Chiesa e Monastero del Santissimo Salvatore vulgo San Salvador

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Chiesa di San Salvatore - San Marco

Chiesa e Monastero del Santissimo Salvatore vulgo San Salvador. Monastero di Canonici Scopetini. Monastero secolarizzato

Storia della chiesa e del monastero

Dopo aver ordinata circa l’anno 638 la fondazione di due chiese in Venezia, dedicate l’una all’apostolo San Pietro, ed all’Arcangelo San Raffaele l’altra, accettò il vescovo d’Oderzo San Magno un altro comando dal Salvator del Mondo, il quale a lui apparso in visione gli additò di voler ivi a suo onore fabbricata una chiesa, dove vedesse nel mezzo della nascente città rosseggiare una nuvola. Per adempiere questo divino volere reso noto dal santo prelato, le famiglie dei Carosii e dei Gattolosi supplirono alle spese della sacra fabbrica, la quale in una cronica del XIII secolo viene descritta così: Fu fatta la Chiesa del Salvatore col pavimento formato di grate di ferro, che di sotto venivano bagnate da un meato d’ acqua, come si vede fatta in Gerusalemme la Chiesa del Sepolcro del Signore. Sin dalla sua origine fu fatta parrocchiale, e ci restano ancora tratti da antichi documenti i nomi d’alcuni piovani, che precedettero nella cura dell’anime Bonfiglio Zusto, e egualmente pio che nobile sacerdote. Allevato questi sino dalla sua infanzia nello studio d’una soda pietà ebbe in tutto il corso della sua vita un tal attacco all’esercizio delle Cristiane virtù, che non si dubita punto, che abbia egli conservata sino alla morte intatta la sua virginità. Applicatosi al servigio della Chiesa, e fatto piovano di San Salvatore condusse nello stato d’ecclesiastico secolare una vita da austerissimo monaco, finché per desiderio d’intera perfezione volle abbracciare, e introdur nella sua chiesa l’istituto dei Canonici Regolari di Sant’Agostino. Comunicò dunque gli interni suoi impulsi al buon patriarca di Grado Enrico Dandolo, e da esso animato nella sua impresa trasse nella sua risoluzione il clero tutto della sua chiesa: onde di cuore uniforme nel giorno 3 di maggio dell’anno 1141, vestirono l’abito di Canonici Regolari sotto la regola di Sant’Agostino. Arse di sdegno a tal notizia il vescovo di Castello Giovanni Polani, e perché senza di lui assenso eseguita si era tal mutazione sospese il clero della chiesa dalla celebrazione dei divini ufficio.

Abbandonato dunque dai suoi, né potendo ritrovar compagni per le insidiose persecuzioni dei suoi emuli, ebbe ricorso al patriarca Enrico, che si portò a Roma esse al pontefice Innocenzo II tutta la serie dei fatti, ed esaltò con somme lodi il nuovo istituto, ed il di lui fondatore. Penetrato il pontefice del merito di tal opera con ampio diploma del giorno 13 di maggio dell’anno 1141, accolse la chiesa, e il monastero di San Salvatore sotto la protezione della sede apostolica, e determinò, che l’istituto ivi fondato dei Canonici Regolari di Sant’Agostino dovesse perpetuamente stabile continuarvi. Anzi per dar una prova maggiore di sua predilezione mandò per cooperatori al buon servo di Dio due dei canonici della Basilica Lateranense, Pietro e Catone, i quali tenendo a freno le molestie dei maligni diedero un presto avanzamento alla stabilita istituzione. Furono poi le beneficenze Pontificie d’Innocenzo Il. confermate ed ampliate con nuovo decreto da Eugenio papa III nel giorno 20 d’agosto dell’anno 1148.

Quantunque però e dalla suprema autorità dei romani pontefici, e dall’ innocenza delle proprie azioni dovesse essere difeso contro gli sforzi della malignità il sant’uomo, contuttociò non desistettero dal perseguitarlo i di lui nemici, osando essi sino di stendere le sacrileghe mani a ritenerlo, e l’avrebbero sacrificato al lor furore, se opportunamente sottrattosi non si fosse rifugiato nel chiostro. Ivi pure tentarono con violenza di sorprenderlo, senonché avvisati i di lui parenti accorsero alla difesa; onde convenne all’ uomo di Dio con preghiere ritirarli dalla vendetta; dopodiché per desiderio della quiete si condannarono da per se stesso ad un volontario esilio si ritirò nell’Isola di Veglia, ove per sette mesi operò con zelo apostolico per beneficio di quegli abitanti, riducendone molti a salutare penitenza. L’applauso fino alla sua carità accrebbe il furore dei suoi nemici, che portatisi a Veglia ivi barbaramente trucidarono il sant’uomo, che spirò pregando Dio di perdono ai suoi assassini nel giorno 24 di aprile, ottavo mese del volontario suo esilio. Comparvero poi a testimonianza della di lui santità lumi prodigiosi sopra il di lui sepolcro, e poco tempo dopo essendo venuto nella Dalmazia il patriarca Enrico Dandolo, arrivò anco a Veglia, ove ottenuto il venerabile corpo, seco lo condusse a Venezia, e dai suoi Canonici fu collocato onorevolmente in un’arca di marmo dietro la mensa dell’altare maggiore. Morì l’uomo di Dio chiaro per virtù, e per miracoli nell’anno 1151 dieci anni dopo l’approvazione di sua religione.

Successe nel priorato un uomo attentissimo al bene di sua canonica, alle di cui preghiere Eugenio papa III nell’anno 1153, commise a Giovanni Polani vescovo di Castello il dover conservare e difendere i Canonici di San Salvatore nel possesso delle decime parrocchiali, assegnate per la loro sussistenza; e per il mantenimento della chiesa impetrò pure il buon priore nell’anno susseguente 1154 da Anastasio papa IV un diploma, in cui confermandosi tutti i privilegi d’Innocenzo II si specificano nominatamente le decime parrocchiali, per la puntuale esazione delle quali ottenne essendo egli presente in curia romana efficaci lettere da Adriano papa IV dirette ai suoi parrocchiani, perché con esattezza adempissero l’ecclesiastico obbligo della contribuzione delle decime. Insorsero poi sotto il governo di Guido Marengo eletto priore nell’anno 1156, acerrime contese con la parrocchia di San Bartolommeo per alcune case poste nei confini delle due parrocchie, le quali dall’una, e dall’ altra chiesa egualmente si pretendevano di propria ragione. Fu agitata lungamente la controversia avanti al patriarca Enrico Dandolo, e ad Ildebrando cardinale legato apostolico, giudici delegati, per concorde giudizio dei quali fu deciso nell’anno 1161 appartenere le case contenziose alla Parrocchia di San Salvatore; sentenza che nel giorno 13 di giugno dell’anno stesso fu confermata con apostolico diploma dal pontefice Alessandro III che poco dopo destinò il priore Guido Marango alla sede vescovile d’Emonia, detta Cittanova nell’Istria. Gli su sostituito nel priorato Viviano Fioravanti uomo dottissimo, per di cui riguardo il sopra lodato Pontefice Alessandro III confermò con amplissima bolla segnata nel giorno 5 di gennaio dell’anno 1166 tutti i privilegi dei suoi antecessori, e la sentenza del patriarca e del cardinale sopraccennata; e poi nell’anno susseguente 1167, con risolute lettere commise al patriarca-Dandolo, ed a Vitale Michiel vescovo Castellano, che dovessero far inviolabilmente eseguire la sentenza stessa obbligando i contumaci sotto pena di scomunica alla puntuale e pronta osservanza . Essendo poi stato reso consapevole il pontefice della filiale ubbidienza dei parrocchiani, volle egli con apostoliche lettere a lor dirette nel giorno 24 settembre dell’anno stesso 1167, dimostrarne lodandoli il proprio aggradimento, e dipoi per nuova prova del suo affetto riconfermò nell’ anno 1168, tutti i privilegi e prerogative del monastero. Per aumentarne poi il decoro concesse al priore Viviano, e ai di lui successori l’uso della mitra, e bastone pastorale, lodando la di lui costanza per la fervorosa divozione mostrata verso la sacra persona del romano pontefice in quei tempi di scisma cotanto torbidi e pericolosi. Per dar fine a questa luttuosa dissensione, e conciliare la pace fra la chiesa e l’impero si portò poi Alessandro III nell’anno 1177 a Venezia, ove dimorando consacrò nel giorno 24 d’agosto la chiesa di San Salvatore, concedendo spirituali indulgenze a chi in tal giorno, e nella solennità della Trasfigurazione del Signore, devotamente la visitasse. Avendo poi nell’ anno 1179 nuovamente confermata la sentenza d’Enrico, e di Ildebrando, giudici apostolici delegati, elesse nell’anno susseguente il priore Viviano al vescovado di Equilo, o sia Jesolo nelle Venete Lagune.

Continuarono anche sotto il priore Martino Venier le beneficenze apostoliche. Poiché Lucio III, avendo nell’anno 1181 accolti sotto la protezione di San Pietro i canonici, e confermate tutte le loro prerogative, e giurisdizioni, e nell’anno susseguente avendo ricevute le loro querele contro l’obbedienza del piovano di San Bartolommeo, comandò con espresse lettere al vescovo di Torcello, ed al priore di Santa Maria della Carità, che formato diligente esame, se ritrovati avessero il piovano e preti di San Bartolommeo contumaci, e resistenti alla tante volte confermata sentenza, li dovessero tosto sospendere dai divini uffici sino all’intero adempimento del lor dovere. Mentre dunque vassi indagando della verità dei fatti, il piovano di consenso dei suoi preti promise ai giudici delegati di ricevere come una confessione d’obbligo, quanto essi stabilissero; al che avendo aderito anche il priore, e Canonici di San Salvatore, fu dai commissari apostolici definitivamente stabilito nell’anno 1183, che la chiesa di San Salvatore avesse un certo ed intero ius parrocchiale sopra le cose controverse. Con loro sottoscrizione il piovano e clero di San Bartolommeo accettarono la sentenza, la quale poi nell’ anno 1185, fu confermata con autorità apostolica da Lucio con lettere trasmesse al priore, e canonici in data del giorno 13 di luglio. Perché poi fosse stessa inviolabilmente osservata commise con altre lettere, segnate nel giorno 17 del susseguente settembre, ai vescovi di Castello, e di Torcello, che obbligar dovessero gli abitanti di quelle case a riconoscere coi dovuti diritti la Chiesa di San Salvatore. Memore poi il pontefice d’avere, mentre era cardinale, consacrato nella Chiesa di San Salvatore l’altare dedicato a San Tommaso Cantuariense, concesse indulgenza d’otto giorni a chi visitasse la stessa chiesa nella solennità del santo martire.

Frattanto mentre andava fra continuati litigi passando il tempo, la chiesa, danneggiata anco dagli incendi, si approssimava alla rovina: perlochè Gregorio Fioravanti, nipote del sopra lodato Viviano, succeduto a Martino Priore nell’anno 1182, intraprese di rifabbricarla dai fondamenti con più dilatata e decorosa struttura.

Dopo di ciò Urbano III, eletto Pontefice in Verona, ivi con suo diploma nell’anno 1186, rinnovò, e riconfermò tutte le antiche prerogative, privilegi e ragioni del Monastero di San Salvator di Venezia. Maggiori furono le beneficenze, con le quali arricchì i canonici Gregorio VIII nel breve corso del suo pontificato, che non arrivò ad un bimestre. Poiché nel giorno 11 di novembre con efficaci lettere esortò il vescovo Marco Niccola a voler per il ben della pace concedere la chiesa di San Bartolommeo ai Canonici Regolari di San Salvatore, che con nuovo privilegio da lui fu esentato nel giorno 16 dello stesso mese da qualunque aggravio di decime. Cinque giorni dopo unendo in un solo diploma tutte le concessioni pontificie, e le sentenze emanate a favore dei Canonici, nuovamente con apostolica autorità le confermò.

Successe a Gregorio VIII, nella sede di San Pietro Clemente papa III, il quale nell’anno 1188, con tre successive bolle confermò gli antichi privilegi del monastero, gli permise di crearsi un economo per l’amministrazione dei beni temporali, e nuovamente lo esentò dal pagamento di ecclesiastiche decime. Fu creato poi nell’anno 1191, sommo pontefice Celestino III, e questi nel giorno 27 di gennaio dell’anno 1195, comandò (il che si era pure ordinato da Lucio III, da Urbano III, da Gregorio VIII, come si è detto di sopra, e da Clemente III romani pontefici) a Marco Niccola vescovo di Castello, il dover unire ed incorporare la Chiesa Parrocchiale di San Bartolommeo a quella di San Salvatore, concedendola ai Canonici Regolari ivi abitanti. In ubbidienza al risoluto comando del pontefice, fu costretto il vescovo, benchè contro sua voglia, eseguire finalmente la decretata unione; e nel giorno 15 di gennaio dell’anno 1197, concesse la Chiesa di San Bartolommeo con tutti gli ornamenti, rendite, e giurisdizioni di essa al priore Gregorio Fioravanti, che per sé, e per i suoi successori ne rese immediate il possesso, confermandone poi l’investitura lo stesso pontefice Celestino III, nel giorno 8 d’agosto susseguente. Ma avendo poi il pontefice Innocenzo III, apertamente riconosciuto, che ai suoi precessori taciuta si era la verità della transazione seguita fra le due chiese, e che dalla stabilita unione si era nel popolo di Venezia originato non leggiero scandalo, (come lo aveva con pubbliche lettere dinotato allo stesso pontefice il doge di Venezia) perciò con apostoliche lettere dirette nel giorno 18 di giugno dell’anno 1199, al patriarca di Grado dichiarò sciolta e annullata la seguita unione, e comandò, che le antiche sentenze, e la susseguente transazione accordata dalle parti, fossero nel sito intero eseguite. Perché però da tale scioglimento non ne derivasse pregiudizio veruno al monastero nella primiera sua giurisdizione, con altre sue lettere emanate nell’anno 1204, comandò il pontefice ad Angelo Barocci, allora primicerio castellano, che costringere dovesse anche con ecclesiastiche censure il piovano, e clero di San Bartolommeo all’esatta osservanza delle cose già convenute. In adempimento dei pontifici decreti, il primicerio giudice delegato con sua sentenza del giorno ultimo di gennaio, obbligò i preti della parrocchiale di San Bartolommeo ad eseguire la transazione già da loro accordata, e che fu poi nuovamente dal pontefice Innocenzo riconfermata nel giorno 6 di aprile dell’anno 1205. Frattanto mentre il commissario apostolico operava nella cognizione della causa, il pontefice con nuovo diploma del giorno 27 ottobre 1204, accolse nuovamente sotto la protezione di San Pietro il monastero, ed i canonici di esso, riconfermando i privilegi, ed esenzioni accordare dai papi suoi antecessori. Essendo poi nata, ed approvata la sentenza del primicerio, volle di bel nuovo con apostolica autorità nel giorno 6 di aprile 1205 riconfermare l’antica convenzione, seguita tra le due chiese; raccomandandone poi il provido Pontefice la esecuzione alla vigilanza del vescovo castellano con replicare lettere, scritte ad esso negli anni 1205 e 1207 in ubbidienza alle quali comandò il vescovo, che sotto pena di scomunica dovessero da chiunque le cose di già stabilite inviolabilmente osservarsi. Non però ebbero fine le controversie del che essendosene querelati presso il pontefice il priore, ed i canonici di San Salvatore, comandò egli nel giorno 2 di luglio dell’anno 1209, che nello spazio di tre mesi di tempo si dovesse o con definitiva sentenza, o con trattato accordato dalle parti, dar termine alle troppo lunghe contese.

Quantunque fossero i canonici turbati nella loro quiete dai fastidiosi litigi, nonostante però non tralasciavano d’attendere con diligenza a ciò che riguardava il divino culto. Onde nell’anno sopraddetto 1209 già si vedeva perfezionata la fabbrica della chiesa, e del campanile; dopo di che nel mese di dicembre dello stesso anno passò a miglior vita il priore Gregorio, a cui fu sostituito Giovanni Malipiero, che nell’anno susseguente 1210, fu promosso alla chiesa vescovile di Caorle.

Insorse dopo questo tempo altra controversia tra i poveri della parrocchia di San Salvatore, ed il vescovo castellano, sopra la divisione delle decime mortuali; dolendosi i poveri, che non fosse loro assegnata la giusta porzione ad essi spettante. Sopra di ciò ne furono istituiti nell’anno 1232. Giudici delegati l’abbate di Carrara, e due canonici di Padova dal pontefice Gregorio IX, che poi nell’anno 1235 confermò al monastero di San Salvatore tutti i privilegi, e prerogative. Anche l’imperatore Federigo II, essendo in Verona nell’anno 1238, donò al monastero stesso la sua protezione per tutti quei beni, che da esso erano posseduti nei paesi dell’impero romano.

Intanto il tempo di tre mesi stabilito da Innocenzo III, alla definizione delle contese tra le due parrocchie di San Salvatore e di San Bartolommeo, si era prolungato dall’anno 1209, fino al pontificato d’Innocenzo IV, eletto alla sede di San Pietro nell’anno 1243. Questo pontefice, che già negli anni 1245. e 1253, concessi aveva decorosi privilegi d’indulgenze alla chiesa di San Salvatore, vedendo che gli antichi litigi non cessavano mai di progredire, destinò giudice delegato Pietro Pino vescovo di Castello, che prevenuto dalla morte non poté dare fine all’ostinata contesa, che poi agitata sotto molti altri giudici delegati ebbe finalmente fine nel tempo di Niccolò IV, sommo pontefice.

Le vessazioni sostenute dai religiosi furono frattanto compensate con l’acquisto da essi fatto nell’anno 1257 del sacro corpo del martire San Teodoro, (come diremo) e con l’istituzione della Congregazione di San Salvatore, una delle 9 del clero, fondata nell’anno 1291, nella loro chiesa. Poco dopo però per turbare la pace dei religiosi insorsero discordie tanto più perniziose, quanto più interne. Poiché, morto nell’anno 1309, Benedetto priore (quegli che aveva abbellita la chiesa con la ricca tavola d’argento dorato, che si vede all’altar maggiore) i canonici divisi in due fazioni elessero per priori del monastero Pietro Civran veneziano, e Rolando Torelli padovano, le contese dei quali non mai con sentenza decise, ebbero poi fine nell’anno 1316, per la morte di Pietro Civran, e restò allora in pacifico possesso del priorato Rolando Torelli, che morto nell’anno 1323. A questo succedettero altri priori sino all’anno 1359, in cui fu eletto Francesco de Gratia, che con lodevole diligenza tesse una piccola cronica di questo monastero fin ai suoi tempi. Dopo d’esso si perdettero i nomi dei priori, che furono di lui successori fino a Giovanni Bon, che per il merito di sua religiosità, e dottrina fu da Bonifacio IX, nell’anno 1395, destinato insieme coll’abbate di San Giorgio Maggiore, visitatore, e correttore apostolico dei monasteri, e luoghi pii, esistenti nelle diocesi di Venezia, Chioggia, e Torcello. Aveva prima lo stesso pontefice nell’anno 1390, sollevato ed esentato il Monastero di San Salvatore da qualunque giurisdizione del Vescovo di Castello; perloché a maggior decoro della persona del priore, volle nell’anno 1400, concedergli l’uso della mitra, e di altri ornamenti pontificali; permettendogli pure di potere nelle messe ed uffici festivi dar la solenne benedizione agli astanti. Per premiare però con qualche più luminosa dignità il merito del priore, lo destinò Bonifacio IX al vescovado d’Emonia, e concesse il Monastero di San Salvatore in commenda a Leonardo Delfino, allora patriarca d’Alessandria, ma riuscendo ciò discaro al senato, ritrattò il pontefice l‘elezione fatta, e restituì Giovanni al suo priorato.

Essendosi poi nelle fatali circostanze del lungo scisma introdotta fra i canonici la rilassatezza, fu il monastero ridotto in priorato commendatario, a cui si legge eletto dal Senato nell’anno 1418, Baldassare Lando veneziano, teologo dell’ordine dei Servi di Maria Vergine.

Si legge poi nei pubblici documenti Martino dei Bernardini priore commendatario nell’anno 1424, in cui fu eletto vescovo di Capodistria; e Giovanni Morosini nell’anno 1424 dopo dei quali ottenne per concessione di Martin papa V, il priorato di San Salvatore Gabriel cardinal Condulmiero, che destinò ad ufficiarne la chiesa i Canonici Regolari della Congregazione Lateranense, i quali però dopo la permanenza di pochi mesi desiderosi di vivere con maggior quiete rinunziarono al beneficio ricevuto, e se ne ritirarono.

Fu assunto poi al governo della chiesa universale col nome d’Eugenio IV, il cardinal Condulmiero, che desideroso di veder restituito con splendore il divino culto in un luogo così illustre, lo confermò alla prudente direzione di Tommaso Tommasini domenicano, vescovo di Traù. Avendo poi inteso per relazione dello stesso vescovo, che in San Salvatore abitava un solo vecchio canonico, e che due o tre altri, che dispersi andavano vagando, ancorché personalmente risiedessero, sarebbero inutili alla riforma, comando perciò il pontefice nel giorno 11 di gennaio dell’anno 1434, al Tommasini confermato amministratore, che da qualunque ordine religioso della regola di Sant’Agostino, eccettuatine però i mendicanti, accettar potesse 25 persone, istituendoli Canonici Regolari nel Monastero di San Salvatore; il quale poi dal pontefice stesso nel giorno 18 del susseguente febbraio fu esentato da qualunque giurisdizione del vescovo castellano, e del patriarca di Grado. Nell’anno stesso concesse Eugenio papa spirituali indulgenze a chi visitasse la chiesa nei giorni solenni della Trasfigurazione del Signore, e del martire San Teodoro, e con altra bolla permise al vescovo amministratore di poter vendere alcuni beni della canonica per risarcirne, e rinnovarne le fabbriche rovinose. Si radunarono intanto a tenore del pontificio comando nella canonica di San Salvatore alquanti religiosi, tratti da esteri chiostri, e differenti congregazioni; ma ben presto si conobbe, che uomini educati con costituzioni diverse, difficilmente potevano convenire in una comune maniera di vivere. Di ciò reso avvisato il pontefice, sciolta la stabilita unione, e rimandati i soggetti ai loro primi monasteri, credette più vantaggioso lo scegliere da una sola congregazione i canonici, e con precetto vocale chiamò ad abitare nel monastero i Canonici Regolari della Congregazione di San Salvatore di Bologna, che fiorivano allora con fama di singola virtù. Fu accolto con umile riconoscenza l’invito pontificio dal generale della congregazione, la quale spedì tosto a Venezia diciotto dei suoi canonici sotto il governo di Luca Bardi fiorentino, destinato vicario. Furono tali gli argomenti di esemplarità, e zelo dati dai buoni religiosi nel breve giro di dieci mesi, che credette il pontefice farne di essi una stabile famiglia. Onde avendo nel giorno 12 di febbraio dell’anno 1441, arricchito di nuovi privilegi il monastero, e dichiarata esente la chiesa da qualunque giurisdizione della chiesa matrice, unì poi nel giorno del susseguente giugno l’uno e l’altra alla congregazione dei Canonici Regolari di San Salvatore di Bologna dell’Ordine di Sant’Agostino. Dopo ciò fu eletto primo Priore della Canonica il sopra lodato Luca Bardi, che desideroso di ridur a totale perfezione le fabbriche del monastero, ottenne da Eugenio IV, nel giorno 20 di settembre dell’anno stesso 1442 un privilegio, di poter commutare i vori dei religiosi pellegrinaggi in equivalenti elemosine destinate per il compimento dei sacri edifici.

Destinarono poi i canonici un sacerdote secolare, che con nome di curato attendesse alla cura dell’anime dei parrocchiani, nel qual ufficio avendo posto un certo prete di nome Matteo Cochi, e volendo poi anche con decreto del vicario patriarcale rimuoverlo, egli se ne appellò alla Santa Sede, pretendendo d’esser vicario perpetuo, ed inamovibile. Rimise il Pontefice Pio II la cognizione della causa con replicati diplomi dei giorni 8 maggio, e 25 giugno dell’anno 1460 al giudizio dei delegati apostolici; ma procedendo troppo in lungo il litigio, con risoluto decreto emanato nel giorno 27 febbraio dell’anno 1461, abolita qualunque appellazione, confermo la giurisdizione dei canonici, ed impose perpetuo silenzio alle ingiuste pretese del sacerdote Matteo.

Dallo stesso Pio II e dai pontefici successori ottennero poi i canonici riguardevoli privilegi così a vantaggio del monastero, che a decoro della chiesa, che circa la metà del XVI secolo con pio coraggio cominciò a rinnovarsi in maestosa forma con gravissimo dispendio. Ridotta poi a perfezione nell’anno 1665, fu per opera di Giovanni Alberto de Grandis allora abbate del monastero (avevano già ottenuto i priori nell’ anno 1635 il titolo di abbate) e poi vescovo di Chioggia, solennemente consacrata nel giorno 30 di marzo 1739 da Francesco Antonio Correr dell’Ordine dei Minori Cappuccini, patriarca di Venezia, fra di cui precessori si annovera Antonio Contarini canonico regolare di San Salvatore, ed alunno di questo monastero.

Apportò decoro a questa canonica il Beato Arcangelo Canetolo con la lunga dimora fattavi di dieci anni, ove diede illustri prove di sua virtù, mentre destinato dal superiore all’accoglimento dei forestieri, ebbe incontro di dover servire a tavola l’uccisore di suo padre, e benché fortemente tentato alla vendetta, seppe con costanza raffrenare i moti interni dell’animo suo, seguendo religiosamente il suo uffizio.

Più grande però, e più durevole fu l’onore che ricevette questa chiesa (come si è detto) nell’anno 1757 con il trasporto fatto in essa del venerabile corpo di San Teodoro capitano dei soldati, e glorioso martire di Cristo in Eraclea, città della provincia di Ponto, il di cui trionfo viene da ambe le chiese latina e greca rammemorato nel giorno 7 di febbraio. La chiesa veneta ne celebra la festa solennemente come di santo protettore della città nel giorno 9 di novembre, in cui il breviario romano ripone la memoria di un altro San Teodoro soldato e martire sotto Massimiano imperatore, il quale probabilmente era l’antico protettore di Venezia, ed a cui Narsete generale dell’imperatore Giustiniano fabbricò in Venezia una chiesa.

Comunque sia la cosa, che per la poca attenzione dei secoli andati passò per equivoco in confusione, il Santo martire Teodoro, di cui riposa il corpo in San Salvatore, viene riconosciuto dalla città come uno dei suoi protettori, la di cui traslazione, per quanto si raccoglie da un antico codice della scuola grande istituita a di lui onore, seguì in tale maniera.

Nell’anno 1257 Giacomo Dauro nobile veneziano, si portatò a Costantinopoli, ivi fu destinato capitano di una squadra di galere contro i Vallachi, con la quale marciò all’assedio di Messembria, che da lui in pochi giorni fu felicemente espuagnata. Si portò poi in pompa alla chiesa maggiore della città, detta di Santa Sofia, da essa ne estrasse il corpo del glorioso San Teodoro, che portò seco a Costantinopoli, e lo ripose nella chiesa di San Niccolò chiamato d’EmboIo, allora posseduta dai veneziani. Quivi riposò per dieci anni, finché Marco Dauro parente di Giacomo lo tradusse a Venezia, e lo collocò nella chiesa del Salvatore Gesù Cristo. Ivi glorificò Iddio il suo campione con illustri e numerosi miracoli; onde s’accrebbe la devozione del popolo, e fu istituita, o piuttosto rinnovata una confraternita di devote persone ad onore del Santo martire, come si trova registrato nei codici di essa scuola.

Sin dai primi tempi della fondazione di Venezia (così dicono i vecchi) fu preso San Teodoro per protettore della nascente città, e fu a di lui onore istituita una confraternita, il di cui ospizio divampò in assieme con la scuola di San Marco, e si sciolse l’unione dei Confratelli. Trasportato poi da Messembria a Costantinopoli, e da Costantinopoli a Venezia il corpo di San Teodoro martire, ed unitamente con esso il braccio, e mascella di Sant’Andrea apostolo, il braccio di San Bartolommeo, ed il capo di San Sisto (reliquie che tuttora si custodiscono, e venerano nella chiesa di San Salvatore) fu ristabilita nell’anno 1768 la devota scuola sotto l’invocazione del Santo martire Teodoro; e per autorità del senato fu poi nel giorno 21 di settembre dell’anno 1450 comandato, che la festa di San Teodoro (legata, come si è detto, per equivoco al giorno 9 di novembre) dovesse esser solennemente osservata, come si praticava, degli altri santi protettori della città. Cresciuta poi in numero ed in decoro la scuola fu nel giorno 26 marzo dell’anno 1552, con decreto del consiglio dei dieci annoverata in sesto ed ultimo luogo, alle Scuole Grandi della città. Eresse poi la confraternita nella rifabbricata magnifica chiesa di San Salvatore un onorevole altare al santo martire suo protettore con decente urna di scelto marmo, in cui nel giorno 13 di dicembre dell’anno 1628, con devota processione con l’intervento del doge, e del senato fu riposto il santo corpo per mano di Giovanni Tiepolo patriarca di Venezia assistito da molti altri vescovi, ed abbati a decoro della sacra funzione.

Giace sepolta in questa chiesa vicino alla porta, che conduce alla libreria, Caterina Cornara, regina di Cipro, e seco lei Marco, Francesco, ed Andrea tre illustri cardinali della di lei nobilissima famiglia.

Opportuno riuscirà alla relazione di questo monastero, in cui i primi canonici regolari furono fondati da un nobile veneziano, aggiungere anche qualche notizia di due altri nobili veneziani, benché di ignota famiglia, i quali nel regno di Francia fondarono un ordine di Canonici Regolari, detto dell’Artigia, di cui parla nella nuova biblioteca dei libri manoscritti il P. Filippo Labbè gesuita nel Tomo II. e ne fa memoria altresì l’autore della storia del clero secolare, e regolare di Francia nell’appendice del Tomo II. Eccone un compendio.

Si ignora l’anno della fondazione dell’ordine dell’Artigia, ed il tempo, nel quale abbracciò la regola di Sant’Agostino. È verosimile però, che ciò seguisse al fine del XII ovvero al principio del XIII secolo. Il primo priore, e fondator di quest’ordine dell’Artigia nella diocesi di Limoges fu il Beato Marco, nobile veneziano, il quale essendo partito dalla sua patria insieme col Beato Sebastiano suo nipote poté per visitare i sepolcri dei più celebri santi, giunsero a quello di San Leonardo, ove avendo determinato di fissare la loro dimora alimentati con le elemosine dei canonici, che ivi dimoravano nel luogo, che ancora si dice la Vecchia Artigia, Marco si eresse un oratorio, austeramente vivendo con la sola quarta parte di un pane di segala somministratogli giornalmente dai canonici. Ivi vestito sulla nuda carne di una lorica di ferro, in continuati digiuni, ed asprezze santamente visse, ed avendo poi in suo luogo sostituito Sebastiano suo nipote, già consacrato sacerdote, felicemente riposò nel signore. Il secondo priore dunque fu il Beato Sebastiano, a cui successero l’un dopo l’altro Furcardo, Giovanni, ed Elia, sotto il di cui governo i religiosi canonici abbandonarono l’antica loro abitazione, per trasferirsi ad altro luogo, chiamato poi la Grande Artigia, avendone prima ricevuto il permesso da Geraldo vescovo di Limoges, il quale secondo l’asserzione dei celebri scrittori Sammartani morì nell’anno 1177. Ivi dunque avendo il priore Elia fabbricato la chiesa, ed il monastero, ordinò che vi si trasportassero i corpi dei due Beati fondatori Marco, e Sebastiano; ma all’ingresso di una doppia strada, i cavalli, che conducevano i sacri depositi, in tal maniera si arrestarono, che non vi fu forza alcuna bastante per restituirli al moto. Ammirato il priore Elia del prodigioso successo, fece tosto come superiore un precetto ai due beati defunti, perché come figli d’ubbidienza si lasciassero condurre, ove egli aveva ordinato. Appena uscito il comando ripigliarono i cavalli la naturale lor forza, ed i venerabili corpi furono condotti al nuovo monastero, ed ivi onorevolmente collocati alla sinistra dell’altare maggiore. Successero poi nel governo della Grande Artigia altri priori nominatamente riferiti dai sopraccitati scrittori, ai quali siamo debitori della cognizione di due illustri servi di Dio che onorarono con la santità, e con la fondazione di un celebre ordine la lor patria. (1)

Visita della chiesa (1839)

Nel 1506 sul modello di Giorgio Spaventi si cominciò ad erigere la nuova chiesa. Ma dopo alcuni anni, essendo morto lo Spaventi, sottentrò Tullio Lombardo che ne riformò il disegno e ne condusse la fabbrica che fu compiuta nel 1534 con l’assistenza di Jacopo Sansovino. E poiché la chiesa era scarsa del lume, nel 1569, richiesto di suo consiglio Vincenzo Scamozzi, suggerì di aprire una lanterna in mezzo di ciascuna cupola: idea che, come si scorge, fu abbracciata.

Principiando ad esaminare questa chiesa dalla grandiosa facciata tutta di marmo d‘Istria, da alcuni attribuita a Baldassare Longhena, da altri con più di ragione a Giuseppe Sardi ben si vede che tanta mole dovuta alla pietà del mercatante Jacopo Galli, il quale lasciava morendo a tale oggetto (anno 1663) 50.000 ducati, porta l’impronta del frastagliare proprio del secolo XVII, né si acconcia alla semplicità dell’interno.

L’ interno di questo tempio è eccellentissima cosa e forse la più perfetta e la più corrispondente nelle parti di quante altre se ne vedano nella città nostra. Compartito in tre crociere formate da tre archi grandissimi che si sollevano insino al tetto, stanno tra i pilastri corinti messi a sostegno di tali archi principali tante cappelline, i piccoli altari i delle quali vengono sostenuti da pilastri di ordine ionico. La cappella maggiore fatta a tribuna è della stessa simmetria ed ampiezza degli archi delle crociere principali, avendo ai suoi lati due cappelline uguali alle altre della chiesa.

Belle sono le modanature delle cornici e squisiti gli intagli dei capitelli corinti dei pilastri; ma più che nelle particolarità e bella soprammodo questa chiesa per il tutto insieme, per la proporzione tra l’altezza e la larghezza e per un non so che d’imponente e dignitoso, che chiunque la trascorra deve provare il religioso senso ispirato dalla vera abitazione dell’Eterno.

Esaminando ad uno ad uno gli altari e i mausolei da cui sono rivestite le muraglie di questo tempio diremo primieramente che il primo altare alla destra di chi entra non offre cosa di cansiderazione fra le sculture indegne di questo tempio.

Passato l’altare si trova un grandioso deposito ad Andrea Delfino procuratore di San Marco morto nel 1602, ed a Benedetta Pisani moglie di lui estinta nel 1595. Pare che Vincenzo Scamozzi ne abbia dato il disegno; nondimeno alcuni lo attribuiscono a Giulio Dal Moro il quale ne scolpiva certo le statue.

Segue un nobile e maestoso altare, ordinato forse dallo stesso Girolamo Campagna che scolpiva la statua di Nostra Donna in esso collocata: statua che se ridotta venisse a più piccole proporzioni sarebbe più adatta alla ristretta nicchia che la racchiude e meno sensibile renderebbe la sua goffaggine pel toccare che fa col capo la sommità della nicchia.

Ordinava Jacopo Sansovino il vicino maestoso in un che elegante monumento posto al doge Francesco Venier. È scompartito questo monumento in tre intercolunni, e quello di mezzo e in largo degli altri due siccome quello che accoglie la statua del doge stesa su nobile avello e vestita del ducale paludamento.

Nella mezza luna dell’arco di questo medio intercolunnio è scolpita Maria Vergine con Gesù Cristo morto sulle ginocchia, mentre da un lato sta il doge e dall’altro un devoto claustrale genuflessi. Negli intercolunni laterali figurano poi due ornatissime nicchie con statue che il medesimo Sansovino dottamente scolpiva, sebbene fosse quasi ottuagenario. Tutta l’opera in fine è di pietra istriana, toltine i fusti delle colonne e gli specchi dei piedistalli che sono di greco, mentre le intarsiature dei campi sono di marmo peregrino e, secondo l’uso di quell’età, non poche membrature ed i bellissimi capitelli compositi si vedono messi ad oro; il che dà splendore e ricchezza a tutto il monumento.

Con disegno dello stesso Sansovino si alzò il seguente altare sul quale vi è la celebre pala dell’Annunziazione eseguita da Tiziano col modo spedito degli ultimi suoi anni. Tiziano, con una rara ventura, aveva toccato ogni stadio della pittura veneta. Partito appena dalla scuola del Bellini seguiva le tracce del secco rammorbidito però da un senso di perfezione che non solo gli faceva muovere più vivamente le figure, ma gli additava anche a quali altri usi poteva essere condotta la pittura oltre che a quelli prescritti dalla religione. Giorgione emulo di Tiziano in somiglianti tentativi moriva sul fiore della vita e Tiziano, solo rimasto nell’agone, a mano a mano che avanzava negli anni si sospinse sempre più innanzi verso il sublime ed il perfetto. L’espressione, I’allegoria, la somma verità del colorito, la dottrina del disegno tutto in arcane maniere egli volle e tutto avrebbe raggiunto se un, animo forte non gli avesse contrastato sovente di esprimere quel soave e quel delicato per cui il sesso femmineo ci sarà sempre più caro e più mostrerà la vera sua destinazione. Si vuole che nove anni, secondo il precetto di Orazio, tenesse Tiziano le opere pria di consegnarle, perciò dopo il primo sbozzo, le volgeva alla parete affine di ritornarvi sopra più riprese ed a convenienti intervalli di tempo. Sempre cosi la sua anima era nella calma più perfetta quando operava, e critico severo divenendo delle opere proprie nel sommo maestro, non era mai sazio di pentimenti e di ritocchi affinché un fine mostrasse ogni colpo del suo pennello. Il perché chi esamina quei sovrumani lavori prima di porsi a decidere assai deve riflettere onde investirsi dei sentimenti e delle considerazioni che facevano produrre a Tiziano uno piuttosto che altro effetto. Dopo tali riflessioni avverrà forse anche a più periti di trovare che la ragione di Tiziano era la più giusta. Ciò nondimeno un metodo si lungo e si paziente venne meno nel Vecellio col declinare dell’età nella quale trovò altro sistema facile, convenzionale, foriere del precipizio a cui si abbandonarono gli artisti successivi e che frutto era forse più della stanchezza che dell’esperienza. Con quest’ ultimo metodo fu lavorata appunto questa pala dell’Annunziazione, la quale non mai sembrando compiuta a colui che gliela commise, Tiziano che pur il voleva compiacere vi ritornava sopra col pennello più e più volte; ma stanco alla fine aggiunse un secondo fecit al Titianus fecit che prima aveva scritto; aggiunta che ognuno rileva di leggeri al vedere il secondo fecit fuori di linea. Ecco come l’orgoglio si attacca ai più sapienti!

Chi entra nel braccio destro della gran crociera, inframmessa tra quella dell’altare maggiore ed il resto della chiesa, se si volga a manca, sebbene assai patita, incontrerà una delle buone pitture di Francesco Fontebasso coi Santi Leonardo, Lorenzo Giustiniani ed altri. Tutta la facciata che chiude quel braccio destro è coperta da un monumento di fini marmi a Catterina Cornaro regina di Cipro. È diviso in tre intercolunni racchiudenti ciascheduno un avello. Sotto l’avello di mezzo è scolpita la cessione del regno di Cipro fatta da Catterina alla repubblica. Il modello di questo monumento e di Bernardino Contino.

Per la porta sottoposta a questo monumento si entra nella sacrestia nel cui altare vi è una piccola pala con Cristo morto sostenuto da due angeli della maniera di Carlo Loth.

Usciti dalla sagrestia alla destra si trova un altare in cui l’ultimo rampollo della famiglia Cornaro (della regina) fece dipingere per mano del vivente Antonio Regagiolli vari santi, a piedi dei quali sta il personaggio che commise la pala e la regina sua antenata.

Lateralmente alla vicina cappella, che è laterale all’altar maggiore, si vedrà il gran quadro col martirio di San Bartolommeo da alcuni a torto attribuito a Bonifacio, ma certo di grande maestro; indi viene la pala di San Teodoro sull’altare della cappella medesima, opera di Pietro Mora.

L’altare maggiore è del carattere di Guglielmo Bergamasco, e la tavola colla trasfigurazione di Nostro Signore comunque frutto della vecchia età di Tiziano è di gran forza d’immaginazione molto spirito ha nelle movenze delle figure e tutta la proprietà nell’istoriarle. Questa tavola divisa in due pezzi, si apre nelle solenni funzioni per lasciar vedere una sottoposta scultura di finissimo argento con figure di bassorilievo alte un piede e messe ad oro nelle mani e nelle teste. Cosi pregevole lavoro si è fatto eseguire da un priore dei canonici regolari (anno 1290) addetti a questa chiesa, ed è diviso in quattro ordini. Nel I inferiore non vi sono che fregi; nel II i quattro evangelisti e nel mezzo la effigie dell’abate donatore genuflesso. Ciascheduno degli altri due ordini (i più importanti) è diviso in tredici nicchie, separate una dall’altra con graziose gugliette sul gusto gotico. Nel III ordine si vede nel mezzo la Trasfigurazione occupante tre nicchie mentre le altre dieci rimanenti tengono la figura di un santo per ciascheduna. Lo stesso metodo è nel IV ordine avente nelle tre nicchie del mezzo la Beata Vergine con due angeli ai lati, e nel resto figure di santi.

L’altare del Sacramento ha nella mezza luna superiore un musaico col doge Girolamo Priuli ed un canonico in atto di adorazione. Ma il gran quadro laterale alla sinistra dell’altare con Cristo in Emaus, lavoro della più tarda età di Giovanni Bellino merita ogni considerazione. Vi ha chi, senza rimprovero, il credette opera del Giorgione, tanto lo stile del maestro si studiava di raggiungere quello del discepolo già sciolto dalle pastoie scolastiche, già posto in cerca, ad una con Tiziano, della ultima meta a cui la pittura può aspirare. Quale lezione per coloro che fatti maturi stimano insania ogni novello tentativo nelle arti, lieti del breve confine segnato dalle pratiche loro antiche! Un velo copriva gli occhi del Bellini al paro che dei contemporanei; ma un lembo di quel velo rimosso da Giorgione e da Tiziano gli mostrò in un tratto le mille forme sotto le quali la natura può essere ritratta secondo le alterazioni introdotte in essa dai climi, dai sessi, dalle passioni, dal costumi. ec. Però se la vecchia età di lui non valse a tutta abbracciare l’ampia nuova scena trovava lena non che altro da cercare (e questa cena in Emaus ne fa prova) la forza del colorire.

Scendendo da cotesta laterale cappella, nel prossimo altare a destra vi ha la tavola di Girolamo Brusaferro coi Santi Jacopo, Lorenzo, Anna e Francesco di Sales. Il mezzo-tondo superiore poi con Iddio Padre, Gesù Cristo, la Vergine ed altre figure è di Natalino da Murano ed è la sola opera di lui che tra noi esista esposta al pubblico. Nell’altare dirimpetto a questo Sante Peranda fece la pala con Cristo morto fra una nube in seno alla madre, San Carlo Borromeo ed altri insieme a due ritratti.

Tra questi due altari un deposito che risponde a quello opposto di Catterina Cornaro, copre tutta la ultima parete del sinistro braccio della crociera maggiore. Esso pure fu fatto sul modello di Bernardino Comino ed è consacrato alla memoria di tre cardinali della medesima famiglia Cornaro, cioè Marco, Francesco ed Andrea. In un basso-rilievo che sta nel mezzo è espressa la cerimonia del cappello cardinalizio dato dal pontefice.

L’altare che si trova immediatamente nell’ala sinistra della chiesa fu eretto con disegno di Alessandro Vittoria. Che se di cattivo gusto sono il sopra-ornato ed i frontispizi ben fanno onore al Vittoria le statue dei Santi Rocco e Sebastiano da lui scolpite. La pala con Nostra Dona nell’alto, ed i Santi Antonio abate, Giambattista e Francesco d’Assisi è opera lodatissima di Jacopo Palma, mentre Andrea Vicentino dipinse il coro degli angeli che è nella mezza luna superiore all’ altare. La porta col basamento dell’organo costrutta nel 1530 sul disegno di Jacopo Sansovino ha in due nicchie due statuette dei Santi Girolamo e Lorenzo travagliate da due scolari di quel maestro. I portelli dell’organo furono dipinti da Francesco Vecellio. Al di dentro vi espresse la Trasfigurazione e la Risurrezione di Nostro Signore e al di fuori Sant’Agostino con alcuni canonici e San Teodoro armato con lo stendardo in mano.

Nel vicino altare, che è del carattere di Guglielmo Bergamasco, vero modello di semplicità e di buon gusto negli ornamenti, pompeggia la bella statua in marmo di San Girolamo scolpita da Tommaso Lombardo.

Segue il mausoleo ai dogi Leonardo e Girolamo Priuli innalzato con la sopraintendenza di Cesare Franco. Una mole è desse molto bene ordinata e divisa in due ordini, superiore ed inferiore. Nel primo, sul nicchi formati dalle colonne, sorgono due grandi figure in marmo scolpite da Giulio dal Moro e rappresentanti i Santi Lorenzo e Girolamo, nomi dei due dogi Priuli che nell’ordine inferiore hanno il proprio avello.

La pala dell’ultimo altare, con San Nicolò vescovo ed Beato Arcangelo Caneti canonico Lateranense, si sbozzò da Giambattista Piazzetta e fu compiuta dal suo discepolo Domenico Maggiotto. Molto bene composta è questa pala e saggiamente ne sono distribuite le figure per far che il naturale colore delle vestimenta loro renda un gradevole contrapposto.

Né il pavimento medesimo di questa chiesa, per la esattezza delle connessioni e per lo buon gusto nel disegno vuol essere punto trascurato. Crediamo ancora che essere non debbano dimenticate le confraternite già ascritte in questa chiesa; quella cioè della Madonna che maritava dieci donzelle con dieci ducati per ciascheduna, quella dei pizzicagnoli (luganegheri) sotto il titolo di Sant’Antonio abate, quelle di San Girolamo, di San Niccolò, di San Leonardo, del Crocifisso e quella finalmente dei carbonai. (2)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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