Il Doge

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Jacopo Negretti detto Palma il Giovane, Il doge Pasquale Cicogna in preghiera davanti al Salvatore (particolare)

Il Doge

Quando tutto il popolo delle lagune, stanco delle lotte intestine perennemente accese fra le isole tribunizie, decise di mutare la confederazione in unico stato sotto il diretto comando di un doge, non pensò certo di abdicare alla propria volontà rimettendola interamente nelle mani di un sovrano assoluto.

Il Doge, eletto a vita, avrebbe dovuto essere il semplice esecutore della volontà popolare esplicata nei pubblici comizi, aperti a tutte le classi di persone, ricchi e poveri, nobili e plebei.

Ma la mancanza di leggi scritte e di tradizioni orali precise, fecero si che i primo Dogi accentrassero a poco a poco nelle loro mani tutto il potere, e qualcuno anzi pensasse ad assicurarsi una successione dinastica. S’arrogarono così il diritto di trattare dispoticamente con i sovrani esteri, di dichiarare la guerra, di imporre gabelle, ammende, confische, all’infuori dell’Assemblea Nazionale. Vollero loro inoltre un esercito proprio, truppe di servi e di schiavi addetti ai loro particolari bisogni, terre, commerci e fondachi gestiti in proprio nome e a propria utilità.

I Veneziani s’avvidero che un potere così illimitato nel principe avrebbe pregiudicato gli interessi generali, onde si venne formando a poco a poco tutta una legislazione che tendeva a reprimere e limitare le eccessive attribuzioni del primo cittadino della Repubblica.

Questa legislazione è conosciuta dal nome di Promissioni Ducali, ossia raccolta di doveri ai quali si assoggettava con giuramento ogni Doge nuovo eletto, nell’atto di essere insignito della dignità suprema.

Insensibilmente con l’andare del tempo il potere ducali si ridusse ad una semplice coreografia, con privilegi così effimeri, ed una autorità talmente ristretta che molti avrebbero volentieri rinunciato a tanto onore, se non fosse considerato tradimento rifiutare una carica pubblica.

Tanto più che, essendo assai meschino l’appannaggio del principe, costui doveva mantenere il decoro del proprio rango con le rendite private, le quali non giungevano mai a coprire le ingenti spese della dignità sovrana.

La storia infatti ci apprende come molte famiglie patrizie si siano economicamente rovinate per l’assunzione al dogado di qualche loro membro, e come quasi tutti i dogi lasciassero alla morte fortissimi debiti, pagati o dal parente, e dal pubblico tesoro.

Al Doge era concesso di presiedere tutti i Consigli dello Stato, ma non poteva disporre che di un semplice voto deliberativo, come l’ultimo dei Consiglieri. Le lettere di Stato a lui dirette erano aperte da altri, così come da altri erano compilate quelle che egli doveva firmare. I doni a lui fatti appartenevano alla Repubblica; nessun membro della sua famiglia poteva essere insignito di cariche pubbliche; né comandi di truppe, salvo disposizioni particolari del Consiglio; non poteva uscire dal territorio repubblicano senza concessione delle magistrature competenti, e una volta uscito non gli spettavano onori regali.

Il doge non aveva guardie; tutto il suo corteggio si riduceva alle genti di livrea, agli scudieri, a cinquanta uscieri o banditori (detti comandatori), nominati dal doge, e spesati dal pubblico, ad alcuni segretari particolari, a due cancellieri ed all’ introduttore degli ambasciatori, che vestito sempre di rosso era chiamato il cavaliere del doge. Aveva un altro ufficiale, detto il gastaldo del doge, che assisteva in vesta violacea alle esecuzioni criminali e ne dava il segnale con il fazzoletto.

Illimitata autorità aveva soltanto il doge sulla basilica di San Marco, e sovra ogni beneficio di essa, non che sul monastero delle Vergini, sul quale comandava sovranamente.

Ogni suo atto, ogni suo gesto era controllato da un collegio di patrizi che non si staccavano mai dal suo fianco. Dorata prigionia che faceva del Capo della Repubblica un simbolo, mosso dall’altrui volere! Malgrado questo, la Repubblica, che tanto si adoperò per rendere il Capo del Governo, impotente, lo circondava di una esteriore magnificenza degna del principe più formidabile.

Parlando al doge in persona, o dinanzi a lui nei consigli, si usava sempre questa espressione: Serenissimo principe, lungi di là nulla più si diceva che messer lo doge. Dove il doge fosse stato malato, od assente, uno dei consiglieri ne faceva le funzioni, e sebbene non portasse il corno, ne egli pure si scopriva, né gli altri cessavano dall’usare le formule: Serenissimo principe, eccellentissimi signori, appunto per dimostrare che la podestà suprema non era attaccata alla persona del doge, ma essi al corpo della repubblica.

Il fasto del Doge serviva a manifestare agli occhi del popolo la maestà del Governo da lui impersonato. (1)

(1) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia. I quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi veneziani. Vol IV (Venezia, Tommaso Fontana Tipografico Edit., 1840) e ATI’ sul Il Gazzettino del 23 maggio 1935.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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