I teatri dei veneziani

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Gabriele Bella. Interno del teatro di San Samuele. Fondazione Querini Stampalia

I teatri dei veneziani

L’origine della commedia si può rintracciare fra noi nelle così dette momarie, o bombarie, che solevano rallegrare i banchetti nuziali, ma che poi si diedero anche in occasione d’altri festeggiamenti, introducendovi gli Dei del paganesimo, od altri allegorici personaggi.

A poco, a poco, e questo fu nel principio del secolo XVI, tali rappresentazioni assunsero una forma più regolare a merito specialmente del Lucchese Francesco de Nobili, detto Cherea. Egli tradusse alcune commedie di Plauto e di Terenzio, ed altre ne compose di nuove, sostenendo le parti di poeta insieme, e di attore. Furono di lui imitatori Antonio Molino, soprannominato il Burchiella, che parlava in lingua Greca e Schiavona, corrotta con l’Italiana; Armonio frate Crocifero, ed organista della basilica di San Marco; Valerio Zuccato dal mosaico; una Polonia, che poi dello Zuccato divenne sposa; Angelo Ruzzante, soprannominato Beolco, ed Andrea Calmo. In tal modo il genio comico andò rafforzandosi, finchè, massime per opera di Carlo Goldoni, il quale sbandì dalle scene le così dette commedie a soggetto, ottenne pieno sviluppo fra noi.

Dapprima le rappresentazioni succedevano nei palazzi degli ottimati, oppure nei conventi sopra mobili palchi. La gloria della fondazione del primo teatro era riservata alla compagnia della Calza chiamata dei Sempiterni, che nel 1565 ne fece sorgere uno di legno nell’atrio del monastero della Carità, sopra disegno del grande architetto Palladio.

Dietro questo esempio si fabbricarono il teatro denominato Vecchio in Corte Michiel a San Cassiano, un’altro nella stessa parrocchia, perciò denominato Nuovo, uno ai Santi Giovanni e Paolo, presso le Fondamente Nuove, uno a San Moisè, un’altro ai Santi Giovanni e Paolo, ove poi fu la Cavalerizza, quello di San Salvatore, detto volgarmente di San Luca, ora Goldoni, quello di Sant’ Angelo, quello di San Samuele, poi Camploy, quello di San Giovanni Grisostomo, ora Malibran, quello di San Benedetto, ora Rossini, e finalmente nel 1792 quello della Fenice. Altri piccoli teatri, alcuni dei quali ebbero corta vita, si aprirono in altre contrade, come a Sant’Apollinare in Corte Petriana, ai Santi Apostoli in Calle dei Proverbi, a San Gregorio ai Saloni, in Cannaregio al Sottoportico Scuro, a San Fantino presso il Sottoportico della Malvasia Vecchia, a Santa Sofia in Calle dell’Oca, in Campo dei Carmini ecc.

I nostri teatri schiudevano i loro battenti verso la metà d’Ottobre. Nella sala non vi erano lampioni, nè lampade, e soltanto, prima che si alzasse il sipario, si accendevano ai due lati della scena due lucignoli ad olio, posti in cima a due torce di legno, che, incominciato lo spettacolo, si spegnevano, per dar luogo ai soli lumi della ribalta, mentre i professori d’orchestra dovevano accontentarsi del fioco chiarore tramandato da alcune candele di sego. Ben è vero che talvolta spuntava qualche illuminazione nei palchetti, ove, fra un atto e l’altro, si cenava senza riguardo, e con chiasso importuno, non essendo raro il caso che si sputasse dall’alto, o si gettassero mozziconi di candela sulla testa dell’umile volgo. Nè mancavano le grida di lode, o di biasimo, secondo i partiti, le risa sgangherate, i miagolii da gatto, gli starnuti, le tossi, gli sbadigli, e negli intermezzi le voci dei venditori d’acqua col mistrà, d’aranci, di mele, o pere cotte, di fritole, di scalete, od altro genere di cialde.

Nel 1637 apparve la prima opera in musica al teatro Nuovo di San Cassiano con l’Andromeda, poesia di Benedetto Ferrari, vestita dalle note di Francesco Manelli. Più tardi s’aggiunsero le produzioni coreografiche propriamente dette. I Veneziani andavano pazzi per somiglianti spettacoli, sicchè molte volte il talento degli ambasciatori all’estere corti era impiegato a provvedere le nostre scene di valorosi soggetti. I gentiluomini gareggiavano fra loro nello stendere la loro protezione sopra le vezzose cantanti e danzatrici, col patto però che queste avessero pietà delle fiamme amorose che li distruggevano. E per certo, non era cosa scevra di pericolo che alcuna di esse si piantasse in capo di far la ritrosa.

Valga l’esempio di Stella Cellini, danzatrice al teatro Nuovo di San Cassiano, la quale, per non aver voluto accondiscendere alle voglie del N.U. Tommaso Sandi, giudice alla Bestemmia, si vide, sotto l’imputazione di pratiche scandalose perfino con Turchi, condannata allo sfratto con sentenza 29 gennaio 1780 M. V. Ma avendo presentato un’attestazione di buoni costumi del pievano della parrocchia di San Benedetto, ove abitava, alla locanda dei Tre Re, e quella di due ostetrici, che la dichiararono tuttora zittella, ebbe la compiacenza di vedere quanto prima tagliata la sentenza suddetta per opera del Consiglio dei X, laonde, in mezzo ad un subbisso d’applausi, tornò a danzare sulle scene del suo teatro, ed i nostri gondolieri si diedero allora, celiando, a giurare non più per Maria Vergine, ma per la Vergine Cellini.

I nostri teatri però, con il volgere degli anni, andarono migliorando, ed anche materialmente si fecero più luminosi, belli, ed eleganti, finchè giunsero allo stato in cui li vediamo al l’epoca presente. (1)

(1) Giuseppe Tassini. Feste, spettacoli, divertimenti e piaceri degli antichi veneziani. Venezia. Stabilimento Tipografico Fontana. 1891

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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