Gentiluomo veneto in abito d’estate
Anche nella bollente stagione d’estate non era senza pieghe, né senza coda l’abito, benché ordinario del gentiluomo, avendo una specie di strascico i segretari medesimi che pure al secondo ordine della nobiltà appartenevano, e bene spesso venivano anzi censurati, perché, sciolta la vesta, appariva di soverchio prolissa. Stabilirono infatti i padri nostri una foggia di vestito, che all’aria rispondesse di gravità, caratteristica del governo e dell’indole propria, per far risplendere la modestia nei giovani, e conciliare ad essi rispetto. E giacché fu l’animo dei Veneti intento sempre alla pace, immaginassi di esprimere la qualità dell’abitudine loro col lungo indumento, di falde abbondante, diverso dall’ altro corto e succinto, proprio del guerriero baldo ed ardente.
E vollero anche i veneti significare la religione, a cui avevano il cuore composto, con insegne, bensì ricche adornate, ma non spiranti effeminata mollezza, ad imitazione dei Romani, che incedevano nelle vie con senatoria maestà, corretto il lusso e il portamento di cui troppo sottilmente faceva pompa un Ortensio, che attillato e fastoso chiamò in giudizio un viandante, che per mero accidente le minute pieghe scompose della studiata e voluminosa sua toga. Indossava quindi nell’estate il patrizio una leggera sopravveste, tutta nera di seta, e nero gilet ricchissimo, da un capo all’altro, e d’ambi i lati con bottoniere, somigliante a corsettino, che si apriva alquanto nel mezzo. Non aveva pelli naturalmente, e portava come sottile l’usata cintura, più leggera assai la parrucca; signorile e merlata era la bocchetta; aveva conformi i manichini, e larghe le maniche, ma strette in bocca, che si dicevano a corneo, per porvi dentro guanti, fazzoletti e scritture. Di seta erano parimenti le calzette, e come l’insieme degli abiti si lavoravano a Venezia.
Poiché ricchissima fioriva l’arte dei Semiteri tra noi, o del setificio, non avendo avuto altrimenti i veneziani la cognizione di tale industria, come pretendono alcune cronache, dai trecento e più artefici, che qui da Lucca trapiantarono il traffico, provando il Marin nella sua Storia del commercio, che altro i lucchesi non fecero, che raffinarla forse e renderla più perfetta, sì nel tessuto, che nella tintura e nel di legno, essi, che nella Corte de la Seda a San Giovanni Grisostomo dimorarono, e fino a Rialto si sparsero, e per la calle detta per corruzione della Bissa, dal bisso forse, che vi si lavorava. Quantunque in più siti della città si trovassero artefici a cui ricorrere per la formazione degli abiti, aveva pur maggiore la frequenza dei clienti quel sarto al ponte per ciò detto delle Veste a San Fantino, che ne conservava, a così dire, il taglio, sebbene di raro se ne facesse la rinnovazione, come di soverchio costosa, occorrendo cinquecento ducati soltanto per mettere in ordine un Segretario, e cento ducati importando la sola fascia. Era punto importante infatti l’uniformità e l’esattezza in un abito che sì naturale e precisa dava l’idea del carattere, dell’animo e delle abitudini del patrizio, da far trovarsi accoppiate senza contraddizione la bontà e il lusso, la moderazione e la grandezza. (1)
(1) Occhiate storiche a Venezia. GianJacopo Fontana. Giuseppe Grimaldo editore, Venezia 1854.
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