Paoluccio Anafesto. Doge I. Anni 697-717

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Paoluccio Anafesto. Doge I. Anni 697-717.

Erano cresciute in ampiezza le isole per i continui interramenti operati dagli abitanti, cresciuti pur essi di numero, ed era del pari aumentato di soverchio il potere dei tribuni che reggevano la pubblica cosa. Perloché volti l’un l’altro a soperchiarsi nel comando, venivano di sovente a discordie e a litigi; ai quali prendendo parte i loro aderenti, accadeva che i pubblici negozi peggiorassero, e gli interni ed esterni interessi andassero a male: tanto più quanto che a continue calamità la nazione era allora soggetta, per le frequenti scorrerie che facevano nelle lagune, con legni armati, i corsari dell’Istria, della Dalmazia e della Liburnia, nonché i Longobardi, alle foci dei fiumi, mossi tutti dal desiderio di rapinare.

A por fine a cosiffatti mali convenne la nazione tutta quanta di adunarsi in Eraelea, capitale allora della veneta consociazione, per provvedere all’ onore e all’ interesse della patria. I cronacisti raccontano anzi che gli animi erano tanto esasperati contro la lunga tirannide tribunizia, tanto invelenite le passioni che agitavano le menti, che in quel consesso raccolto nella casa di Dio per amor della patria, poco mancò non segnasse l’epoca del totale sterminio dei Veneti, col ridurre il santuario teatro di strage fraterna. E per avventura sarebbe accaduta l’orrenda tragedia, se il patriarca di Grado Cristoforo, legato, egualmente che i suoi antecessori, d’affetto e d’interessi; ai cittadini, non avesse abbonacciato i cuori colla reverenza della severa sua dignità, e spenta la procella; persuadendo gli astanti di ridurre tutti alla obbedienza di un solo, con eloquenti parole, alle quali aggiungeva grandissima autorità il venerando carattere dell’oratore, e la sua molta pietà.

E però utile osservare che l’Altinate, il Sagornino ed il Dandolo, non fanno motto di questa gloriosa e benemerita azione del patriarca Cristoforo.

Volle Provvidenza che il discorso del prelato partorisse l’effetto a cui mirava: e sì che il clero, gli ottimati ed il popolo acconsentissero alla di lui proposta per modo che, se vero è, lui avere con essa impedita una zuffa micidiale nel santuario, si vede come in quella stagione l’autorità del clero, e la reverenza e l’ossequio dei popoli verso di esso, non era senza grandissimo benefizio della cosa pubblica; imperocché per quell’autorità e reverenza è certo essersi, in quella occasione, conservata la patria, e per avventura la libertà e la nazione dei Veneziani.

Accettato il consiglio di eleggere un principe, si deliberò primamente quale dovesse essere il titolo da imporgli. Pertanto foggiarono quello di Duce, con attribuire a questo vocabolo Iatino significazione di principato politico, mentre per lo innanzi non esprimeva se non quello di condotta, ossia di governo militare. Il popolo converse tosto questo vocabolo in quello di Doxe, ed in progresso la lingua italiana lo pulì e nobilitò in quello di Doge, che rimase a dinotare la dignità del principato in quei gloriosi che rappresentarono la patria nella più possente ed illustre repubblica d’ Italia. Certo questo titolo allontanava ogni idea di sovranità; ne sappiamo però se vero sia che nella intenzione del popolo, il Doge, o Duce, dovesse più particolarmente segnare l’uffizio di condottiere dell’armi della nazione. Sappiamo bene che i Dogi di Venezia furono poche volte condottieri delle guerre al di fuori, che è lecito, sembraci, dubitare al meno di siffatta asserzione di alcuno storico.

Dopo il titolo stabilirono la nuova costituzione di Stato, che si volca imporre al principe nuovo. E fu questa: Convocasse e presiedesse I’ assemblea, a lui superiore per autorità: eleggesse i tribuni e gli altri giudici : avesse il diritto di correggere i disordini e le ingiustizie dei magistrati, dai quali i litiganti potevano appellare a lui: convocasse i consigli del clero, ed i comizi di questo e del popolo per la elezione dei vescovi e dei parrochi: avesse autorità di dar loro il possesso temporale dei benefici: disponesse delle forze dello Stato: mandasse e ricevesse in proprio nome ambasciatori: facesse guerra e pace di consenso ed accordo dell’ assemblea : analogamente, avesse l’autorità esecutiva delle leggi.

Statuito ciò tutto dall’assemblea, dopo di avere lungamente discusso intorno alla scelta da farsi, finalmente cade questa su un uomo peritissimo ed illustre di nome, Paoluccio Anafesto, figlio di Anapesto, o Anafesto Antenorco, già tribuno di Eraelea, e lui stesso nativo di quella isola e città, il quale legarono gli elettori alla fede del giuramento, costituendolo Doge.

Ciò avvenne nel 697, secondo i più riputati cronacisti.

Eletto che fu, afferma Andrea Dandolo, essere stato egli posto in trono e vestito dello insegne ducali; ma sembra doversi prestar fede piuttosto a coloro che dicono, che, come era l’antico costume, e come fu sempre di poi osservato, con qualche variazione, venisse il nuovo doge recato sugli omeri da alcuni, affinché fosse da tutti veduto, e quindi portato in giro fino alla chiesa, ove orato a Dio, e giurato il bene della nazione, passò al suo palazzo, spargendo larghi doni alla moltitudine circostante.

Narra Pier Giustiniani, essere stati in quella occasione spediti a papa Sergio I, siccome ambasciatori, Pietro Candiano e Michele Partecipazio, per ottenere, siccome ottennero da lui, l’apostolica sanzione al diritto nel popolo veneto di eleggere i propri Dogi; e quindi si deduce nuovo e valido documento a provare l’originaria indipendenza della nazione veneta dagli imperatori di Oriente.

È cosa ordinaria che coloro i quali sono dalla fortuna chiamati primi a governare uno Stato, siano uomini grandi. al fu veramente Paoluccio Anafesto per consentimento di tutti gli storici.

È di vero, riuscì egli ad ottenere alla patria la tranquillità interna ed esterna; ottenne l’amicizia e l’alleanza del re longobardo Luitprando, il quale, sì per conseguenza della politica dei suoi antecessori, sì per il grande animo proprio, desideroso di riunire tutta l’Italia sotto il suo scettro, era lo scoglio maggiore, del quale i Veneziani temer dovessero.

E poiché, colla elezione del Doge erasi non pur creata un’altra dignità, cioè quella del Maestro dei Militi, con questa, doge Anafesto, compose i confini di Eraclea, vale a dire dalla Piave maggiore fino alla Piave secca, o alla Piavicella.

Dall’ alleanza stretta con re Luitprando provenne alla patria, oltre che la sicurezza, altri beni; come, privilegi commerciali nelle città del regno italico, franchigie e trattati utilissimi ed onorevoli. Fermò anche, il nuovo Doge, pace col duca di Friuli, il quale per la vicinanza dei suoi Stati, e per lo desiderio di allargarli, più volte erasi mostrato infesto al popolo veneto.

In quanto poi riguarda agli interni ordinamenti, narrano gli storici, essere stata la sua molta prudenza ed il suo fermo carattere formidabili ai nemici della civile concordia; avere le di lui virtù, massimamente guerriere, frenato a lungo e composto le discordie nate fra i cittadini di Eraelea e quelli di Equilio; aver egli disposto che ciascuna isola costruisse barche, e le apparecchiasse a combattere il nemico ad ogni occorrenza, e che i luoghi delle costruzioni di esse fossero difesi da mura, contro le insidie dei pirati; infine ordinava le cose così da far rivivere l’età d’oro nelle Venezie.

Dopo aver quindi rotto, Paoluccio, il ducato venti anni, sei mesi e otto giorni, giusta alcuni cronacisti, passava a vita migliore in Eraelea, ove veniva tumulato; ne era ucciso nelle civili discordie ora dette, come asserisce la Cronaca Altinate, alterata di certo da qualche rozzo copista, siccome provò il Rossi luminosamente, nelle note di quella Cronaca di questi anni pubblicatasi a Firenze, nell’ Archivio Istorico Italiano. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto.  Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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