Niccolò Orsini conte di Pitigliano, Capitano Generale della Repubblica di Venezia

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Monumento funebre a Nicolò Orsini. Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Sestiere di Castello

Niccolò Orsini conte di Pitigliano, Capitano Generale della Repubblica di Venezia

Due grandi e possenti e celebri case in ogni tempo della moderna storia d’Italia furono certamente i Colonna e gli Orsini, quasi indipendenti per lunga età dagl’imperatori e dai papi, emule tra loro, e contendenti in modo da far correre torrenti di sangue per le strade di Roma. Ma nei secoli decimoquarto e docimosesto esse produssero inoltre capitani di gran senno e valore, il cui nome suonerà sempre chiaro nei fasti della milizia italiana. Noi verremo tratto tratto ricordando ļe gesta e vicende de principali tra loro; ed intanto diamo principio da Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, il quale nato nel 1412, cominciò a segnalarsi nelle guerre della passata di Carlo VIII in Italia.

Non mai l’Italia era stata più libera dall’ascendente straniero quanto nei trent’anni che corsero dalla pace di Lodi (1454) sino alla calata di Carlo VIII (1494). La supremazia dell’impero Germanico vi si faceva appena sentire; e la governavano i suoi naturali signori. Rispettata e ambita da tutti i principi d’Europa era l’amicizia dei duchi di Milano, delle repubbliche di Venezia e di Firenze, e dei reali di Napoli; venerata per ogni dove l’autorità suprema del romano pontefice, gli stranieri accorrevano in folla alle nostre città per impararvi l’industria e le buone arti, ed acquistarvi la mitra o la porpora; gli Italiani non senza grande utile ed onore occupavano coi loro traffichi le Fiandre, la Francia e l’Inghilterra e tutte le marine del Mediterraneo; in somma nessuna parte esterna ci mancava di una grande ed indipendente nazione.

Turbò tanta mole di beni l’ambizione di Lodovico il Moro, che per i suoi fini già da noi descritti nella sua vita, chiamò in Italia al conquisto del regno di Napoli Carlo VIII re di Francia. La cavalleresca impresa piacque alla nobiltà francese che seguì volonterosa il suo monarca, e i potentati italiani, sbalorditi e discordi, non gli opposero alcun saldo contrasto. Carlo andò alla conquista di quel regno come ad un militare passeggio, e se lo recò tutto in suo potere quasi senza abbassare la lancia. Ma si scossero allora dal letargo i potentati italiani, e strinsero lega insieme e adunarono un esercito per troncargli il ritorno. Nondimeno vinse l’impeto francese al passo del Taro, e Carlo VIII poté ricondursi in Francia con perdita lieve.

Il conte da Pitigliano era stato preso prigioniero a Nola dai Francesi, i quali lo conducevano con loro nel giorno della battaglia. Ma nel trambusto della pugna, egli venne a capo di fuggire dal campo francese, e passato nel campo italiano, con le grida e con l’esempio seppe raffrenare le schiere fuggenti, e scampare da piena sconfitta il corpo comandato dal marchese di Mantova. Continuò poi egli a travagliarsi nelle continue guerre che ardevano a quel tempo in Italia, ma non sali in grande riputazione se non allorquando capitano le armi della repubblica di Venezia assaltata da mezza Europa per la lega stretta a Cambrai (10 dicembre 1508).

Non mai aveva l’Europa mirato una più vasta e compatta lega di quella, che contro ai Veneziani stringevano a Cambrai Luigi XII re di Francia, Massimiliano I re dei Romani, il papa Giulio II, e Ferdinando il Cattolico re di Aragona; ai quali poco stante si aggiungevano ancora Carlo duca di Savoia, Alfonso d’Este duca di Ferrara e Francesco Gonzaga marchese di Mantova. Comune stimolo di tutti era l’ambizione; ma ognuno di essi aveva il proprio suo fine. Giulio il faceva per ricuperare Cervia, Ravenna e le altre terre che la repubblica aveva usurpato alla Chiesa subito dopo la morte di Alessandro VI; Massimiliano per vendicare le vergogne ricevute nella passata guerra; il re di Francia per distendere il dominio milanese agli antichi confini; Ferdinando, pronto sempre a partecipare nei guadagni, non mai dei pericoli, anelava all’acquisto delle città marittime della Puglia. Il duca di Savoia era piuttosto trascinato dall’esempio e dall’autorità della Francia, dal cui dominio si trovava allora lutto circondato. Quanto all’Estense e al Gonzaga, non mancavano loro antichi rancori e desideri da soddisfare.

Accolse Venezia con grandezza di animo veramente italiana l’inaspettata disfida, e, quantunque sola, e privata del braccio di Renzo e di Giulio Orsini (li aveva essa assoldati con 500 lance e 3000 fanti, ma il papa li soprattenne a forza), si apparecchiò a resistere agli sforzi combinati di mezzo l’Europa. Riunì un esercito di 2000 uomini d’arme, 3000 tra cavalleggieri e Stradiotti, 15.000 cernite, e altrettanti soldati a piedi delle migliori fanterie d’Italia. Prepose a comandarlo Niccolò Orsini conte da Pitigliano, e Bartolomeo d’Alviano, quello con il grado di capitano generale, questo di governatore.

Però non mai erano state costrette a cooperare insieme due nature tanto fra loro contrarie, quanto quelle di questi due condottieri. Vecchio di età, lento, impassibile, ostinato, era il Pitigliano uno di coloro, che reputano vincere il non perdere, né il vantaggio di una vittoria così grande da superare il pericolo di una sconfitta. Minore di età e di esperienza, tutto ira; tutto impeto, l’Alviano non aveva di comune con lui che il nome del casato, e il vessillo sotto il quale combattevano; del resto pronto a pugnare sempre ed a marciare sempre innanzi; insomma di quelli che, vincitori, tutto conculcano nella prima foga, vinti, non sanno rimettersi che assaltando.

Consigliava il Pitigliano di raccogliere le soldatesche in un forte sito tra l’Oglio ed il Serio, e, abbandonata al nemico la Ghiaradadda, da quell’inaccessibile ricovero assicurare senz’altra fatica tutta la terraferma; partito prudente, che posto accortamente in esecuzione avrebbe salvato lo Stato. Proponeva l’Alviano di passare l’Adda, assalire inopinatamente i Francesi dentro il proprio loro confine, vincerli, e vinti che fossero ritornare addietro per respingere con uguale prontezza i Tedeschi; partito audace, ma non disperato, né privo di molti vantaggi. La signoria non ebbe coraggio di appigliarsi affatto all’una od all’altra di queste due opinioni; ma, dando con infelice consiglio di mezzo ad entrambe, deliberò che l’esercito si accostasse bensì all’Adda per difendere tutto quel tratto di paese e impedirne l’entrata al nemico , ma si guardasse assolutamente di venire alle mani.

Con questa risoluzione i Veneziani si approssimarono all’Adda, ed espugnarono Treviglio: ma mentre sono intesi a metterla a ferro ed a sacro, il re Luigi XII getta tre ponti a Cassano, e traghetta senza ostacoli sull’altra sponda. Ciò fatto, il Triulzio gli gridava: Sire, oggi abbiamo vino i nemici! Nulladimeno il re, vedendo che i Veneziani non si muovevano punto dai trinceramenti presso Treviglio, avvio l’esercito verso Pandino e Vailà, affine di recidere loro le comunicazioni con le città di Crema e di Cremona, e quindi o snidarli dal forte sito, o trascinarli nella necessità di venire ad un fatto d’arme.

Segui nondimeno il fatto d’armi, e fu il dì 14 maggio 1509 ed i Francesi ottennero la vittoria che portò il nome di Ghiaradadda con dolorosa sconfitta dei Veneziani, e pia dell’Alviano. Vario suona il racconto di quella battaglia per quanto concerne al conte da Pitigliano. Ma il Muratori dice: “Certo è che tutto l’esercito francese unito combatté; laddove il Pitigliano arrivò a combattere solamente dappoiché l’Alviano era in rotta. Se unita tutta l’armata veneta fosse stata a fronte dei nemici, poteva essere diverso il fine di quella giornata“.

La repubblica non disperò, ed in tanta sciagura mostrò l’antica fermezza romana. Per gran ventura poterono i Veneziani racquistare Padova, già occupata dalle armi della lega. E alla difesa di Padova, concorse la nobiltà veneta, infiammata dalle generose parole del doge Loredano, e vi si radunarono circa 25.000 uomini, tra Italiani, Schiavoni, Greci ed Albanesi, sotto capi reputati nella milizia.

Comandava a tutta questa gente con suprema autorità il Pitigliano, cattivo capitano in aperta campagna e nelle arrischiate fazioni, ottimo nella difesa delle terre, e in tutte quelle imprese; a compier le quali fosse uopo specialmente di prudenza e di fermezza. Cominciò egli dal pigliare in piazza da tutte le soldatesche un solenne giuramento di fedeltà; quindi con la solita accuratezza le dispose alle guardie dei siti. Bentosto sopravvenne in persona ad assediare la città Massimiliano re dei Romani, accompagnato da cento e più migliaia di combattenti, e da cento e sei pezzi di artiglieria. Ma sia per l’imperfetto maneggio di questa, sia per la bravura dei difensori, sia per la mala intelligenza che passava nell’esercito assediante tra i cavalli e i fanti, e tra i Francesi e i Tedeschi, tutto cotesto apparato di guerra, il maggiore che l’Italia avesse veduto dal Barbarossa in poi, svanì appiè delle mura di Padova. Dopo quaranta giorni d’inutili conati, Massimiliano si trovò nella necessità di levare il campo, e ritirarsi a Verona. I Veneziani onorarono di pubbliche esequie e di una statua equestre il Pitigliano morto indi a non guarì di febbre a Lonigo.

Questa statua sorge sopra il deposito, ch’é di pietra istriana. Tutto il monumento, posto nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo in Venezia, si fa ammirare per purissimo stile. Scolpito in quell’età dei grandi artefici, esso congiunge la maestà del complesso alla bellezza delle singole parti. Le due statue laterali rappresentano la Prudenza e la Fede. (1)

(1) E.R.  Il Mondo Illustrato 26 agosto 1848

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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