Francesco Molino. Doge XCIX. — Anni 1646-1655

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Sala dello Scrutinio. Camillo Ballini. Ritratto di Francesco Molino

Francesco Molino. Doge XCIX. — Anni 1646-1655 (a)

I correttori alla Promissione ducale, in sede vacante, trovarono di regolarla, aggiungendovi il divieto al doge di uscire dalla città senza licenza, e l’obbligo di recarsi ai magistrati per sollecitare la spedizione delle cause almeno ogni primo giorno del mese, se pur non ogni mercoledì, come per il passato, e di visitare ogni tre mesi improvvisamente l’arsenale: abolirono anche la coronazione delle dogaresse, onde sollevar dalle spese le arti, che in tali occasioni erano quasi obbligate di fare; proibirono, da ultimo, la elezione dei nipoti del doge ad ambasciatori alle corti straniere. Dopo ciò, il 20 gennaio 1646 fu chiamato al trono ducale Francesco Molino, uomo stimatissimo per la sua profonda pietà e per lo amor caldo verso la patria.

Eletto, in suo luogo, al supremo comando delle armi in Candia Giovanni Cappello, pensava la Repubblica a sollecitar nuovamente l’assistenza dei principi cristiani; ma le discordie e le difficoltà del congresso che tenevasi a Munster, non lasciavano loro modo ad inchinarsi ai desideri ed ai voti dei Veneziani. I quali, approfittando della missione dell’ambasciatore di Francia a Costantinopoli, il De Varenne, scrissero al sultano e al gran visir: Non aver dato la Repubblica nessuno giusto motivo alla Porta di lamento; esser per ciò dolentissima e in pari tempo sorpresa nel vedersi assalita contro la fede dei trattati; tenersi in fiducia nella equità del sultano e nella saviezza dei suoi ministri, per sperare il rinnovamento dell’antica amicizia.

Il De Varenne, commesso pure dal proprio re, espose anche a di lui nome le cose medesime, e consegnò le lettere alla prima udienza; ma il superbo visir a rincontro gli rispose con modi aspri, che la pace non sperassero i Veneziani, se la cessione del regno di Candia e il rimborso dell’oro speso nella guerra, non fossero le prime condizioni del trattato.

Perduto ogni conforto dai nostri; tornati vani i maneggi con Ladislao re di Polonia, perché operasse diversione potente nella Crimea e nell’Ungheria, pensarono ricorrere a straordinari mezzi onde ottenere denaro. Quindi si ordinò a tutti i cittadini di recare alla zecca tre quarti del loro vasellame prezioso; si crearono tre nuovi posti di procuratori, per essere conferiti a chi dava la somma maggiore di 20.000 ducati, e durante questa guerra si rinnovarono molte volte siffatti concorsi; si propose di vendere la nobiltà, e sebben combattuta fosse la massima nel Maggior Consiglio da Angelo Micheli, pure, per il discorso eloquente di Jacopo Marcello, quantunque non passata la parte, furono ascritti, pochi per volta e secondo i particolari meriti loro, ottanta nuovi nobili nel libro d’oro.

Intanto il generalissimo Girolamo Morosini bloccava la Canea. Tommaso Morosini, di lui parente, incrociava le acque dei Dardanelli, onde impedire l’uscita alla flotta turca; il capitan generale Giovanni Cappello entrava nel porto di Suda per adiuvare quella colonia ridotta senza ordine; ma le sconfitte toccate, e la peste che introdotta erasi nelle milizie, assottigliarono le forze dei nostri, non ben dirette dal Cappello, vecchio settuagenario e lento nelle opere e nelle risoluzioni. Quindi, perduto Rettimo, e svanita alcuna impresa, soggiunto l’inverno, fu il Cappello richiamato, ed in suo luogo sostituito Giambattista Grimani.

Egli, non appena tornata la primavera, si volse a riparare i danni sofferti. Predò due vascelli algerini presso Milo, e poiché un colpo di vento divideva la nave del prode Tommaso Morosini, che non temeva affrontar solo la intera divisione del capitan pascià, composta di quarantacinque galee, morendo gloriosamente nel conflitto, accorreva il Grimani a salvare la minacciata nave, mettendo lo spavento e la strage nell’intera oste dei Turchi, dei quali ne perirono da oltre millecinquecento.

Poi perseguì in altro incontro la flotta ottomana; predò alcune saicche; prese d’assalto un forte nel porto di Cismes, e ventinove altre saicche; bloccò tutti i porti ove ì Turchi tenevano provvigioni, non che l’intera squadra nemica, che riparata si era a Napolì di Romania; scorse l’Arcipelago; pose in contribuzione la maggior parte delle isole turche, e finalmente andò a svernare in Candia.

Anche il generale in Dalmazia, Leonardo Foscolo, operava efficacemente combattendo da quelle parti: imperocché, quando scorreva il paese desolandolo, quando incendiava le provvisioni nemiche, e quando per ogni dove cacciava i Turchi, incendiando loro il castello di Dernìs. e conquistando Knin, rocca creduta inespugnabile, nei confini della Bosnia; toglieva Zemonico; ripigliava il perduto Novegradi, e i castelli di Tine, di Nostissina, di Obroasso e le città di Scardona e di Salona.

Ma le continue discordie dei regnanti europei, che accordare ancor non si potevano nel congresso di Munster, facevano veder chiaro ai Veneziani, non poter sperare alcun aiuto da essi. Stanchi dal peso della guerra accanita coi barbari, pensarono di mettervi fine, a costo di altri sacrifici, giacché le poche loro forze non erano in grado di sostenere la innumerevole oste nemica. Luigi Valaresso e Francesco Quirini si opposero però con forza in Senato alla proposizione di cedere alla Porta l’isola di Candia, siccome mezzo di ottenere la pace.

All’aprirsi della campagna, nel 1648, il Foscolo innalzò l’animo a cose maggiori, tentando la espugnazione di Clissa, fortezza considerevole, poco discosta da Spalato. Quindi, unito con Girolamo Foscarini, Luigi Cocco, con il conte Ferdinando Scotto e con altri capitani, diede il 19 marzo il primo assalto; e guadagnate consecutivamente e valorosamente le tre cinte che munivano quella fortezza, se ne rese padrone, il dì ultimo del mese stesso.

Ma questa vittoria veniva grandemente amareggiata dal disastro toccato dalla flotta, capitanata dal generalissimo Grimani. La quale uscita, il 17 del medesimo marzo, dal porto di Psara, per recarsi a chiudere il passo dei Dardanelli al nemico, una fiera burrasca, sorta improvvisamente, sperperò la flotta stessa, rimanendo lo stesso Grimani vittima dell’onde. Assunto però tosto il comando dal provveditore Giorgio Morosini, e ricevuto per via rinforzo di nuova squadra retta da Girolamo Riva, pose il disordine nella flotta ottomana, che voleva tentare il passaggio accennato dei Dardanelli.

Intanto saputosi dalla Repubblica il disastro cagionato dalla burrasca, non smarrì d’animo, e posta una contribuzione pesante, che pagata veniva senza difficoltà dai buoni cittadini, si pensò di armare nuove galee, e s’implorò l’assistenza dei principi cristiani. Il pontefice spedì le sue galee con quelle di Malta, accordò una decima sul clero, ed il re di Spagna ordinò al comandante di Napoli, staccasse una squadra dalla sua flotta, e la mandasse in Candia; ordine però che non ebbe effetto per le discordie accadute in quel regno.

Eletto a capitano Luigi-Leonardo Mocenigo, in luogo dello sventurato Grimani, si portò in Candia, ed incalorì indefessamente i lavori per la difesa della capitale. Lungo sarebbe qui a dire le molte prodezze da lui operate, e dal provveditore Morosini, e da Jacopo Riva, che comandava la squadra bloccante lo stretto dei Dardanelli, e da Lorenzo Marcello, e finalmente dal generale Lippomano, questi due ultimi spediti a nuovo rinforzo; basterà accennare soltanto che il Mocenigo, dopo replicati assalti dati dai Turchi e da lui sostenuti con inudito valore, poté, nella sorgiunta stagione invernale, far sì che levassero l’assedio, procurando poi altri vantaggi con la sua flotta, condotta qui e qua a danno di essi.

Ma la guerra troppo oro e sangue costava ai Veneziani. Pertanto fu discusso nuovamente di ceder Candia all’infedele, e il cavaliere Vincenzo Gussoni ne recava la proposizione in Senato. Parlò egli da uomo saggio, ma trovò opposizioni nel senatore Giovanni Pesaro, e tanto che l’affare venne prolungato per molte sedute e con calore di concioni. Nel frattempo che ciò si agitava accadde una rivoluzione in Costantinopoli, per la quale dai giannizzeri venne trucidato il sultano, e sostituito suo figlio Maometto IV, che contava appena dodici anni. Questa nuova aveva fatto sorgere una qualche lusinga che sotto il nuovo sultano avessero più facilmente trovato ascolto le proposizioni di pace. Si destinava quindi per ambasciatore a Costantinopoli, nell’ottobre 1649, il cav. Alvise Contarini, il quale, nell’atto di gratulare il sultano stesso pel suo avvenimento al trono, doveva recargli proposte di pace. Il bailo Soranzo ottenne, con gran difficoltà, una udienza dal nuovo gran visir, nella quale espose, che la Repubblica era disposta a ristabilire l’antica armonia tra li due Stati, e perciò chiedeva sicurezza per l’ambasciatore che essa divisava inviargli. Ne ebbe in risposta: spedissero i Veneziani l’inviato, con potere però di restituire alla Porta la presa Clisa e di ceder Candia. Scrisse il Soranzo alla patria, ma la patria ricusò le vili condizioni, rispondendo però in termini di moderazione e dignità: non accetterebbe la pace, se la restituzione reciproca dell’invaso terreno non fosse la condizione suprema.

Non appena udita dal gran visir la risoluzione del Senato, fece, con barbara ferocia, strangolare l’interprete Grillo e mettere in ferri il Soranzo, tenuto fino allora strettamente guardato.

Jacopo Da Riva intanto, che avea passato l’inverno guardando lo stretto dei Dardanelli, al sorgere del maggio 1649, e allorquando usciva dallo stretto indicato la squadra nemica, la prese sì coraggiosamente ad inseguire, che, giunta sulle coste di Natolia, molta parte ne incendiò, molta ne prese e manomise, e 500 prigioni e 7.000 morti furono i frutti della vittoria.

Dopo alquanti successi, qual più qual meno in vantaggio dei Veneziani, si in Candia che in Dalmazia, e dopo il secondo inutile assedio posto alla capitale di Candia stessa, e di poi levato dal Turco, Riva ebbe ordine dal Senato di porre ogni attenzione per impedire l’uscita dell’armata nemica dai Dardanelli, ed egli vi corrispose con avvedutezza e coraggio indicibili. Che se il Riva apportava vantaggi alla guerra, non meno di esso li recava il capitan generale Mocenigo, e il di lui nipote Luigi; e quindi le operazioni dei Turchi in Candia nel 1650 si ridussero a deboli attacchi, nei quali ebbero essi sempre qualche sconfitta. Cercò coi raggiri di ottenere la Porta quei vantaggi che non poteva conseguire con le armi; ma non ebbero effetto, e nuove turbolenze in Costantinopoli pose la vita in forse al sultano. Queste ultime però, sedate da lui con la forza dell’oro, gli dimostrarono che doveva tener viva la guerra al di fuori, se voleva in casa la pace. Quindi preparassi con ogni alacrità per aprir la campagna nell’anno seguente 1651.

La flotta turca poté uscir finalmente dallo stretto, che il danno sofferto dalle tempeste da quella del Riva lo obbligava, richiamato, a ripararla, e a dare riposo alle ciurme. Pervenne il nemico nelle acque di Santorino li 7 luglio, ed il generalissimo Mocenigo staccò Girolamo Battaglia per riconoscerlo. Egli lo scopre, s’avanza fin sotto alle di lui file, ed impigliato fra la numerosa oste, non si scoraggia; ma fulminando dai bordi morte e ruina, passa e ripassa trionfante nel mezzo a loro, e porta al general suo la novella, essere numeroso il nemico, ma senza cuore. Li 10 del mese stesso, giunte le squadre a fronte all’altezza di Paros, impegnarono sì fiero combattimento, che alla fine la vittoria arrise ai Veneziani, e sì splendidamente, che distrutta rimase presso che tutta la flotta ottomana.

Mocenigo spedì a Venezia tre dei migliori vascelli presi, e la nuova giunse nel mentre il Maggior Consiglio era unito. Il doge Molino, accompagnato da tutti i nobili, tosto discese nella basilica di San Marco a porgere a Dio grazie dovute. Richiamato il Mocenigo alla patria onde godesse quell’onorato riposo che egli chiedeva, e concedevano le leggi, fu a lui surrogato Leonardo Foscolo, che distinto si aveva nella guerra di Dalmazia.

Si segnalò egli tosto saccheggiando l’isola di Samos; abbruciò quindi. nel porto di Stanchio molte saicche cariche per la Canea, e sottomise l’isola di Lero, riparandosi poi, per l’inverno vicino, alla Standia.

Nuove turbolenze erano scoppiate in Costantinopoli mosse dagli indomiti giannizzeri, ma queste non recarono ai Turchi danno di molta rilevanza. Bene avrebbe portato danno ai Veneziani la rivoluzione accaduta in Candia fra i soldati che dovevano difenderla, se la virtù dei comandanti non l’avessero repressa tosto nata.

La religione della Repubblica, che fin dal principio di questa guerra, per impetrare la protezione del cielo, aveva eretto la chiesa di Santa Maria del Pianto, ed il magnifico altare di San Lorenzo Giustiniani, nella cattedrale di Castello, adesso innalzava un altro ricco altare al Santo di Padova, nel tempio di Santa Maria della Salute, ed ordinava che da Padova stessa si traducesse uno degli avambracci di quel Taumaturgo, onde fosse riposto sul nuovo altare, decretando, che in perpetuo ogni anno, il dì che la Chiesa celebra la sua festa, il doge, il senato ed il clero si recassero processionalmente a venerare quella insigne reliquia; voto che tuttavia si persolve dall’autorità edilizia.

Al sorgere della primavera del 1653, Foscolo usciva in mare, e molti vantaggi otteneva dal suo valore e dalla sua diligenza. Ma questi vantaggi non erano tali da poter far sperare da essi il fin delle pugne. Si arroge a ciò che la Repubblica poco o niuno aiuto poteva avere dai principi, ed il sangue sparso di tanti cittadini la richiamavano a pensieri di pace. Perciò spediva a Costantinopoli il cavaliere Giovanni Cappello. Nulla egli ottenne dal fiero gran visir Acmet, al quale parlò; ma anzi, contro il gius delle genti, venne carcerato in Adrianopoli, finendo poi miseramente logorato dal dolore e dai patimenti a Costantinopoli.

La flotta ottomana usciva ancor dallo stretto al finire dell’inverno, ed il Foscolo, che impegnato si era a saccheggiare la Natolia e le isole dell’Arcipelago, e a struggere presso Malvasia un forte proteggitore dei soccorsi destinati dal nemico in Canea, non poté combatterla. Per cui venne richiamato a Venezia, e Luigi Leonardo Mocenigo fu di nuovo colà spedito a regger la guerra. E sebben questa dovesse occupare la mente del doge e del Senato, pure non lasciarono di curar la riforma nell’interno della capitale, procurando di por nuove leggi al lusso smodato e alla moneta divenuta assai rara.

L’anno seguente 1654, incominciarono di nuovo le operazioni navali. Mentre il Mocenigo stava per prendere il comando della flotta nell’Arcipelago, Giuseppe Dolfin si portò ai Dardanelli con una divisione di sedici navi, due galeazze ed otto galee, quest’ultime comandate da Francesco Morosini capitano del golfo. I Turchi, capitanati da Amurat, pascià di Buda, si presentarono li 13 maggio con quarantacinque galee, sei maone e ventidue navi e vari brigantini armati, per sforzarne il passo, nel tempo stesso che altre ventidue galee, fuori dello stretto, venivano in suo soccorso, serrando così i Veneziani dalle due parti. II Delfino, ad onta della superiorità del nemico, non curando il pericolo di porsi tra due fuochi, comandò ai suoi di attaccarlo: ma i particolareggiati suoi ordini vennero male eseguiti, e quindi una galea fu costretta a rendersi dopo ostinato e sanguinoso combattimento. La nave di Daniele Morosini, circondata dai Turchi, si liberò per la insistenza del suo fuoco, ed anzi predò una sultana; ma il nemico, non potendo soffrire l’ignominia della perdita, operò non ordinari sforzi per riaverla, ne potendo venirne a capo la incendiò. La fiamma si comunicò alla nave veneziana e la fece saltare in aria. Quella di Sebastiano Molino incontrò la medesima sorte. Ma il più terribile combattimento fu quello che il Delfino sostenne con la sua nave, aiutata da una galea, contro quattro grossi vascelli e due sultane. La sua ga1ea, perforata da mille colpi dei bronzi nemici, fu ben presto ridotta in pessimo stato, cosicché ne ritrasse la ciurma e vi pose il fuoco. Rimasto solo con la sua nave si batté con disperato animo contro una moltitudine di navi che lo circondavano. Perdette alberi, vele e timone, e battuto da continuati colpi a fior d’acqua, sortì salvo dal canale in mezzo alla flotta avversa, e presso a terra all’infretta acconciata la sua nave, attaccò di nuovo la capitana dei Turchi, e la sottomise. Quattordici legni nemici vengono per liberarla. Delfino la disarma e l’abbandona, passa tra i nemici, e si restituisce ai suoi, che lo credevano già perduto.

Sfuggita poco poi la flotta turca alle sollecitudini del Mocenigo, egli di cordoglio ammalatosi, approdava alla Scandia, ove moriva nell’anno 71 dell’età sua, ottenendo pianto sincero dai Veneziani tutti, i quali in lui perdevano uno dei più distinti capitani che avessero illustrato con geste valorose la patria.

Nel mentre erano le cose della guerra in questi termini, venne a morte il doge Molino, il 27 febbraio 1655, e tumulato nell’arca dei suoi maggiori, nel chiostro di Santo Stefano, fu lodato da Jacopo d’Amore Somasco, orazione ebbe va alle stampe.

Al suo tempo si fondarono, o si murarono di nuovo le fabbriche seguenti. Nel 1646 si rinnovò dai fondamenti la chiesa di San Procolo. L’anno appresso, si rialzò pure dai fondamenti quella di Santa Margherita: e si fondava, da Maria Ferrazzo, il cenobio e la chiesa di Santa Teresa, l’uno e l’altra passati poi, nel 1648, in giuspadronato ducale. Nel 1647 la Repubblica fondava la chiesa ed il monastero di Santa Maria del Pianto, per sollecitazione della pia monaca Maria Benedetta dei Rossi. Nel 1649 si fondava del pari la chiesa ed il monastero di Santa Maria in Nazaret, detta degli Scalzi; ed si erigeva la ricca si ma barocca facciata della confraternita di San Teodoro, per il lascito fatto di 30.000 ducati dal mercatante Jacopo Galli; come pure si murava di marmo, nel 1652, l’altra facciata della chiesa di San Tomaso. A queste fabbriche si debbono aggiungere quelle di tre teatri, vale a dire, nel 1649, del teatro dei Santi Apostoli; e nel 1654, quelli di Sant’Apollinare e dei Saloni a San Gregorio; tutti poi, con l’andare degli anni, distrutti. Tali opere, quali più e quali meno grandiose e costosissime, erette in tempi disastrosi, dimostrano il carattere e l’animo grande dei Veneziani, i quali non guerre, non pesti, ne altri infortuni valsero a prostrarli giammai.

Il ritratto del doge Molino offre lo stile di Camillo Ballini, che dipinse uno dei comparti del soffitto nella sala dello Scrutinio, e l’intero soppalco dell’andito che mette ad essa sala. Nel fondo di esso ritratto si legge la seguente iscrizione, anche questa al tutto diversa da quella riportata dal Palazzi, che dice: Fluctuatum in Europa: ego firmus steti. Sustinui Rempublicam, Vlturus (sic) Caneam, terra, marique cum Turca conflixi: ferme victor utrobique evasi. Pro um Canea plurima oppida expugnavi, et capta Clissa vicem Turcis reposui.

FRANCISCVS MOLINVS DVX, INTERNIS PERICVLIS INTACTVS CVPIDITATI VIDIT EX SVPERIORE LOCO, TERRA ET MARE. VIDET EX AEQVO COELVM. (1)

(a) La famiglia Molino, sia che venisse a por sede in Venezia nell’377 da Mantova, come pensano il Malfatti, il Frescot ed altri cronacisti e genealogisti, o che da Tolomaide veleggiasse ai nostri lidi nel 1292, secondo scrive lo Zabarella nell’Aula heroum, o finalmente, siccome dettano Lorenzo Pignoria e Filiberto Campanile, quello nei suoi Commenti storici sulla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, e questo nelle sue Insegne dei nobili, al trattato della famiglia d’Aquino, traesse origine antica dai popoli nomadi, certo é, che ascritta al patriziato, produsse in ogni tempo uomini nella toga, nelle armi, nella politica, nel sacerdozio e nelle lettere celebratissimi e memorandi. Eresse poi in Venezia vari edifizi, tra i quali la chiesa di Santa Agnese ed il monastero di San Daniele, e tiene molte memorie e monumenti nobilissimi in altre chiese. Tre scudi di poco diversi usò questa casa, che si dice essere stata divisa in due rami distinti. Il primo scudo porta, in campo partito d’argento e vermiglio, una ruota da molino dei colori contrapposti: il secondo, una ruota d’ oro in campo azzurro, ed é quello sottoposto al ritratto del nostro doge: l’ultimo, inquartato; nel quale il primo e quarto punto reca la stessa ruota d’oro in campo azzurro, e nel secondo e terzo ha l’aquila bicipite nera, in campo d’oro.

Francesco Da Molino nacque nel 1575 da Marino, e sostenute in età giovanile le minori cariche nell’armata navale, si vide, per la di lui rara prudenza e saggezza, nella freschissima età d’ anni 28, cioè nel 1603, promosso a provveditore in Golfo. Nel 1610 fu eletto capitano nel Golfo stesso, affine di reprimere i pirati Uscocchi che lo infestavano, ed egli li batté per guisa che per alcun tempo non furono più in grado di rendersi molesti. Due anni dopo veniva spedito il Molino contro i Ferraresi, i quali erano entrati nella bocca di Goro, e messo avevano, a indizio di possesso, una gabella con titolo di ancoraggio, ed ufficiali perché riscuotessero il nuovo aggravio. Egli adunque li cacciò da quel luogo, e fece valere ivi il diritto della Repubblica. Nella guerra, del 1613, per la successione al ducato di Mantova, furono spediti vari provveditori qui e qua, onde munire le rocche e fortificare le piazze al confine, ed il Molino venne mandato provveditore in Asola sul Bresciano. Due anni appresso, per timore dell’altra guerra che stava per rompersi fra Spagna e Savoia, si recava Francesco provveditore dell’armata sul lago di Garda. Nel 1623 fu eletto provveditore generale in Dalmazia, onde armare le piazze di confine, sul dubbio che Ferdinando II mirasse ad allargare il suo imperio. Candia, nel 1628, avea d’uopo di alcuni provvedimenti, ed il Senato spediva colà il nostro Molino, il quale tosto ricondusse l’ordine nel governo di quest’isola, che molto sangue e dolori costò ai Veneziani. Ripatriatosi di nuovo Francesco, sostenne le cariche più gelose dello Stato, infino a che pei distinti suoi meriti, il dì 11 gennaio 1633, conseguì quella di procurator di San Marco de supra, in luogo del defunto Simeone Contarini. Altri uffici persolse fino al 1641 in cui lo vediamo inquisitore al sale: quindi, nel 1645, eletto generalissimo di mare contro il Turco, mosse alla difesa della minacciata isola di Candia, ma dopo un anno, aggravato fieramente dalla podagra, fu sollevato dall’operosa missione, cedendo il carico a Girolamo Morosini. Tornato alla patria, pensò curare la malferma salute, ma in quel mentre, morto Francesco Erizzo, fu eletto doge il Molino. Il di lui reggimento fu una continua serie di amarezze, come vedemmo, per la guerra col Turco, ed egli vinse ogni traversia con la sua molta moderazione e prudenza. Fu caro al popolo, e rispettato per la sua grande applicazione agli affari, nei quali il di lui pesato consiglio molto valse a condurli ad ottimo fine. Gli storici gli rimproverano questa unica pecca, ed é, aver egli avuto una certa rozzezza nei modi e nel discorso; difetto contratto negli impieghi militari da lui sostenuti per lunghi anni in mare ed in terra; ma gli storici stessi soggiungono, che quando si ha questo solo rimprovero non si é lungi dalla perfezione. Il Molino, col suo forte carattere, valse a mettere non poco animo nel suo popolo; valse in gran parte a far sostenere una guerra, che quantunque struggitrice di vite e di averi, l’onore e la gloria della nazione domandavano venisse continuata fino al sorgere di un’ora propizia per stabilire con dignità la pace, d’altronde desideratissima. Né lasciò occasioni per cercarla, e sol depose il pensiero quando vedeva necessario il sacrificio dell’onore e della gloria per ottenerla. Aveva egli, allorquando era procurator di San Marco, nel chiostro del monastero di San Stefano, innalzato un monumento, tuttora superstite, alla memoria dell’illustre suo fratello Domenico, senatore gravissimo, ornato di tutte lettere, e possessore di ricca e preziosa libreria. Francesco doge invece fu tumulato ivi presso, senza ottenere nemmeno l’onore di una inscrizione.

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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