Palazzo Boldù Ghisi a San Felice

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Palazzo Boldù Ghisi e palazzo Contarini Pisani a San Felice

Palazzo Boldù Ghisi a San Felice

Accediamo per la via del gran Canale all’approdo di questa magione, col basamento di marmo, speziosa, benché mancante di un’ala a mano stanca, e con vagheggiato anacronismo gettiamo dolorando uno sguardo ai davanzali architettonici accusanti il gusto di già due secoli d’arte, in un giorno di patrio lutto.

Fu allora che Venezia, da lagrimevole caso agitata, faceva corteo colle solitarie gondole alle gramaglie di un convoglio, che tacito avanzava al limitare del tempio di Santa Sofia. Una specie di soave malinconia raccoglieva in quell’istante la mente nelle affezioni più delicate, e le concentrava nella carità della patria. Di questa era splendido esempio il conte Giuseppe Boldù, che quivi nacque il 13 maggio 1793 da Francesco, e quivi si estinse desiderato, lasciando nell’amarezza delle sue illustri sventure la contessa Anna Giovanelli, madre infelice. La patrizia casa dei Boldù, che dall’ottavo secolo dava discreti e savi cittadini alla Repubblica, si onorò di Leonardo capitano invitto contro i Turchi nel 1473, del cavaliere e senator Antonio, ambasciatore all’Imperator Federico, dell’eloquentissimo Jacopo, e del valoroso Filippo. Ai celebri esempi, alla fede di quei magnanimi si educava il conte Giuseppe, quando bilustre gli moriva il genitore, dall’amor di lei, che tutta si consacrava con quel sentimento materno, che è sublime scialacquatore di affetti, e coraggioso fino all’eroismo, nuova madre dei Gracchi, che vantava le vere sue gemme nei figli.

Tra le oscillazioni della sorte, col perspicace ingegno e i patri meriti saliva al primo civico onore, e teneva le redini della comunale azienda, con senno, accorgimento e dignità; era l’amore e l’orgoglio dei concittadini. Duri frangenti sperimentava, che vieppiù svelarono le facoltà preziose della mente e del cuore; maggiore di sé nell’infortunio della patria, quando il nordico morbo, tutte pareva minar l’esistenza, mostrò che il vero amore è magnanimo, e prodigo di sacrifici, stringendo il bisogno.

Poco appresso un incendio improvviso di notte, di cui rimasero sempre ignote le cause, annientava il sovrano edificio del Selva, nel gran teatro, mentre pochi giorni mancavano, che vi montassero le scene i tanti seguaci dell’armonia e della danza. Fu nel giro di undici lune, che la Fenice davvero risorse dalle sue ceneri, con uno dei più bei trionfi dell’arti belle. E se cento e sette proprietari dei palchetti deliberavano la rifabbrica per A. L. 619.371,81 se questa con celere opera si compieva, delle vedute e sollecitudini si aggiudicava al podestà conte Boldù esclusiva la palma. E più era mirabile la costanza dei propositi, per l’ allarme del morbo, che gli insidiava l’organismo, e gli toglieva ogni attrattiva della vita. Eppur compieva la sua missione coraggioso, non rallentava l’azione un istante; emulo del valore dei prodi suoi avi, tutti li vinse, se è vero che più formidabili sono le battaglie dell’animo.

Ben alla riva di questo palazzo si vide scendere un giorno, appoggiato al braccio di fido amico, rompendo il medico divieto di affrontare l’insulto di libero aere, ordinare al gondoliere la meta del cammino, e farne arrestare la voga al tempio di Nostra Donna, della Salute, per soffermarsi supplice sotto l’ardita volta, poscia ripigliando il sentiero fra i miracoli dei Sansovini e dei Palladi, per rinchiudersi fra le pareti, da cui più non usciva. Oh ! quale contrasto colla triste sua condizione nella suntuosità e nel lieto splendore della piccola reggia, animata dal pennello del Politi, adorna dai paesaggi del Bagnara, dalle prospettive e dai fregi dorati del Borsato e del Lucchesi!

Poiché aveva egli un gusto squisito per l’arti belle, e le stanze erano con asiatica eleganza principescamente decorate. Formavano parte delle suppellettili di prezzo, quei due vasi giapponesi, di cui si à esatto ragguaglio sul valore artistico nella Guida del fu cavalier Lazari al museo Correr, ove disponeva fossero posti, o nella sala del Consiglio Municipale, se quel museo cessasse per avventura un giorno di esistere. Oh! la solitudine di questi recinti, in cui rimase a piangere la derelitta! Come è ben vero, che una madre infelice è a venerarsi come santa. La invitta matrona non fu tanto presto da quel dolore uccisa; la casa del figlio si estinse, e sola rimane, di lui immagine, la sorella, contessa Dolfin del Malcanton, pure dal sentimento di tanta sciagura percossa.

Il tempo spazza colle nere ali inesorabile gli edifici, non però le rimembranze degli umani. E chi sul gran canale passi a queste soglie dinanzi, si richiami all’uomo, che operando il bene e onorando il vero, operò ad un tempo anche il bello ed onorò sé stesso, e consacri alla sua memoria una lagrima. (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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