Carlo Goldoni (1707-1793), e le donne
Carlo Goldoni, genio sorridente dei veneziani, compatisce, dall’alto del suo piedistallo di Campo San Bartolomeo, ai colombi che gli fanno strazio della “velada” e guarda, con occhio benigno di filosofo che la sa lunga, alla vita animatissima di quel centro, come a compiacersi che l’anima del nostro popolo non abbia rinunciato a quella naturale arguzia,a quel lieve senso di scetticismo che sono la sua più chiara caratteristica.
Tutta l’esistenza del grande commediografo è stata studiata, analizzata, approfondita e non fu difficile ai critici di porre in rilievo la stretta connessione tra le vicende dei suoi anni e le opere che ci ha lascito. Egli scrisse per molta parte cose viste, vissute, gustate: fu uomo del suo secolo nel senso più profondo dell’espressione, perché ne ebbe tutte le qualità e non tutti i difetti. Il Settecento diede caratteri che non eccellevano né in bene né in male, presi tra il desiderio di ben fare, in contrasto con la vita pratica, molto spesso punto edificante; rappresentavano insomma una mescolanza di cose buone e di cose meno buone, in omaggio al motto perfettamente applicabile a quei tempi. “Messeta, doneta e bassetta” (chiesa, donna, gioco).
Goldoni abbe infiniti modi di avvicinare il gentil sesso e di frequentare luoghi di vita spensierata, specialmente teatri e palcoscenici; egli ne approfittò con piacere, per suo divertimento e per trarre da tanta gente offerta al suo studio tipi che ancora vivono e palpitano nelle sue commedie.
Il riformatore del teatro italiano ha lasciato nelle Memorie ricordi così circostanziati e precisi dei suoi anni giovanili che se ne deve dedurre la sua predilezione per la donna con un inizio straordinariamente precoce. A quattordici anni va a Rimini per studiare filosofia; ma volentieri frequentava il teatro, le attrici, e il suo primo pensiero fu di conoscere il palcoscenico, e scrive: “Tentai di penetrarvi, né vi trovai difficoltà; davo delle furtive occhiate a quelle signorine ed esse mi fissavano arditamente“.
Ritornato da Rimini a Chioggia dove suo padre era medico, poco mancò non cadesse in un piccolo intrigo con una giovane che si trovava in cura nella sua casa e che egli confortava convalescente; ma avendo dovuto metter mano alla tasca per pagare i rinfreschi che questa gli offriva, pensò meglio di prendere prudentemente il largo e non si fece più vedere. Poco dopo entrava in collegio a Padova e subito s’interessava delle belle padovane: “Piaceva alle signore (scrive nelle Memorie) il mio gergo veneziano: la mia età (16 anni) e la mia figura non dispiacevano; le mie strofette e le mie canzoni non erano ascoltate con disgusto!“.
Giunte le vacanze, si pone in viaggio e fa sosta a Modena, presso un dipendente di suo padre e qui viene in scena la donna di servizio, Antonietta.
“Il giorno della partenza (racconta Goldoni) mi alzo di buon’ora per fare il mio baule ed ecco Antonietta che viene nella mia camera e mi abbraccia senza preliminari. Io non ero tanto libertino per trarne partito, la sfuggo: ella insiste e vuol partire meco. Con me? Si, mio caro amico, se no, mi getto dalla finestra. Il padrone di casa cerca la domestica dappertutto, entra e la trova in un fiume di lacrime. Che è stato ? Io tiro a sbrigarmi, bisogna partire. Avevo destinato per la ragazza uno zecchino; ella piange non so come fare. Stendo il braccio e offro la moneta: Antonietta la prende, la bacia e, tutta piangente la mette in tasca“.
Uscito di collegio quattro anni dopo, Goldoni è a Udine per riprendere gli studi e qui naturalmente si innamora di una signorina, le manda dei versi, dei piccoli doni, va la notte sotto le sue finestre. Una brutta sera si accorge che chi gli corrisponde non è la giovane amata, ma la sua governante, brutta da far paura.
Egli desidera di darsi all’arte drammatica, incontrando però la più viva contrarietà del padre che lo costringe a occupare un posto di aggiunto coadiutore nelle cancellerie criminali. Per fortuna viene a illuminare la sua vita una bellissima e ricchissima educanda che studia a Chioggia, presso le Religiose di San Francesco. Sventuratamente, egli apprende che la fanciulla sta per prendere marito e questi è il suo vecchio tutore. Sconsolato e indignato, lascia Chioggia e scrive nelle Memorie: “non la vidi più e, grazie a Dio, non tardai molto a scordarmi di lei“.
Sono passati pochi mesi; a Feltre dove scrive la sue prime commedie, Goldoni intreccia un romanzetto con una bella signorina che gli corrisponde; ma è preso dalla paura che, dopo il matrimonio, imbruttisca come la sorella che “era stata una rara bellezza e divenne brutta dopo i primi parti“.
A venticinque anni, mortogli il padre e dovendo fronteggiare le necessità della vita, egli si laureava in legge all’Università di Padova e apriva studio a Venezia. Non aveva clienti; gli toccava di passare le lunghe ore nel suo deserto ufficio, assillato dalla preoccupazione di numerosi debiti. In tali circostanze, prendi di mira una donna anzianotta, ma ricca; questa lo tiene in bilico fra il si e il no, finché finisce a dar la sua mano a un patrizio al quale, in cambio del titolo di nobile, porta la dote vistosa. Carlo pensa alla vendetta e si mette a spasimare dietro la nipote della vecchia, cadendo imprudentemente nella rete della madre della signorina e dei suoi parenti; che lo costringono a sottoscrivere un contratto di matrimonio, in tutte le forme e regole. Per sfuggire a questo trabocchetto, egli deve chiudere addirittura l’ufficio e andare a Milano.
Nella capitale lombarda incontra una giovane bella veneziana ed afflitta, che gli dice di chiamarsi Margherita Biondi; seppe poi che non era né Margherita, né Biondi, né nipote (di un vantato zio), né fanciulla; era giovane bella e le trovò un bellissimo appartamento, tutto ammobiliato e di buon’aria, sulla Piazza d’Armi. Andò a desinare da lei il giorno dopo e ancora per parecchi giorni di seguito.
Entriamo ora in una ambito più complicato, perché si delinea l’abilità donnesca di un’attrice che, dice il commediografo, “aveva fatto già tentativi inutili per guadagnarmi“.
Lasciamola raccontare a lui questa storia: a riassumerla, si guasterebbe.
“Ricevo un giorno (egli scrive) un biglietto di sua propria mano, col quale mi prega di andare in casa sua verso le cinque della sera; ci vado ed essa mi riceve in un abbigliamento da ninfa di Citèra: mi fa sedere sopra un canapè accanto a sé e mi dice le cose più lusinghevoli e più galanti, in tono appassionato: Sarà possibile che, di tutte le donne della Compagnia, io sia la sola ad avere la disgrazia di dispiacervi? Vedervi preferire a tutte una giovane stupida, una donna senza ingegno e senza educazione, questa è cosa che fa vergogna a voi ed è umiliante per me. Oh mio Dio, non aspiro già alla fortuna di possedere il vostro cuore, ma son comica, giovane, abbisogno di consiglio e di protezione. Voi potreste contribuire alla mia felicità col vostro ingegno e colle vostre cognizioni, ma voi mi abbandonate, mi disprezzate, oh!“
Alle lagrime dell’artista, egli si intenerisce. Fanno una bella passeggiata in gondola. E’ notte: il gondoliere canta in tono appassionato la “Gerusalemme” del Tasso.
Andò in seguito a farle delle visite, le dedicò un intermezzo a finalmente si accorse che amoreggiava col primo attore della Compagnia!
Nel 1736 Goldoni sposava a Genova Nicoletta Conio, “una giovane savia onesta graziosa (scrive egli stesso) che mi indennizzò di tutte le male azioni fattemi dalle donne e mi riconciliò col bel sesso!“.
Egli amava teneramente Nicoletta e ce ne fa fede il graziosissimo quadretto col quale egli racconta un episodio di viaggio. Abbandonato da un vetturale di Pesaro in mezzo alla strada maestra, a sei miglia da Cattolica, riprendeva con la moglie il viaggio a piedi e, incontrato un ruscello “troppo largo per saltare e profondo troppo perché lo potessi guadare, non mi perdo d’animo (scrive) mi inginocchio e mia moglie avviticchia le sue braccia al mio collo; mi alzo ridendo, attraverso il fiume con un’allegrezza indicibile e dico e me stesso. Omnia bona mea … mecum porto … Porto con me tutti i miei beni!“.
Poco tempo dopo il matrimonio, Goldoni racconta che l’antica predilezione per il ruolo della “servetta“, lo “determinò per la signorina Baccherini“. Era una giovane fiorentina “molto allegra e sommamente sfarzosa, di sana struttura, tonda e grassoccia, carnagione bianca e occhi neri“. Goldoni lavorava per la sua gloria, essa dissipava il suo malumore.
Dopo tre anni di abbandono delle scene, durante i quali si dedicò di nuovo all’avvocatura, ecco comparire un’altra figura femminile, quella della Medebach ispiratrice di alcune sue commedie.
E da molte donne che conobbe, egli prese ispirazione, esclamando ad un punto delle Memorie: “Oh! di quante scene mi hanno provveduto le mie vicende medesime!“. Aveva composto per la Baccherini la “Donna di garbo” e, per la signora Merliani “giovane veneziana molto amabile, molto bella, piena di vivacità e d’ingegno”, scrisse “La locandiera“. Di altre sarebbe assai lungo narrare. Tutte passioni più o meno vive, più o meno fuggevoli, che hanno avuto il sommo pregio di offrire ad un osservatore acutissimo, quale egli era, i felici soggetti del suo teatro immortale. (1)
(1) L.V. IL GAZZETTINO ILLUSTRATO, 6 marzo 1926
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