dalla sollecitudine degli inquisitori di Stato, che spedirono genti a loro tutela.

Circa due mesi dopo questo fatto, vale a dire il 16 maggio 1762, passava a vita migliore il doge Francesco Loredano, giacente da quattro anni a letto per infermità. Nei suoi funerali veniva lodato da Natale Delle Laste, elogio datosi dappoi alle stampe; ed era tumulato nel tempio dei Santi Giovanni e Paolo, non lungi dal monumento dell’altro doge Leonardo della sua casa.

Oltre i fatti narrati giova accennare che, nel 1756, vennero accomodate le differenze, che tuttavia sussistevano con l’imperatrice Maria Teresa, circa i confini dello Stato Veneto verso la Lombardia, e ciò con reciproca soddisfazione, e per tal modo la scambievole amicizia tra casa d’Austria e la Repubblica fu pienamente ristabilita.

Notiamo anche le cose accadute nell’interno della città, e le fabbriche erette, ducando il Loredano. Il 4 dicembre 1754, per decreto del Senato, ottenne regolamenti suoi propri l’Accademia di pittura instituitasi fin dal 1724, la quale da questo punto si appellò Accademia di pittura, scultura ed architettura. Due anni appresso, rilevando il Senato, che frequenti erano le competenze di giurisdizione fra li deputati al commercio, instituiti nel 1708, e il magistrato dei cinque savi alla mercanzia, con grave danno dei sudditi, decretava la soppressione dei primi, ordinando che la materia del commercio fosse tutta rimessa ai secondi. In quanto poi concerne alle fabbriche nuove, venne nel 1753 innalzata dai fondamenti la chiesa di San Geremia, secondo il di segno dell’ab. Carlo Corbellini di Brescia. Nel 1755 si costruì il teatro di San Benedetto, per opera dell’architetto Francesco Costa. Tre anni dopo, a spese della Repubblica, l’architetto Tommaso Temanza murava la chiesa di San Servolo in isola; e finalmente, dal 1755 al 1760, si restaurava la torre dell’orologio, ed si aggiungevano i due piani superiori alle fabbriche che la fiancheggiano, a cui aveva dato il disegno Giorgio Massari, assistito poi nell’opera da Andrea Camerata, che solo poscia compì quel lavoro, morto il Massari nel 1757; nella qual fabbrica, la procuratia de supra, con i propri fondi, spese 45.000 ducati. Accaddero ancora parecchi incendi registrati dal Gallicciolli, ma di non grave rilievo; e gelò, nel 1758, la laguna, in guisa che transitavano sul ghiaccio viveri e genti sopra carri.

Il ritratto del Loredano fu condotto da Jacopo Guaranà. Nel campo si legge:

FRANCISCVS LAVREUANVS DVX VEN. MDCCLXII. (1)

(a) Francesco Loredano nacque il 9 febbraio 4691, ed ebbe a padre Andrea. Sostenuti alquanti uffizi, passò provveditore a Palma, ove si mostrò splendidissimo e magnanimo. Ripatriato, fu eletto consigliere, e poscia spedito ambasciatore appo Carlo di Baviera, e quindi nella stessa qualità alla Corte di Vienna. Fu eziandio senatore e capitano a Brescia, e in tutte le cariche da lui persolte fece rispondere la sua giustizia, la prudenza sua, la sua ingenuità e la sapienza, e massime quando fu assunto alla suprema dignità della patria. Eloquente, dotto nella patria storia, generoso, e liberale verso i miseri, teneva in cima a tutte queste virtù la pietà più spiccata. La sua tenera divozione verso la Vergine dimostrò in opere assai, e fece palese nei tipi delle sue oselle. Imperocché la più parte di esse recano, quando in una e quando in altra maniera, espressa l’ immagine di lei, od i simboli con cui Chiesa santa l’onora. Dispose che quotidianamente fosse celebrata la santa messa all’altare da lui dedicato alla gran Donna; eresse pure un altare in onore del santo doge Pier Orseolo, e curò che la basilica di s. Marco fosse arricchita di nuovi e preziosi ornamenti, riducendo a più esatta disciplina la sua ufficiatura. Negli ultimi quattro anni di sua vita, ridotto a letto gravemente infermo, sostenne con cristiana rassegnazione il male che lo affliggeva, e spesso confortava coi celesti carismi il suo spirito. La morte che egli fece, nell’età sua d’anni 74, fu quella del giusto, lasciando grande desiderio di sé in tutti gli ordini di persone.

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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