Francesco Morosini. Doge CVIII. – Anni 1688-1694

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Sala dello Scrutinio. Louis Dorigny. Ritratto di Francesco Morosini

Francesco Morosini. Doge CVIII. — Anni 1688-1694 (a)

Passato a vita migliore il doge Giustiniani, i correttori della Promissione ducale proponevano al Maggior Consiglio, e questo decretava il 31 marzo 1688, che non più si dovessero affiggere intorno al ballatojo della maggiore navata della basilica di san Marco gli scudi gentilizi dei principi defunti, perché quell’uso, stabilito affine di perpetuar la memoria di loro e di eccitar nei fedeli la pietà nel suffragare con preci le anime loro, si era convertito in fasto dannato. Non è dunque vero ciò ché dice il Meschinello, cioè, che furono levati, perché col loro peso aggravavano i corridoi. Il Palazzi poi aggiunge, che in seguito quegli scudi furono appesi nel tempio di San Francesco della Vigna.

La gloria che acquistata si aveva Francesco Morosini, i suoi meriti verso la patria, e le sue molte virtù fecero sì che a tutti voti venisse, il 3 aprile 1688, esaltato alla suprema dignità. E poiché egli si trovava all’armata, gli si spedì tosto il segretario Giuseppe Zuccato a recargli le insegne ducali, ed a manifestargli il desiderio del Senato, che egli continuasse nel comando supremo delle armi; e per maggior decoro della nuova sua carica furono destinati ad assisterlo due consiglieri nelle persone del cavaliere Girolamo Grimani e Lorenzo Donato, nel mentre che la reggenza ducale si era data, nell’assenza del principe, a due consiglieri per turno, e al capo di uno dei Consigli dei Quaranta.

Intanto il doge, raccolta la consulta di guerra il dì 21 giugno 1688, e stabilitasi in questa l’impresa di Negroponte, volgevasi all’assedio di quella città: ma dal dì 8 del luglio susseguente, in cui l’armata partiva da Egina, fino alla metà dell’ottobre, non valsero, per aver Negroponte, i replicati assalti e le date battaglie, stante principalmente le malattie, cui, a cagione delle intemperie e della insalubrità dell’aria, andarono soggette le milizie veneziane, molte delle quali perirono, tra cui lo stesso generale Konigsmarck. Tali disgrazie venivano in parte compensate dai prosperi avvenimenti in Dalmazia, ove il provveditore generale Girolamo Cornaro s’impadroniva del forte castello di Knin e di altri luoghi. Toglievasi poi il Morosini dall’impresa mal riuscita di Negroponte, e si recava all’assedio di Malvasia, stringendola per ogni parte: ma inoltrandosi l’inverno, e malatosi il doge, il Senato nominò a surrogarlo, col titolo di provveditore generale, l’ora detto Girolamo Cornaro. Venuto questo all’armata, il Morosini, bisognoso di curare la propria indebolita salute, si dispose ritornare a Venezia.

Partiva dunque la sera del 13 settembre 1689, accompagnato da quattro galee veneziane e dalle maltesi, le quali ultime dovevano far sosta al porto di Saseno, all’imboccatura, cioè, del Golfo; e giungeva a Spalato il dì primo ottobre, ove si fermò per solvere l’ordinaria quarantena, secondo le leggi sanitarie. Scioglieva quindi da quel porto e giungeva al Lido l’ 11 gennaio 1690.

Il Senato ed il popolo veneziano preparato era a riceverlo con tutta la pompa dovuta al suo grado ed ai meriti suoi. Pertanto era spettacolo ammirando il vedere farsi incontro alla sua galea, innanzi tratto, il bucintoro per accoglierlo, e poi un numero immenso di peote, di gondole e di altre barche di ogni maniera, ornate di che stoffe e di trofei, e condotte da rematori vestiti di svariate e splendide assise, cariche tutte di genti di ogni condizione ed età. Prima gli ambasciatori delle corti straniere si fecero innanzi in dodici peote sulle altre distinte per magnificenza di addobbi, e si recarono sulla galea ove montato era il Morosini, affine di inchinarlo a nome dei principi da essi rappresentati.

Sbarcava quindi il doge, venuto al Lido, al suono festivo dei sacri bronzi, ed al tuonare delle artiglierie dei pubblici legni e del castello di Sant’Andrea; ed era incontrato dall’abate di quel cenobio di San Nicolao, e dal corpo intero dei senatori; e giunto ivi il bucintoro, questo saliva, al continuato fragore dei bronzi guerrieri. Lo assistevano ai fianchi i due suoi consiglieri più sopra accennati, e sciolto il ducal legno, veniva su per il canal di San Marco fino alla piazzetta. Si era ivi eretto un arco trionfale alto quaranta piedi, ornato di colonne e di trofei, e stendentesi in due logge colonnate fino alla porta del palazzo, formanti una galleria di armi, di trofei, di figurati nemici prigionieri, di teste simulate recise, di mezzelune rovesciate ed infrante. Era poi il palazzo ducale addobbato in ogni parte di drappi damascati e di tele dipinte, e per fianco all’arco trionfale ora detto si erano disposte due fontane, alte quindici piedi, sormontate da un Nettuno e decorate da due delfini, i quali dalle fauci gettavano vino, che, raccolto in due vasche sottoposte, veniva distribuito ai poveri. Narra lo storico testimonio di veduta, tanto esservi stato il concorso di popolo di ogni ceto, da non lasciar modo alcuno di transito; tante le grida di gioia che prorompevano; tanti i suoni degli strumenti; tanto lo strepito delle artiglierie, da confondere ogni senso. Non appena smontò il Morosini dal bucintoro, consegnava in mano di un segretario del Senato il bastone del comando, indi, avviatosi al palazzo ducale, riceveva ivi le divise di capo supremo della Repubblica.

Alquanti mesi prima che il Morosini lasciasse il comando delle armi, cioè il 12 agosto 1689, accadde la morte di papa Innocenzo XI, e quindi, il 6 ottobre susseguente, fu esaltato a quella dignità Pietro cardinale Ottoboni, patrizio veneziano, che assunse il nome di Alessandro VIII. Volendo dunque la Repubblica dare testimonianza di riverenza verso il nuovo pontefice, e segno d’amore al suo concittadino, decretava che i due suoi nipoti Antonio e Pietro, oltre di essere creati perpetui cavalieri, venisse poi Antonio decorato del grado di procuratore soprannumerario di San Marco de supra; il che non è a dire quanto fosse a grado del pontefice, che amava particolarmente il nipote Antonio, e sì che il voleva a Roma, eleggendolo principe del soglio, e generale delle armi di santa Chiesa.

Desiderava però papa Alessandro ricambiare con pari sentimento di omaggio e di amore la patria, e nel tempo stesso porgere testimonianza solenne di gratitudine verso il doge Morosini, il quale aveva cólti tanti allori sopra il nemico del nome cristiano, e quindi retribuirlo, come solea sempre l’apostolica Sede verso gli eroi che avevano combattuto con gloria per la difesa della religione. Perciò spediva in dono al doge lo stocco ed il pileo benedetti, i quali vennero a lui presentati nella basilica marciana il 7 maggio 1690 (b) per mano di Giuseppe Archinto, arcivescovo di Tessalonica e nunzio apostolico, e dopo la cerimonia si deponevano quei doni nel tesoro di san Marco, ove rimasero fino allo spegnersi della Repubblica; nella qual epoca funesta, il pileo, che era ornato d’oro e di perle, fu involato, e rimase soltanto lo stocco o squadrone, unitamente alla cintura di velluto trapunto in oro, con lo stemma gentilizio del donatore, e con il nome e l’anno primo del suo pontificato.

Nel frattempo le imprese dei Veneziani continuavano prosperamente, sotto il nuovo generalissimo Girolamo Cornaro; il quale, impadronitosi già di Malvasia e della Vallona, colto in quest’ultimo luogo da febbre acuta passava a miglior vita. Succedutogli nel comando Domenico Mocenigo, la veneta fortuna cambiò, poiché egli era di gran lunga inferiore all’importante carico a cui fu chiamato. Raccolto da lui consiglio di guerra, deliberava portarsi all’assedio della Canea, ove infatti si recava, e con parecchi assalti di già si era reso padrone di alcune opere esteriori, ed aveva già aperta larga breccia nelle mura, e sì che bastato avrebbe forse un ultimo assalto per farne la totale conquista. Quando, preso da timore non avesse il nemico in quel frattempo assalito la Morea, siccome ne corse fama mendace, adunato nuovamente il consiglio di guerra, esponeva doversi lasciare la incominciata impresa per accorrere in soccorso dei luoghi minacciati; e quantunque contro questa proposta parlassero il Querini, provveditore dell’armata, e il Contarini, capitano delle navi, pure la preponderanza del generale supremo valse a levare l’assedio, e ridurre l’armata in Morea.

Richiamato quindi e processato il Mocenigo, gli fu tolto il comando, e perciò fu necessario eleggere un altro generale supremo. La più parte degli animi si volse allora al doge, e quantunque vecchio e capo della Repubblica, accettò di buon grado il sacrificio, anche degli ultimi avanzi della sua vita, al bisogno della patria.

Partiva egli, il 24 maggio 1693, accompagnato da Giorgio Benzon ed Agostino Sagredo a lui dati siccome consiglieri; ed appena arrivato a Malvasia, che fu alla fine di giugno, raccolse tutta la flotta per incominciare le imprese guerriere. Quindi, dopo di avere munite le piazze della Morea, dava la caccia alle navi di Algeri, e ricondotta la flotta nella Morea stessa, diede mano a fortificare Egina, poi ad impadronirsi delle isole di Coluri (l’antica Salamina), di Spezia, di Sidra, riducendosi da ultimo a svernare in Napoli di Romania, ove, domato dagli anni e più dalle fatiche, finiva la vita il dì 6 gennaio 1694, compianto e desiderato da tutti.

Imbalsamato il suo corpo, furono deposti i visceri nella chiesa di Sant’Antonio, a Napoli di Romania; e tradotto quindi alla patria, compiuta la funebre pompa nel tempio de Santi Giovanni e Paolo, in cui disse le sue laudi fra Girolamo Testor benedettino, lettore di Padova, veniva tumulato nella chiesa del Protomartire (c).

II Senato, a cui non bastava avere onorato il Morosini vivendo, col busto eneo e col soprannome di Peloponnesiaco, volle anche, dopo morto, tramandare ai posteri la sua gratitudine verso di lui, decretando l’ erezione di un arco trionfale nella grande aula dello Scrutinio.

Durante il reggimento del Morosini accaddero, nell’interno della città, i fatti seguenti. Il 17 aprile 1688, un terremoto orribile crollar fece parecchie case, molti camini, e la chiesa di Santa Maria Formosa fu in gran parte rovinata, sicché la pietà di Turrin Tononi, ricco mercatante, la risarcì dai danni sofferti, essendo allora stata decorata delle due esterne facciate. Nel giovedì santo del 1691 arse largo incendio nella contrada appellata Birri; e finalmente, due anni dopo, si compì l’intera rifabbrica della chiesa di San Marziale, curata dalla generosità di quel piovano Giuseppe Pasquini.

Il ritratto del Morosini lo rappresenta in armatura colle assise di capitano generale, e coronato del pileo ducale. Fu dipinto da Lodovico Dorigny nello stile della sua scuola francese. Nel campo é questa semplice iscrizione :

FRANCISCVS MAVROCENVS PELOPONNESIACVS. (1)

(a) Nacque Francesco Morosini nel 1618 da Pietro procuratore di San Marco, e di soli 48 anni si applicò alla militar disciplina, imbarcandosi come nobile sulla galea di Pietro Badoaro, capitano della guardia di Candia. Tre anni dopo, cioè nel 1639, combatté nel fatto della Vallona, contro i pirati che infestavano l’Arcipelago; e l’anno appresso passò sopraccomito di galea, e fu spedito a Messina ad incontrare il principe Ludovisi, generale di santa Chiesa. Il suo valore apparve più spiccato nel 1645, nella battaglia combattutasi a Milo, ove abbordò una nave sultana sottomettendola: poi nel 1647, promosso governatore di galeazza, difese la breccia fatta dai Turchi alle mura di Candia, richiamando, col suo esempio, le milizie che l’avevano abbandonata.  L’anno appresso, pugnando ai Dardanelli, sottomise una galeazza nemica, sicché, a premio del suo valore, l’anno dopo, fu nominato capitano del Golfo. Eletto, nel 1654, con la carica di capitano delle galeazze, pugnò a Trio, e nella battaglia data nelle acque di Paros, fece schiavo il rinnegato Nicolò di Natalino Furiano, grande almirante delle navi ottomane, e fece cattivi altri cinquecento infedeli, predando la sua nave, munita di settantacinque cannoni, e disfece la galea del capudan-pascià. Fatto provveditore dell’armata, nel 1653, prese la galea del bei di Cipro, ed altri legni nemici carichi di munizioni e di vettovaglie. L’anno dopo combatté ai Dardanelli, sottomise Egina, prese due saicche cariche di biscotto, e rese tributarie Scopulo ed altre isole. Tornò l’anno seguente in Egina e vi distrusse tutti i munimenti guerreschi; acquistò le fortezze di Volo e di Megara, e nelle acque della Prevesa catturò tredici galeotte. Eletto, nel 1656, governatore e generale in Candia, disperse la flotta turca, che ne bloccava il porto, obbligandola ad abbandonar l’ Arcipelago. Perito miseramente, nella battaglia datasi ai Dardanelli, nel 1657, il generalissimo Luigi Leonardo Mocenigo, fu a lui sostituito il nostro Morosini; il quale soggiogava, l’anno appresso, l’ isola di Canea; e nel seguente impadronivasi di Calamata, fugava la flotta nemica nelle acque di Samo, correva le coste della Natolia, conquistava li castelli di Torm, di Cismes, di Ruggio, recandosi a svernare a Milo. Nel 1660, tentò di dare assalto improvviso nel campo turco, sotto Candia; ma le truppe che aveva poste a terra furono avviluppate e poste in fuga prima che potessero occupare posizione vantaggiosa. Di tale sinistro accusò il Morosini il provveditore Antonio Barbaro, e quindi lo puniva di bando capitale. Ma il Barbaro volò a Venezia, si discolpò e fu assolto; ed in quella vece il Morosini fu richiamato e rimosso dal supremo comando, vedendosi obbligato a difendersi da gravi imputazioni, dalle quali lavossi e fu dichiarato innocente. Nel 1663 fu eletto provveditore in Friuli, indi provveditore di armata; e nel 1667, per la seconda volta, era designato generalissimo del mare, recandosi alla difesa di Candia. Per quasi tre anni, durante i quali il Morosini ritardò la caduta di quella città, fece prodigi di valore, operando ciò tutto potevasi fare in salute di quella misera terra, onde a premio veniva eletto nel 1668 cavalier di s. Marco; ma alfine ceder dovette alla necessità prepotente, abbandonato da ogni aiuto, e cesse la piazza a condizioni onorevolissime, stabilendo in pari tempo la pace.  Ripatriatosi, fu il 20 settembre 4669 creato procuratore straordinario di san Marco de supra; ma venendo tosto accusato siccome violatore delle patrie leggi ed usurpatore della sovrana potestà, perché senza permissione del Senato aveva ceduto Candia e firmata la pace, fu inquisito, e per la difesa eloquente di Giovanni Sagredo e di Michele Foscarini fu assolto pienamente. Venne posi eletto savio del consiglio; e nel 1678 revisore alle fortificazioni in Terraferma; passando nel I683 provveditore generale in Friuli. Rottasi nuovamente, nel 1684, la guerra con la Porta ottomana, veniva per la terza volta, eletto il nostro Morosini a capitan generale. Salpò nel mese di luglio, e corse subitamente ad assediare Santa Maura, e se ne impadronì in capo a sedici giorni; prese poi Nicopoli, occupò la Prevesa e il Zeromero. L’ anno dopo, conquistò Corone, Calamata, Zarnata, Chiefalà, Passava e la fortezza delle Gomenizze, ed in ogni incontro riportò sopra i nemici vittoria. Nella campagna del 1686, fugò l’esercito turco sotto Chiefalà, prese Napoli di Romania, Navarino, Modone, Argos ed altri luoghi. L’ anno dopo disfece l’oste turca, prese Patrasso e Lepanto, e, con lo flotta del golfo, casteI Tornese, Misistra ed altre terre, traducendo cattivi da circa tremila nemici. Poi acquistò Corinto ed Atene, la quale ultima città bombardando, a grande sventura, da lui stesso compianta, sofferse mina gran parte del tempio famoso di Minerva, il Partenone. Tante splendide vittorie valsero a far sì che, con nuovo esempio, il Senato decretasse la erezione del suo busto fuso in bronzo, nelle sale d’armi del Consiglio dei dieci, e gli valsero il soprannome di Peloponnesiaco. Poco appresso, passato alla seconda vita il doge Marc”Antonio Giustiniano, quantunque assente il Morosini dalla patria, fu eletto a succedergli, come più sopra dicemmo, ove pur narrammo quanto poscia operò essendo doge, finché venne a morte nell’età sua di anni 76, dopo sei anni circa di principato. Il Morosini fu un eroe che illustrò la patria e la fece splendere di gloria non peritura, e la storia narra essere stata la sua morte pianta sinceramente dall’armata, la quale aveva sempre ammirato in lui il valoroso guerriero, l’esperto capitano, il padre dei suoi soldati, l’ottimo cittadino; e narra del pari che la città tutta fu a quell’amara notizia immersa nel lutto. Pure fu chi detrasse alla sua fama, propagando alcuna satira. Una di queste conserviamo in un codice cartaceo di Miscellanee, scritta in centottanta versi scipiti, in forma di dialogo, i cui interlocutori sono, il Morosini, Caronte, una scolta d’ Averno, Pluto ed i soldati morti in battaglia. Incomincia: Caronte, olà, Caronte. Finisce: Giuro che questo a le fido consegno.

(b) E non il 6 maggio 1689, come segnò il Romanin nella sua Storia documentata di Venezia, non avvedendosi del grave anacronismo; mentre Alessandro VIII fu assunto all’onor della tiara il dì 6 ottobre dell’ anno suddetto, cioè cinque mesi dopo l’epoca da lui citata.

(c) Il sepolcro del Morosini é situato poco lungi dalla porta centrale della chiesa di santo Stefano, nella navata maggiore. Il sigillo é ricco d’ ornamenti in bronzo fusi da Filippo Parodi, e reca questa inscrizione :

FRANCISCI MAVROCENI PELOPONNESIACI VENETIARVM PRINCIPIS OSSA MDCXCIV.

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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