La Guerra di Candia (1645-1669). V parte

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Padiglione delle navi. Calco in gesso di un leone posto nella porta di Panigrà. Candia

La Guerra di Candia (1645-1669). V parte

Il doge Francesco Erizzo eletto capitano generale, il doge muore mentre si apparecchiava alla partenza, e gli succede Francesco Molin doge XCIX

Così riusciti a vuoto i tentativi fatti per la ricuperazione della Canea, la Repubblica dovette attendere più che mai a proteggere tutte le sue terre confinanti coi Turchi; si mandarono truppe in Dalmazia e Corfù; le galee scorrevano i mari; Lido e Malamocco furono fortificati; Angelo Correr fu mandato alla custodia del Friuli. Per Candia poi principalmente si facevano grandi apparecchi. La massima difficoltà era trovare un capitano generale cui affidare si importante comando, e che avesse tanta riputazione da impor freno alle gelosie e alle gare che aveano fino allora guasta ogni impresa. Nello scrutinio che a quest’oggetto facevasi in Senato fu trovato più volte nell’urna il nome del doge, allora Francesco Erizzo, e sospesa ogni altra elezione fu vinto il partito di pregarlo di voler egli stesso mettersi alla testa dell’armata. Il venerabile vecchio in età di ottant’anni non si rifiutò all’onorevole incarico, pronto a sacrificare quel debole avanzo che gli rimaneva di vita in vantaggio di sì bella causa. Le parole generose di cui accompagnò quel solenne atto, commossero tutti gli astanti, nei quali più non fu se non una gara di generosità nell’offrire e averi e vita al servizio della patria. Solo Giovanni Pesaro opponeva, essere codesta nomina congiunta con gravi spese, le quali più utilmente avrebbero potuto impiegarsi; la presenza del vecchio doge sull’armata avrebbe potuto eccitare il sultano Ibrahim a fare lo stesso, col dare più vigorosa spinta alla guerra; essere la vecchiaia bensì prudente ma tarda nell’operare; se mai venisse a mancare per morte, qual confusione negli ordini pubblici ne deriverebbe! Ma ad ogni considerazione prevalendo l’ammirazione del magnanimo atto, già si erano nominati due consiglieri a fianco del doge, cioè Giovanni Cappello e Nicolò Delfino, già avanzavano i preparamenti quando il doge rapito dalla morte, non poté se non lasciare nella storia l’indelebile ricordo del suo patriottico proponimento. Il 20 Gennaio 1646 venne eletto il nuovo doge che fu Francesco Molin.

Maneggi della Repubblica presso le potenze europee con poco effetto

E mentre si apprestavano le armi, non si lasciava anche di ricorrere ai maneggi politici presso alle potenze es terne per ottenere soccorsi alla comune causa. Si mandarono ambasciatori in Polonia per muover quel re ad operare una diversione, alla quale però la Dieta si mostrò renitente; a Mosca, in Persia, in Svezia, in Danimarca, ai Paesi Bassi, in Inghilterra, e senza effetto. La Spagna aveva volta tutta la sua attenzione ai maneggi di pace che allora si trattavano a Munster; la Francia non lasciava mai d’occhio i suoi vantaggi in Italia; l’imperatore si adoperava a migliorare più che fosse possibile le proprie condizioni; onde le fatiche per ridurre tanti vari interessi ad un ravvicinamento minacciavano ad ogni momento di dover far disperare della riuscita e appariva imminente il ripigliamento delle armi. E mentre il papa si offriva di mandar annunci ad eccitare le potenze al soccorso di Candia, ciò non vedeva volentieri la Francia adducendo che mentre si maneggiava la pace nel Congresso di Munster sarebbe un dare gelosia ai Protestanti da un canto, porgere motivo agli Austriaci dall’altro di giovarsene per render la Francia sospetta presso al Turco. Così piccole gelosie, sospetti, diffidenza generale, egoismo infine impedivano di attendere all’interesse comune e di soccorrere quella sola potenza che con tanto eroismo si apparecchiava a sostenere sola una lotta che avrebbe potuto atterrire qualunque maggior principe. Il signor di Varenne mandato dal Mazzarino a Costantinopoli apparentemente per adoperarsi in una mediazione in favore dei Veneziani, ma in fatto per assicurare la Porta che i suoi armamenti risguardavano soltanto l’Italia, nel suo ritorno passando da Venezia avvisò il Senato che una terribile guerra lo minacciava, e lo consigliava ad evitarla con pronte negoziazioni.

Elezione di Procuratori di s. Marco e proposta di aggiunta di nuove famiglie nobili per danaro

Ma la Repubblica sebbene evidentemente ridotta alle sole sue proprie forze, decise di resistere. Uno dei maggiori suoi imbarazzi era quello però del trovar denaro. Già gli interessi erano saliti al sette per cento prova del cadente credito; furono vuotate le casse, furono decretate varie gravezze e tasse, ammessi giovani patrizi al Consiglio con dispensa dell’età, poi venduti gli impieghi; fino dal 15 novembre 1643 era stato proposto di eleggere tre nuovi Procuratori di San Marco tra quelli che avessero offerto al di sopra di ventimila ducati, né tuttavia bastando si proponeva in Senato il 15 febbraio 1645/6 la seguente Parte, che, rappresentate prima le condizioni della patria e il bisogno di pronti ed efficaci sussidi, diceva: “l’anderà parte che quelli cittadini, o sudditi veneti di casa insieme et con una sol successione che offriranno dentro il termine di mese uno alla Signoria nostra di pagare per il corso di un anno intero soldati mille a servigio delle presenti occorrenze e per questo effetto depositeranno in cecca nella cassa del nostro Conservatore o scriveranno a credito suo nel Banco del Giro almeno ducati sessantamila valuta corrente, somma che per appunto rileva in circa la spesa predetta, come a benemeriti nostri che avranno fatto con atto tale apparire la loro svisceratezza, sia insieme con li figli et discendenti legittimi et in perpetuo sino al numero di cinque famiglie concessa per autorità di questo Consiglio, premessa però l’esecuzione dell’ordine e ballottazione infrascritta, gratia et privilegio d’essere assunti et aggregati al numero della nobiltà potendo pur in perpetuo partecipar dei medesimi privilegi, dignità, prerogative et onori che gode ogni altro nobile nostro. Gli esteri veramente che nel tempo e nella maniera stessa esibiranno di man tenere pure a sue spese per anni uno fanti mille duecento e perciò sborseranno in cecca o scriveranno in ziro ducati settantamila correnti possano anch’essi e discendenti legittimi esser ammessi alla nobiltà et nel numero delle cinque famiglie predette capaci della nostra grazia. E la parte non s’intenda presa se non posta e presa nel Maggior Consiglio“. Molto fervorosamente orò contro questa parte, Angelo Michiel, avogadore di Comune, insistendo sul detrimento che ne verrebbe alla dignità della Repubblica, mentre piccolo all’incontro ne sarebbe il sollievo, ma in senso contrario sosteneva Giacomo Marcello consigliere, primo obbligo essere del cittadino quello di salvare la patria, vano e stolto orgoglio esser quello che per non mettersi al fianco chi la sorte fece nascere in condizione inferiore, lasciasse piuttosto la patria stessa pericolare; or la salute di questa dipendere in grandissima parte dalla conservazione di Candia; occorrere di stipendiare milizie, rinforzare l’armata, provvedere viveri; giovare inoltre anziché nuocere che si aumenti il numero di quelli che possano aspirare agl’impieghi, mentre si offre campo più libero all’elezione; le insegne di onore cioè i magistrati della Repubblica non dover essere sì esclusivamente patrimoni della nascita, che non abbiano anche ad essere premi della virtù, utile anzi stimava egli ampliare il numero de patrizi già troppo ristretto, aumentarsi per tal modo il numero degli interessati a conservare la libertà e la grandezza della patria; né mancare gli esempi nella stessa Repubblica, e splendidissimi averne in quella Roma delle cui tradizioni Venezia era fedele conservatrice, in quella Roma che la propria cittadinanza conferiva ai popoli soggetti. Tuttavia, posta a voti la Parte, benché approvata in Senato, ebbe nel Maggior Consiglio solo trecentosessantotto voti favorevoli, cinquecento ventotto contrari, centoquaranta non sinceri e non fu vinta. Essendo codesta decisione in contraddizione con quanto scrive il Nani, che fu largamente abbracciata, e con quanto effettivamente poi fu fatto, convien supporre che la Parte come deliberazione non fosse vinta, ma che il Consiglio di volta in volta al presentarsi di un offerente, con speciale decreto l’ammettesse, quando i voluti requisiti non solo della somma di danaro da pagarsi ma i personali meriti rispondessero, tant’è vero che taluno non poté ottenere la votazione favorevole e la sua offerta non fu accettata. Lo spontaneo e numeroso concorso a pagare cento mila ducati per ottenere il titolo di nobile veneto ci dimostra e in quanto conto fosse ancora tenuta cotesta nobiltà, e quante fossero le ricchezze private se somme così ingenti si potevano impiegare all’acquisto di un titolo, che poi bisognava con non meno lustro e dispendio sostenere.

Si poterono per tal modo rinvigorire i provvedimenti di difesa nel regno e insieme anche nella Dalmazia, nelle isole del Levante e nel Friuli ove fu mandato Angelo Correr col titolo di Provveditore, e si misero in buon assetto i forti di Malamocco e del Lido. E ricorrendosi altresì alla ne si facevano preghiere, limosine, voti, nulla tralasciando di quanto potesse rianimare il popolo e confortarlo di liete speranze.

Fatti in Candia

Ma mentre in Venezia tanti sforzi si facevano per potere con ragguardevoli forze ricuperare il perduto e respingere il nemico da Candia, s’inacerbivano in questa più che mai le discordie tra i capitani, e principalmente tra il Gonzaga ed il La Vallette, dal che veniva lentezza e disaccordo nelle operazioni, consumandosi la milizia in lievi fazioni e per lo più con mal fine perchè sinistramente interpretati i comandi e mal volentieri posti ad effetto.

Veniva intanto la primavera, e il capitano Girolamo Morosini avvisava avere spedito Tommaso Morosini suo parente con ventitré navi verso il Tenedo per impedire, com’erasi offerto, l’uscita della flotta dai Dardanelli, incomodar la città stessa di Costantinopoli col toglierle le vettovaglie, e metter grosse taglie alle isole e terre turche.

A quella volta dirigevasi infatti il Morosini, e si collocava in modo da chiudere con le sue navi quel passaggio, ma i Turchi rinforzatisi fino a sessanta galere e quattro maone, e minacciati fortemente dal Sultano se non uscissero, profittato di un giorno di calma, uscirono a voga arrancata verso l’isola di Scio, mentre il Morosini stando immobile per la bonaccia a Capo Gianizzero non poteva né impedirli, né perseguitarli, ma solo doveva limitarsi a seguirli e ridursi a proteggere l’isola di Tine per poi unirsi al Capitan Generale. Intanto il bascià con buon vento di tramontana approdava felicemente in Canea e la provvedeva di truppe e munizioni, non impedito dal capitano generale Giovanni Cappello che sebben fornito di buona flotta, vecchio com’era di settantacinque anni, inesperto nella milizia, tepido nei consigli, non ebbe il coraggio di assalirlo. Sopraggiunsero inoltre discordie tra Inglesi e Fiamminghi, sicché a grande stento riuscì a Giovanni Battista Grimani Provveditor generale d’acquietarli, ma intanto un tempo prezioso andò perduto.

Dal che fatto vieppiù coraggioso Cussein andò ad accamparsi innanzi alla Suda, e i Veneti trovandosi divisi in più posti, deboli in tutti deliberarono di abbandonarli, ed i Turchi occupando allora le Cisterne, il Calogero e il Calami vi piantarono batterie infestando il porto, privando anche l’armata veneta dell’uso dell’acqua, onde le convenne con dolore di tutti allargarsi e lasciare quel seno. Partitasi poi anche la flotta dei collegati, il Cappello dopo aver girato qualche tempo per l’Arcipelago si ridusse alla difesa di Rettimo, contro la quale i Turchi (fallito il tentativo contro la Suda, scoglio che sorge all’imboccatura di seno spazioso, ben fortificato dalla natura e dall’arte) aveano volto le armi. Era Rettimo, cui asprissimi monti separano dal territorio di Candia, città di circa diecimila abitanti, posta sopra una lingua di terra che forma spiaggia d’imperfetta fortificazione. Tuttavia il primo assalto dei Turchi contro le trincee fu vittoriosamente respinto, e cominciò allora la regolare espugnazione. In una sortita tentata da gli assediati, conducendo il Gonzaga gli Italiani e gli oltramarini a piedi e quattro compagnie di cavalli, mentre il francese Dusmenil guidava le truppe della sua nazione e di Fiandra, questa gente fatta appena una scarica, presa, non si sa per qual causa, da terror panico, si diede alla fuga, gettando l’armi e correndo al mare, ove molti annegarono, altri furono raccolti in palischermi. Alla qual notizia, i soldati del Gonzaga facendo altrettanto, terminò con ignominia quella impresa dalla quale ognuno tanto bene si era ripromesso.

Dal che incoraggiati i nemici diedero il 20 d’ottobre l’assalto al baluardo della Marina e ne furono dapprima ributtati, ma accesisi a caso due barili di polvere, e gridandosi mina, mina, tutti i difensori si diedero a fuggire, e i Turchi profittandosi della confusione, penetrarono nella città. Ben si affacciò con la spada in pugno il Gonzaga, ma non poté trattenerli, il Corner valorosamente combattendo rimase colpito di moschettata nel petto, e poco dopo morì. Anche Rettimo fu perduto, ed ebbe a soffrire i soliti orrori; il 15 novembre il Minotto che comandava il presidio del castello, fu costretto ad arrendere anche questo, pattuendo libera e sicura l’uscita alla guarnigione cogli onori di guerra, e agli abitanti l’imbarco entro otto giorni. Sopraggiungeva intanto l’inverno, ed ambedue le parti sospese per breve tempo le armi, a nuovi e maggiori conati si preparavano. (1) … segue

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo VII. Tipografia di Pietro Naratovich 1858.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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