Pietro Gradenigo. Doge XLIX. Anni 1289-1311

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Pietro Gradenigo. Doge XLIX. Anni 1289-1311

Morto appena Giovanni Dandolo, il popolo tumultuante gridò doge Jacopo Tiepolo, figlio del doge Lorenzo, contro le leggi statuite ed approvate dal popolo stesso, siccome vedemmo. Senonché la singolare prudenza e bontà del Tiepolo valse ad acquetare la moltitudine, ritirandosi celatamente nella sua villa di Marocco.

Allora, raccoltisi gli elettori, secondo il rito convenuto, proclamarono doge Pietro Gradenigo, che si trovava a quel tempo podestà a Capodistria. Furono quindi spedite dieci galee per levarlo, e il dì 25 novembre 1289 prese possesso del trono ducale.

Il di lui reggimento fu gravido di grandi fatti, e tali che lo rese memorabile nei patri annali. E prima, una gloria splendeva sulla nazione veneziana, in Tomasina Morosini, figlia di Michele, la quale impalmata da Stefano, figlio di Andrea II, re di Ungheria, ed avutone un figliuolo, Andrea III, morto Ladislao, venne questi innalzato al trono dei suoi maggiori. Senonché, passato anche Andrea III a vita migliore, senza prole, Tomasina, in unione al fratello suo Albertino, che l’aveva accompagnata e dimorava con essa, ritornò in patria, ove morì nella casa che aveva fatto erigere a San Giuliano. Ed un’altra Morosini, di nome Costanza, figlia del procuratore Michele q. Alberico, impalmava, nel 1305, Uladislao re di Servia; donna di alto sentire e di senno profondo, che giovò a quel monarca coi suoi consigli.

Frattanto peggioravano le condizioni dei cristiani nella Palestina, per i progressi delle armi del Sultano d’Egitto; sicché, caduta Tripoli, era minacciata anche Tolemaide. E di vero, postovi finalmente assedio dai Turchi, nell’aprile del 1291, a nulla valsero gli sforzi dei difensori; e fu spettacolo miserando, allorché entrati quei barbari nella città, veder tutto al furore, alla rapina, alle stragi, esser soggetto. Perduto quest’ultimo resto delle conquiste in Oriente dell’armi cristiane, vani tornarono i disegni che in seguito furono fatti per riacquistare, con nuove crociate, il perduto. Da questa sciagura rimasero grandemente danneggiati i Veneziani nei loro averi e nei commerci e cercarono, in qualche modo, porvi riparo con i trattati, specialmente col sultano Naser Mohammed.

Ma più gravi mali doveva apportare a Venezia la guerra, che, dopo la caduta di Tolemaide, arse contro di Genova. Le cagioni di essa, e la prima vittoria di cui andarono coronate le armi veneziane, colla presa di Caffa, narrammo già nella illustrazione del dipinto, offerto alla Tavola CLXXXI bis, collocato nel soppalco della sala dello Scrutinio, ove per mano di Giulio Dal Moro veniva espressa.

Tale vittoria era però susseguita, dopo varie correrie sul mare e reciproci danni patiti, da una sconfitta. Si allestivano dalle due rivali repubbliche le loro flotte, per venire finalmente a una giornata campale che decider dovesse le antiche questioni. Quella di Genova era forte di ottantacinque galee, comandate da Lamba Doria: Venezia ne contava novantacinque, rette da Andrea Dandolo. S’ incontrarono il dì 8 settembre 1298, nelle acque di Curzola nella Dalmazia, ed il conflitto fu uno dei più terribili: quantunque i Veneziani operassero prodigi di valore, massime le dieci galee montate dai Chioggiotti, pure la rotta loro fu piena, sicché pochi legni poterono salvarsi e recare in patria la nuova funesta. Cinquemila cattivi caddero in mano dei Genovesi, fra quali il famoso viaggiatore Marco Polo, che, tradotto a Genova, trovava in quelle prigioni il pisano Rustichelli, al quale dettava il racconto dei suoi viaggi. Preso veniva eziandio l’ammiraglio Andrea Dandolo, il quale, non sapendo sostener la vergogna di sì grave sventura, pria di entrare nel porto di Genova catenato, diede del capo nell’albero della sua capitana, e morì.

Se per cotesta sconfitta doloravano i veneziani, non gioivano però molto i Genovesi. Gravissime perdite avevano patito pur essi, né per tanta vittoria avevano fine le pugne. Si dava mano in Venezia ad allestir nuova classe; e infrattanto piccole flottiglie, e le stesse navi mercantili armate in guerra, correvano i mori depredando quelle di Genova. Un cotale Domenico Schiavo, o Schiavo, penetrava con tre o quattro galee, come altri dicono, fino nel porto di Genova, e, ad insulto, si narra vi facesse batter moneta sul molo.

Si protraeva così la guerra micidiale fino al 1299, quando Matteo Visconti, vicario imperiale e capitano generale in Milano, volle farsi mediatore di pace fra le due repubbliche, e pervenne ad indurle ad un trattato, che fu sottoscritto il dì 25 maggio di quell’anno da Romeo Quirini e Gratono Dandolo, per i Veneziani; e da Ansaldo de Castro, Oberto Passio, Porchetto Salvatico e Nicolò Ferrari, per i Genovesi. Quantunque però era detto in quel trattato, che sarebbe perpetua pace fra l’una e l’altra repubblica, pure essa pace ben presto si ruppe, come vedremo. E poiché i Genovesi non fecero motto nello accordo del loro amico ed alleato Andronico, così questi rimase abbandonato alla vendetta dei Veneziani. I quali, non trovando quell’Augusto disposto ad inchinarsi a tutte le loro pretensioni, spedivano Belletto Giustiniani, con ventotto galee fin sotto le mura di Costantinopoli a devastare e mettere a fuoco vari casali: sicché Andronico dovette piegarsi, e conchiudere, il dì 4 ottobre 1302, con la Repubblica, una nuova tregua di dieci anni.

Nel mentre questi fatti accadevano al di fuori, veniva operandosi nell’ interno un grande mutamento nella costituzione fondamentale dello Stato.

E’ fu quella, che venne appellata, dal comune degli scrittori, la Serrata del gran Consiglio, ma che veramente, per la legge dell’ultimo febbraio 1297, non mirò ad altro che a depurare il Maggior Consiglio, affinché non fossero in esso introdotte persone non degne o capaci di sostenere la dignità ed a procurare il ben essere della Repubblica. E che ciò sia vero, lo vengono provando le elezioni, che dopo quel tempo si fecero di uomini nuovi a quel carico; il che risulta patente dai registri tuttavia superstiti. Nondimeno è da altro lato verissimo, che la conseguenza finale di tal legge, quella si era della esclusione del popolo da ogni cosa relativa alla pubblica amministrazione; sicché non poteva, per quanto si cercasse occultare il vero suo scopo, non risultare evidente agli occhi di molti popolani, i quali rimasero profondamente scontenti; e lo scontento loro frenarono finché arse la guerra con Genova.

Ma non appena questa ebbe fine colla pace accennata, ecco sorgere e dilatarsi più robusto il fuoco della discordia, e quindi ordirsi una trama onde rovesciare il nuovo ordine di cose. Capo di essa si fece Marino Bocconio, uomo ricco e di molto seguito, non di mente atta a condurre sì grave bisogna; sicché per la sua poca prudenza, venuto in sospetto e sopravvegghiato, si scoperse il suo disegno; per cui, preso con dieci compagni, fu impeso con essi fra le colonne della piazzetta; gli altri fuggiti vennero posti a perpetuo bando. Conseguenza di ciò fu la legge emanatasi il dì 22 marzo 1300, per la quale si rese difficile più l’ammissione nel Maggior Consiglio di uomini nuovi; mentre il malcontento del popolo fu contenuto, più che dalla fine funesta dei cospiratori, dalla nuova guerra rottasi coi Padovani.

Avevano questi, a difesa delle loro saline, eretto un forte presso alle paludi; della qual cosa mosse lagno la Repubblica: né le pratiche che ebbero luogo avendo ottenuto pacifico fine, eressero, i Veneziani, una bastita, che impediva il passaggio delle acque alle saline padovane, e di forte presidio la munirono. Poi Giovanni Soranzo assaliva d’improvviso, una notte, l’argine dei nemici, rispingendoli; e quindi poco poi, Eufrosio Morosini, dava l’assalto al forte in questione; continuando in seguito la guerra sotto altri capitani. Finalmente, per interposizione di Alboino della Scala, Guido Buonacorsi, capitano di Mantova, i signori da Camino ed il Comune di Treviso, fu conchiusa la pace il dì 5 ottobre 1304.

Rinnovava infrattanto, nel 1302, doge Gradenigo, la tregua con Michele Andronico, imperatore d’ Oriente; ma in seguito, sollecitato da Carlo di Valois, stringeva con esso trattato per la riconquista di Costantinopoli. Krasi infatti stabilita la spedizione per il marzo dell’anno 1307, ma trascorso il tempo, e volendo, per suo vantaggio, mutar Carlo i patti primieri, svanì, come le antecedenti, anche questa spedizione, sicché fu rinnovata un’altra volta la tregua coll’Augusto orientale, nel 1310.

Due ostacoli però, fra gli altri, si opposero perché avesse pieno effetto il trattato con Carlo, vale a dire, la guerra di Ferrara e la cospirazione di Boemondo, o Bajamonte Tiepolo. Ferrara, fino dal tempo della contessa Matilde, era venuta sotto una certa soggezione del Pontefice; poi, impadronitosi di essa il Salinguerra, e quindi questo cacciato, si erano impossessati i marchesi d’Este, fino ad Azzo VIII, il quale, vedutisi muovere contro Bolognesi, Veronesi, Mantovani, ricorse per aiuto alla Repubblica, la quale lo assistette in guisa da riuscir vincitore. Senonché, venuto Azzo a morte il dì 31 gennaio 1308, era chiamato, per di lui volere, alla successione Folco, figlio di Fresco, suo figliuol naturale, ad esclusione dei propri fratelli Francesco ed Aldrovandino. Da ciò nacque una guerra, nella quale Folco ricorse all’assistenza dei Veneziani, che, vagheggiando da un pezzo il dominio di quella città, spedirono ivi milizie sotto il comando di Nicolò Quirini. Francesco, dal canto suo, chiese aiuto a papa Clemente V, offrendosi di riconoscere la pontificia autorità in Ferrara, e tenerla quasi in feudo della Chiesa. Clemente accolse la proposta, e spedì tosto sue genti a prender possesso della città, d’ accordo con Francesco.

Frattanto il dominio di Fresco era venuto in odio al popolo, sicché, vedendo egli di non poter resistere contro gli avversari, deliberò spogliarsi della sovranità e cedere Ferrara ai Veneziani, ai quali infatti consegnò Castel Tedaldo col ponte e colla torre che lo guardava sul Po, non che tutto il borgo superiore, ritirandosi quindi a Venezia. Faceva tosto il Pontefice intimare alla Repubblica di desistere da qualsiasi intrapresa contro Ferrara; ma, entrate le truppe della Chiesa in quella città, i Veneziani, forti nel diritto per la cessione di Fresco, si diedero a batterla con grave suo danno. E poiché le varie pratiche tentate dal Pontefice per venire a conciliazione riuscirono vane, i suoi legati, il dì 16 ottobre 1308, pubblicarono una bolla di scomunica contro la città di Venezia, il doge, i consiglieri, i capitani, e tutti quelli infine che avessero presa parte nell’ oppugnazione di Ferrara; decretando in pari tempo la confisca di quanto i Veneziani possedevano in quella città, annullando ogni trattato o tregua od altro patto che qualunque comune o città avesse in proprio danno ed in favore di essi Veneziani, proibendo ogni commercio con questi e il trasporto di vettovaglie a Venezia, revocando ogni privilegio e favore concesso per l’addietro dalla santa Sede alla Repubblica, quando questa fra dieci giorni non avesse desistito dalla condotta finora tenuta, ed aderito alle domande del Pontefice.

Portata la grave bisogna alle deliberazioni del Maggior Consiglio, sorsero due diversi partiti, uno tenace nel voler tenere Ferrara, I’altro di abbandonarla, sì per reverenza alla santa Sede, e sì per non incorrere nelle censure ecclesiastiche, e farsi incontro ad una guerra funesta. Prevalso il primo partito, nacque poi nella città discordia e tumulto, per cui, venuti perfino alle mani, accaddero alcune uccisioni.

Senonché, mentre tuttavia si agitava la cosa, e continuavano i maneggi in via conciliativa, le armi veneziane non cessavano di batter Ferrara, per cui i cittadini proposero, il dì 2 novembre 1308, un accomodamento, col quale si stabiliva, fra le altre cose, che, salve le ragioni della santa Sede, fosse mandato a Ferrara un podestà veneziano; rimanessero in poter dei Veneziani il castello e gli altri luoghi occupati; pagassero i Ferraresi le guardie veneziane di detti luoghi. Accettati i patti ed approvati dal Maggior Consiglio il dì 3 dicembre 1308, fu spedito a Ferrara, siccome podestà, Giovanni Soranzo, e in qualità di capitano delle armi Vitale Michiel.

Ma poco andò, che pentitisi i Ferraresi della convenzione conclusa, mostrarono di volersene ritrarre: laonde, vedendo la Repubblica prendere aspetto minaccioso le cose, si preparò con ogni mezzo alla guerra.

Innanzi però di accingervisi, ammonì più volte i Ferraresi ad osservare religiosamente i patti convenuti; e poiché essi, confidando nel Pontefice, che si mostrava irritato contro i Veneziani, non s’ inchinarono a obbedienza, per non incorrere nelle paventate scomuniche, spediva la Repubblica a Clemente Ire ambasciatori, onde fargli intendere, sommessamente, ragione. Senonché, partiti questi il di 26 marzo 1309 alla volta di Avignone, ove il Pontefice aveva fissata sua sede, il giorno appresso Clemente stesso fulminava scomunica tremenda contro il doge e lo Stato, la quale doveva avere effetto dopo trenta giorni, che si dava alla Repubblica per ravvedersi, come quella bolla si esprimeva. Ma in quella vece la Repubblica, ferma nei suoi diritti, ordinava ogni cosa alla guerra, quantunque, pel tenore della bolla stessa, si trovava esposta a pericolo gravissimo, massime per la crociata che, a suo danno, aveva pubblicata il cardinale Arnaldo Pelagrua.

La guerra però incominciatasi, non progrediva in bene; e per un’epidemia manifestatasi nelle milizie veneziane, e per la perdita di castel Tedaldo, e conseguentemente per la disfatta della flotta sul Po, si dovette abbandonare del tutto Ferrara. La quale, venuta in poter di Francesco, questi incominciava a disgustarsi col Papa, per le scambievoli loro pretensioni; ed intanto Salinguerra III, venuto coi suoi ghibellini, se ne rendeva padrone; e con danno gravissimo della città, accaddero poscia altri fatti d’armi, per cui Ferrara stessa rimase alfine al Pontefice, che la dava in governo al re Roberto di Napoli, il quale poi dai cittadini medesimi veniva cacciato per mettersi sotto la protezione di Rainaldo duca d’Este.

Tutti questi avvenimenti però non avevano tolto gli effetti della scomunica, per la quale incalcolabili danni pativa la nazione. Onde porvi rimedio, e per acquetare lo scontento del popolo, per poco non tumultuante, si decise spedire nuovi ambasciatori a Clemente, affine di venire a conciliazione. Furono scelti Carlo Quirini e Francesco Dandolo, soprannominato Cane, ed ottenuta, dopo molte difficoltà, udienza dal Pontefice, seppe, l’ultimo massimamente, con tanta desterità condurre le pratiche, che alla fine, il dì 15 giugno 1311, si pubblicava intanto un armistizio, in virtù del quale era dato licenza ad ogni Veneziano di recarsi a Ferrara ed esercitarvi con tutta sicurezza i suoi traffici.

Non poté per altro doge Gradenigo vedere prima della sua morte il termine delle negoziazioni e levata la funesta scomunica; anzi, e pei danni patiti dalla nazione in questa guerra, e per gli antichi rancori, nati dalla così detta Serrata del gran Consiglio, andò soggetto a una tremenda congiura, che poco mancò che nol togliesse di vita, e con essa non fosse rovesciato lo stabilito sistema governativo.

E’ questa la congiura accennata di Bajamonte Tiepolo, il quale, unitamente al suo cero suo, Marco Quirini, fu scelto a capo da coloro che, da un lato, nutrivano particolare inimicizia contro il doge ed altri magistrati; dall’altro, mal soffrivano di essere stati, si diria quasi, espulsi dal Maggior Consiglio; e finalmente da coloro, che sofferto avevano gravissimi danni durante la guerra stessa, e che di presente ancor ne soffrivano, per la scomunica tuttavia in vigore.

Costoro quindi adunatisi, convennero di raccogliersi la notte che precedeva il dì 14 giugno 1310, nella casa di Marco Quirini ora detto, e in sul romper dell’alba uscir poscia in due schiere verso la piazza maggiore, una diretta dallo stesso Quirini e dai suoi figli Nicolò e Benedetto, l’altra da Bajamonte; e quella procedere per il ponte del Lovo (lupo), la calle dei Fabbri, il ponte dei Dai; e questa per le mercerie. Mandavano contemporaneamente a Padova Badoaro Badoer, a raccoglier genti in aiuto; e sorto il giorno fissato, quantunque imperversasse terribile bufferà nella notte, sicché il Badoaro fu impedito di accorrere a tempo con le genti raccolte, pure uscirono da casa Quirini a Rialto, gridando furibondi: Liberità e morte al doge! Un cotale Marco Donato, che, entrato dapprima nella congiura, erasi poi ritratto, aveva di ciò avvertito nella notte stessa il doge; il quale, d’animo forte, non si smarrì, ma alacremente provvide per ripulsare i ribelli. Accrebbe subitamente il numero delle sue guardie; spedì ordini pronti ai podestà di Chioggia, di Torcello e di Murano, affinché volassero colle loro genti armate; raccolse intorno a sé i magistrati supremi e quanti più poté del suo partito; fece che ognuno armasse celatamente i propri servi; ordinò agli arsenalotti di star parati ai comandi; ed allorché fu avvertito del movimento dei congiurati, si armò, scese nella piazza, ove fu accolto dalle schiere, guidate da Marco Giustiniani e dai Dandolo. Quindi, entrato appena il Quirini nella piazza colle sue genti, fu assalito dal Giustiniani; per cui, non attendendosi quello scontro, si diede a fuga precipitosa, nella quale rimasero uccisi, fra gli altri, lo stesso Marco Quirini e Benedetto suo figlio.

Dall’ altro lato si avanzava Bajamonte per le mercerie, e giunto sulla piazzuola di San Giuliano, per un istante si fermò, onde raccogliere i suoi, alfine d’irrompere da due vie sulla piazza; una cioè dalle mercerie stesse, l’altra da San Basso. Senonché, incontrate nell’uscire le genti del doge, si impegnò accanita battaglia, nella quale vennero da tutte parti respinti i ribelli, onde, nel fuggire, dalle grida e dal tumulto, scossi i cittadini corsero alle finestre, fra cui una Giustina o Lucia Rossi, la quale, nell’impeto della mossa, spinse al basso un mortaio di pietra stante sul davanzale, e per caso cadde sul capo dell’alfiere di Bajamonte e lo uccise. Bajamonte stesso, posto in fuga, si riparò con alcuni dei suoi oltre il ponte di Rialto, il quale, scudo allora di legno, fu tosto da lui ruinato. Gli avanzi intanto della schiera già retta da Marco Quirini, si rannodavano nella piazzuola di San Luca; ma anche qui trovarono uno scontro di altre genti armate dai confratelli della Carità e dalla consorteria dei pittori; dalle quali furono dispersi: sicché domata fu la rivolta di qua del canale. Rimaneva però ancora, oltre Rialto il corpo di genti comandate da Bajamonte; il quale erasi fortificato e munito nelle case, per cui se fosse giunto in tempo il congiurato Badoaro, non così facilmente si sarebbe potuto finire l’impresa. Ma il doge spediva contro Badoaro il podestà di Chioggia, Ugolino Giustiniani, che scontratolo, lo combatté, lo sconfisse e lo trasse prigioniero con tutti i suoi, Antolin Dandolo e Baldovino Dolfin, si designarono poi a cacciare dai luoghi occupati Bajamonte. Per risparmiare però il sangue cittadino, amò il doge, innanzi tratto, usare le vie di misericordia, inviando al Tiepolo, per ben due volte, messi ad offrirgli perdono ed amnistia; ma egli superbamente rifiutò le proposte. Allora Filippo Belegno, uomo venerando e di maschia eloquenza, volle egli stesso tentare l’animo di quel ribelle, e vi riuscì. Fu quindi conchiuso: Bajamonte, coi suoi, uscissero da Venezia e suo distretto: andasse egli a confine per quattro anni al di là di Zara, non però in terre nemiche: quelli ascritti al Maggior Consiglio, od aspiranti per diritto, per lo corso del tempo stesso, andassero al confinamento che loro sarebbe dal doge assegnato: gli altri, sommettendosi, troverebbero misericordia. Molti infatti chiesero perdono e l’ottennero; e in tanto processatosi il Badoaro e gli altri complici, caduti prigioni, furono giustiziati.

A render grazie a Dio per tanto favore, fu decretato perpetuamente festivo il giorno di San Vito, che cade il 15 giugno, e si premiarono poi tutti coloro che esposero sé stessi per salute della patria.

Onde prevenir poi le ulteriori macchinazioni dei ribelli si istituiva precariamente il Consiglio dei Dieci, il quale, in seguito, si prorogò di due in due mesi, indi ad anni cinque, poi a dieci, e finalmente si volle perpetuo: dovendo i membri che lo componevano durare in carica un anno, tempo che poi si estese a due. Era suo incarico vegliare alla sicurezza e prosperità dello Stato, alla tutela del cittadino, al buon costume. In mezzo a tante commozioni, scontento del popolo, arenamento dei commerci per la guerra di Ferrara e per la scomunica non per anche rimossa, moriva Pier Gradenigo, il dì 13 agosto 1311, non senza sospetto di veleno, come dice il Sansovino, e veniva tumulato, senza onori funebri, nella chiesa di San Cipriano di Murano, che era padronato della sua casa, entro un’urna di porfido senza inscrizione: urna che fu raccolta dalla sua famiglia, nella demolizione accaduta di quella chiesa, or sono alcuni anni.

Oltre l’istituzione del Consiglio dei X, furono al suo tempo create altre magistrature. Una fu quella dei Sopra-Consoli, decretata nel 1295, la quale intendeva alle faccende dei fallimenti. Poi furono aggiunti, nel 1298, ai due quattro altri consiglieri del doge, sicché questo corpo di sei fu appellato Consiglio minore del doge, o Signoria. Nel 1301, per decreto del Maggior Consiglio, venne eletto un Consultore di Stato, onde consigliasse le ragioni del Comune; e nel 1308 si ordinò la regolazione dei volumi delle leggi, e la loro collocazione nell’ ufficio degli Avvogadori di Comune.

Cercò doge Pietro altresì di stringere trattati coi vicini e coi lontani per vantaggiare possibilmente il commercio: ne concluse, nel 1309, con Adria, avente allora proprio podestà e consiglio: in Lombardia fece ogni sforzo per ravvivare l’interrotto traffico del sale (1302). Nuovi patti strinse, nel 1307, con Leone d’Armenia, e conchiuse, nel 1306, il primo trattato di commercio con Cipro.

Si fondava poi, durante il suo reggimento, nel 1294, la chiesa di Santo Stefano, e si rinnovava, nel 1297, quella di Santa Fosca. Instituivasi, nel 1299, il bersaglio, e nel 1303-1304, si ingrandiva, la prima volta, l’arsenale. Altre fabbriche ed abbellimenti otteneva la città. Oltre alcuni palazzi privati, nel 1301, si ordinava la erezione della Sala del Pregadi, e, nel 1300, si gettavano in bronzo due delle grandi porte della Basilica di San Marco.

Se quattro altre gravissime calamità, oltre le guerre, la rivolta e la scomunica narrate, afflissero la capitale, cioè, l’inondazione accaduta nel 1297, e le pesti che irruppero negli anni 1293, 1301 e 1307, delle quali perirono intere famiglie; cionnondimanco si mostrarono i Veneziani, all’ occasione, splendidissimi, e non degeneri dal carattere loro festivo. E di vero, qui giunto, nel 1304, Pietro, figlio di Dionigi re di Portogallo, fu incontrato con ogni pompa dal doge, convitato e festeggiato durante il suo soggiorno. Si vuole ancora che il Gradenigo instituisse la festa della regata per distrarre il popolo, dopo la congiura Tiepolo, e con straordinaria magnificenza abbellisse il bucintoro.

Il breve, che tiene nella destra mano il ritratto di lui, dice; variata però l’ultima parola del primo verso, che non è coegi, come riportano il Sanudo, il Sansovino ed il Palazzi, ma repulsi.

A FACIENDO SALEM PADVANOS MARTE REPVLSI,
VRBEM PVRGAVI PROPVLSIS SEDITIOSIS. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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