La Festa di San Rocco

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Giovanni Antonio Canal detto Canaletto. La festa di San Rocco. National Gallery Londra (foto dalla rete)

La Festa di San Rocco

Nella Festa del Redentore il popolo di Venezia ricorreva all’intercessione di San Rocco, affinché si ottenesse dal cielo la liberazione dal flagello della peste, che nel 1576 atrocemente incrudelì; e in qual modo venisse adempiuto il voto fatto a Iddio Redentore allorché la città conseguì il sospirato beneficio. Ma la pubblica pietà non trascurò di rendere giusto tributo di riconoscenza anche al santo intercessore. Per volontà del Senato il giorno di San Rocco fu dichiarato festivo, e ad ogni annua sua ricorrenza venne prescritta la visita solenne del doge alla chiesa a lui dedicata.

In una Repubblica si sagace e sì illuminata, come la nostra, cosa non vi era che mirasse ad un solo oggetto. La devozione, benché sincera, aveva sempre frammischiata a qualche vista politica. Quelle maestose comparse del principato in corpo erano aggraditisssime alla popolazione tutta, ed arrecavano sommi vantaggi allo stato. La visita a San Rocco merita di essere con distinzione considerata.

Poscia che il Concilio di Costanza a provò unanimemente nell’anno 1444 il culto verso il glorioso San Rocco, e riconosciuta l’efficacia della sua intercessione presso Dio Onnipossente nelle malattie contagiose, molte città d’Italia si affrettarono con pubbliche dimostrazioni di manifestare la loro venerazione verso questo santo, e il loro desiderio di poter meritarsi il suo favore. Venezia, siccome città marittima e commerciante, fu in ogni tempo soggetta al terribile malore. Essa non fu, dunque delle ultime a ricorrere a lui, e nell’anno 1478 una delle molte persone di ambo i sessi, e d’ogni condizione, chiese ed ottenne la permissione dal governo di radunarsi in confraternita sotto lo stendardo di San Rocco.

In principio teneva essa le sue radunanze nella chiesa di San Giuliano, poscia si uni ad una società, che si era precedentemente formata nella chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Il numero degli individui di questa confraternita si accrebbe vie più, quando nel 1485 un monaco camaldolese fu tanto felice da poter rapire il corpo di San Rocco, che era con somma gelosia custodito in Ughiera (Voghera), castello nel milanese, appartenente alla famiglia Dal Verme, e portarlo a Venezia. Non si potrebbe dire abbastanza la gioia del popolo, e quella soprattutto della confraternita di San Rocco, in pensare ad un tanto prezioso acquisto. Ognuno da quel momento si tenne certo di trovarvi una salute permanente, e di non aver più nulla a temere dalla contagione. Sul momento fu deposto quel sacro corpo nella chiesa di San Giuliano. Ma tale si fu la divozione, la liberalità, la premura della confraternita per erigergli un apposito tempio, che nell’anno 1490 fu in caso di trasportare solennemente questa preziosa reliquia nella nuova chiesa.

Qualche tempo dopo, cioè nel 1516, la medesima confraternita prese la risoluzione d’ innalzare un altro edificio per tenervi le sue radunanze, il quale fosse insieme adattato alla santità di vari altri oggetti, quelli cioè di venerar la religione, di aiutare gli infelici, e di abbellire la città. A tal fine chiamò essa i professori più rinomati nelle belle arti, ed ordinò loro di formare una unione la più perfetta di tutte e tre le amabile sorelle, cosicché potesse meritarsi l’universale ammirazione, e si rendesse degna di passare alla più lontana posterità.

Mentre si occupavano in questa grande impresa, il Tempio fabbricato con troppa fretta cominciò a crollare. Ciò fu, per così dire, una vera consolazione per quei devoti e generosi confratelli; poiché tosto risolsero di rifabbricarlo più ricco e magnifico, e tale che fosse in armonia con l’edificio già bene avanzato della confraternita. Se io dovessi qui narrare con esattezza ciò che vi ha di più mirabile in questi due superbi edifici, nulla potrei far di meglio, che ricopiare quanto ne dice il Moschini nella sua Guida di Venezia da vero conoscitore. Basti a me il dire, che gli stessi forestieri, e fossero pur del rango più elevato, all’entrar quelle soglie si sentivano colti dal maggiore stupore in veder colà riunita una si gran quantità di pitture, di sculture, d’intagli: nell’esaminare la ricchezza e l’abbondanza degli utensili sacri; nello scorgere la profusione dei marmi più ricercati e più rari; e considerando inoltre che tali enormi spese erano state incontrate da semplici particolari, ad onta di lunghe e dispendiosissime guerre sostenute a difesa del proprio onore e della nazionale indipendenza. Niuno vi era che potesse di là scostarsi senza trarre una buona lezione anche per se medesimo, nell’ osservare gli effetti utilissimi delle buone leggi, e di un governo, che col lasciare a ciascuno la libertà di godere a suo modo dei frutti del proprio travaglio, era causa principale che se ne facesse un uso si buono.

Le occupazioni di questo virtuose compagnie, tra noi chiamate Scuole Grandi, e l’utilità che traevano da esse tutte le classi, e la repubblica stessa, l’abbiamo altrove toccato. Quella di San Rocco, composta di mercadanti, poté distinguersi fra tutte per ricchezza, e meritare con ciò dei privilegi esclusivi. Il giorno del Santo era il giorno del suo maggior trionfo. Si recava il Doge nelle sue barche dorate alla chiesa vestito nella maggior gala, e con l’accompagnamento della Signoria, del Senato e degli ambasciatori. Le principali cariche della Confraternita, chiamate la Banca, erano destinate ad accoglierlo. Il Guardian Grande gli presentava un mazzetto di fiori, e si collocava vicino ad esso; il Sotto-Guardiano ne presentava uno pure agli ambasciatori ed alla Signoria, mentre altri confratelli ne dispensavano a tutti gli altri del seguito. Entrato il Doge in chiesa ed approssimato all’altare maggiore, il Cappellano della Confraternita aveva il privilegio di dire la messa, mentre in tutte le altre occasioni spettava al Cappellano Ducale il celebrarla. Terminata la messa, i serventi portavano sopra grandissimi bacili d’argento candele di cera in copia, che venivano ad ognuno distribuite, cominciando dal doge. Di là passava la comitiva col Doge alla testa in una delle sale della Confraternita per adorarvi le Sante Reliquie, tesoro preziosissimo di quella Società. Se nel montare quelle superbe scale taluno si sentiva gelar d’orrore allo scorger dalle due bande dipinti al vivo i terribili effetti della peste, ogni impressione gli si doveva cancellare nel gettar l’occhio sul gran quadro della Crocifissione, che si presenta di fronte entrando nella sala, opera stupenda di Jacopo Tintoretto, del quale non si può veder niente, di più nuovo in soggetto così ripetuto, e nel quale risplende il vero genio e la scienza la più profonda.

Il doge non si partiva da quel luogo senza fare un gentil complimento, e dirigendo più particolarmente la parola al Guardian Superiore, lo commissionava di porgere alla società tutta l’approvazione del governo, e le assicurazioni della sua speciale predilezione. Aggiungeva poi, per suo proprio conto, le proteste della sua viva riconoscenza verso tutti i suoi buoni confratelli (giacché tutti i dogi al momento della loro elezione divenivano membri di questa Società) per I’accoglienza graziosa che ne aveva ricevuto. Riverenze sincerissime erano la risposta la più eloquente di tutti i cuori.

Il doge col suo augusto accompagnamento s’imbarcava finalmente, e ciascuno si restituiva alle proprie case; ma i buoni confratelli non sapevano separarsi senza parlare della felicità, e senza promettersi reciprocamente di continuare con tutti i loro sforzi ad onorare la religione, e a dedicarsi interamente a vantaggio e decoro della loro amatissima repubblica.

Se abbiamo tuttavia un resto di questa bella Solennità; se il decreto della sua soppressione, come pure della Confraternita e stato ritirato; se non fu convertito il superbo edificio, raro deposito di cose mirabili, ad usi profani e vili: se, spogliandolo delle sue ricchezze, non si osò spogliarlo degli oggetti delle belle arti, il dobbiamo alla perseveranza ed ai buoni uffizi del suo degno Cappellano don Sante Valentina, il cui ardente patriottismo, la cui divozione sincera, e il desiderio del bene non poterono mai affievolirsi, malgrado le tante opposizioni che egli ebbe a sostenere. Possa egli godere per lungo corso d’anni del residuo dei suoi privilegi, che forma il principale oggetto della felicità della sua vita. (1)

(1) GIUSTINA RENIER MICHIEL. Origine delle Feste veneziane. (MILANO 1829. Presso gli editori degli annali universali delle scienze e dell’industria.)

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