Antonio Priuli. Doge XCIV. — Anni 1618-1623.

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1681
Sala dello Scrutinio. Domenico Robusti detto Domenico Tintoretto. Ritratto di Antonio Priuli

Antonio Priuli. Doge XCIV. — Anni 1618-1623. (a)

Al doge defunto fu dato a successore, il 17 maggio 1618, Antonio Priuli, tanto desiderato dal popolo, il quale manifestava la propria allegrezza per modo, che da lungo tempo non avevasi più veduto l’eguale nella esaltazione di un principe. Di ciò ne era motivo la grande fama in cui era salito il Priuli, di uomo generoso e integerrimo, sapendosi che quantunque avesse egli sostenute molte fra le prime cariche della Repubblica, tra cui quella di generale in Terraferma, lungi dall’arricchire, aveva incontrato un debito di ottantamila ducati. Allorché venne eletto, si trovava tuttavia a Segna, sicché, richiamato con la fausta notizia, fu ricevuto trionfalmente a Chioggia, e il di 28 del mese stesso più trionfalmente in Venezia. La sua generosità si manifestò allora spiccatamente, poiché gettò al popolo tre mila ducati.

Per la congiura accennata del Bedmar correvano i tempi troppo difficili, perché si sperasse tranquillità nell’interno. Di già la Repubblica, come dicemmo, aveva in mano le fila della trama, svelata in gran parte da Baldassare Juven di Grenoble, che ne era venuto a cognizione da un cotal Moncassin, volente guadagnarlo al suo partito, e che, in quella vece, vinto dal Juven, manifestava al doge ogni cosa. E già per la conoscenza avuta di alcuni cospiratori, e per le sollecitudini del Consiglio dei X, gli agenti principali, che erano, fra gli altri, Giovanni e Carlo fratelli Boulenux, e un Renault, venivano strangolati in carcere, ed attaccati per un piede alle forche fra le due colonne di S. Marco; e Jacopo Pierre, Langlad ed il suo segretario Rossetti, che si trovavano sulla veneta flotta, erano stati, per ordine dei X, spacciati dal generale Pietro Barbarigo; nel mentre che alcuni altri congiurati erano sostenuti, in attesa della loro finale sentenza: essendo però fuggiti per la maggior parte i rei al primo sentore che si era scoperta la trama.

Dalle relazioni che se ne ebbero, e dai processi istituiti, risultò, che lo scopo di tale nequizia era quello di por fuoco all’arsenale, alla zecca, al Palazzo del doge, di far macello dei nobili, d’impadronirsi della città; e nel mentre queste malvagità si dovevano compiere in Venezia, il duca di Ossuna avrebbe fatto scorrere con una flotta le coste della Dalmazia e dell’Istria, mettere ogni cosa a ferro ed a fuoco; ed intanto il Toledo, governatore di Milano, sarebbe penetrato con un esercito nella Lombardia veneziana, e ne avrebbe occupato le città e le castella : e già in Crema ordivasi un’ altra congiura, per opera di Giovanni Berard, con lo scopo di consegnare quella piazza al Toledo; ma, scoperta anche questa, veniva il traditore giustiziato.

Ad onta che tutti questi fatti risultino con ogni evidenza dai documenti in molta parte pubblicati, vi furono alcuni che negarono l’esistenza di tale congiura, o almeno la tennero dubbia. Ed oltre a tante testimonianze inconcusse, avvi una cronaca anonima si, ma contemporanea, che narra per filo e per segno il tenore di essa congiura; in cui si legge un fatto, del quale però non vi ha memoria nei registri segreti della cancelleria ducale, ed é questo: Si portarono dagli inquisitori di Stato due, appellati uno Brumbilla francese, l’altro Teodoro olandese, i quali, divisando meglio il pericolo, e nominando alquante persone involte nella congiura, con tali indizi poté quel magistrato carcerare i sospetti, fra’ quali il francese Renault ed il capitano Lorenzo Brular di Borgogna. Dai quali e da altri, e massime da due cannonieri salariati dalla Repubblica, si venne in chiaro come si fosse lavorato, in casa dell’ambasciatore di Spagna Bedmar, quantità molta di fuochi artificiali e di petardi, e come vi fosse adunata in quella casa copia grande di archibugi, di lance, di altre armi e di polvere, affine appunto di mandare ad effetto immaginata congiura.

Per la qual cosa, deliberarono i Dieci d’ inviare alla residenza dello ambasciatore l’avvogadore Nicolò Valiero ed altri del consiglio dei Dieci, con ordine di entrare improvvisi e farvi una visita. Il che eseguito, fu ivi trovato in un magazzino molte armi e polvere da guerra, e settanta petardi di varia grandezza; ed in una stanza superiore infinite altre armi d’ogni maniera. Scoperta per tal guisa la trama, furono tratti a morte parecchi complici; e con alta politica operò la Repubblica che rimosso venisse dal posto l’iniquo ambasciatore Bedmar, riuscendo per cotal modo a salvare la patria da quel periglio. Vennero del pari allontanati, alcun tempo dopo, il Toledo governatore di Milano, che finì oscuramente la vita; e più tardi ancora, anche l’Ossuna, il quale per le sue insigni ribalderie praticate a danno del popolo napoletano, richiamato ed a forza costretto di ritornar nelle Spagne, fu sostenuto e processato, morendo nel castello di Almeda, il 25 settembre d’apoplessia, o, come altri di cono, da veleno.

Sventata la congiura, non era cessato in tutto il pericolo della Repubblica; e di ciò ne pervenivano in Venezia avvisi da più parti: poiché l’Ossuna, ancora in seggio, continuava i suoi maneggi copertamente. E nel tempo medesimo che la Spagna manteneva coteste agitazioni nell’interno della Repubblica, si adoperava ad occuparla anche al di fuori, tentando staccare dalla sua alleanza i Grigioni, e impadronirsi della Valtellina, la quale, per la sua posizione, interessava ad Austria, a Spagna, a Francia ed a Venezia, perché veicolo d’Italia, e massime alla casa Austriaco-Spagnuola, che per la occupazione di essa avrebbe unito i propri Stati di Germania e d’Italia.

Rivoluzionatisi i Valtellini, per oggetto di religione, il 19 luglio 1620, e dai cattolici fatto macello dei protestanti, il Feria, nuovo governatore di Milano, gioì, e diede mano agli insorti per modo che arse ivi la guerra, onde se ne spaventarono grandemente i Veneziani, prevedendo le conseguenze funeste. Né queste tardarono a succedere, ché i protestanti Grigioni corsero al riacquisto delle terre perdute, combattendo però con alterna vicenda: e d’ altra parte i Valtellini a sostenersi invocarono aiuto dai cantoni cattolici di Svizzera, dal papa, da Savoja, da Venezia e da Milano. Ed a ciò appunto Spagna mirava; ché a Madrid si decretava essere i Valtellini sotto la regia protezione, per cui il Feria non tardò a mandare sussidio di Spagnuoli, a Morbengo e a Tirano. Cosicché tutta Svizzera era in discordia, e posta a ruba e a sangue. Il che vedendo la Repubblica si pose a sostenere apertamente i Grigioni, contro Spagna, raccomandando la loro causa alla Francia, alla Savoia, all’Inghilterra, all’Olanda.

Infrattanto i rivoltosi, assistiti dagli Spagnuoli, occupavano Bormio, passo importante a rendere le comunicazioni più facili agli Austro-Spagnuoli; e già si armava l’arciduca Leopoldo nel Tirolo per dare nuova assistenza ai rivoltosi medesimi. Quindi la Repubblica spediva a Parigi Girolamo Priuli, affine di confermare il re nel proposito di dar soccorso ai Grigioni, e non permettere che il dominio spagnuolo in quelle terre si distendesse. Nelle medesime istanze concorreva anche Carlo Emmanuele, duca di Savoia; e lo stesso Paolo V, desideroso della quiete d’Italia, si adoperava onde le cose fossero restituite nello stato primiero.

Moriva intanto, il 28 gennaio 1621, Paolo V, ed il suo successore Gregorio XV, volgeva tosto il pensiero agli affari della Valtellina, e proseguendo con più impegno l’opera iniziata dal predecessore, esortava vivamente il re di Spagna alle quiete; e la Francia faceva intendere al re stesso, che non lascerebbe in guisa veruna soccombere i Grigioni, e che per ciò, ad evitare la guerra, si ritraesse da ogni disegno sulla Valtellina.

Sennonché, mentre così si maneggiava la cosa a Madrid, il Feria, a Milano, operava ben diversamente, ottenendo che i Grigioni e quelli della Valtellina, accordatisi secondo i suoi disegni, entrassero seco lui in lega duratura per dodici anni. Il quale trattato spiacendo poscia ai Valtellini, tornarono ivi a turbarsi le cose; ed infrattanto, morto Filippo III, re di Spagna, e succedutogli Filippo IV, la Repubblica, insistendo anche lui a favore dei Grigioni, si venne finalmente, il 25 aprile 1621, alla conclusione del trattato di Madrid, per il quale le cose avrebbero dovuto essere restituite allo stato primiero, cioè del 1617, e la Repubblica ne sollecitava in Francia l’esecuzione. Ma, ad onta di ciò tutto, il Feria non ritirava le truppe, e suscitava anzi per modo gli animi dei Grigioni, che parte di essi, vedendo non adempiuto il trattato di Madrid, inconsideratamente armatisi, tentarono penetrare per forza nella Valtellina; il che diede motivo al Feria e all’arciduca Leopoldo di rinnovare le ostilità; e il primo impadronivasi già di Chiavenna. Allora Venezia e Savoia si volsero più che mai a stringere il re di Francia a mantenere le sue promesse e ad appoggiare con le armi il trattato conchiuso a Madrid; ma, tornando nulli i vigorosi consigli, s’indirizzava la Repubblica a lutti i principi di Europa, esclamando contro le usurpazioni di Spagna, e, le parole accompagnando coi fatti, assoldava il famoso generale Mansfeld, col suo corpo di truppe, conferendogli il titolo di generale di tutte le genti oltramontane da lui condotte, ed altreché si potessero levare; e alle incessanti sue fatiche riusciva alfine di ridurre a termine una lega con Francia e Savoia, segnata il 7 febbraio 1623, impegnandosi il re di Francia di fornire un esercito di quindici a diciotto mila uomini, mentre la Repubblica ne darebbe da dieci a dodici mila, e Carlo Emmanuele ottomila, con duemila cavalli ciascuno, facendo operare dal Mansfeld una diversione per tenere altrove occupati gli Austriaci. Gli Spagnoli allora spaventati vennero alla proposizione, che la Valtellina fosse depositata al pontefice, fino a che fossero assestate le differenze; e la Francia, che di mal animo si metteva in guerra, vi acconsentì, e fece pure gli altri acconsentire.

Così stavano le cose, quando il 13 agosto 1623 venne a morte doge Antonio Priuli, e fu sepolto nella chiesa di San Lorenzo, senza iscrizione.

Durante il suo reggimento accadde il fatto pietoso di Antonio Foscarini, il quale, se da un lato dimostra quanto facile sia all’umano giudizio di errare, altrettanto é valevole a porre in luce la giustizia e la magnanimità della Repubblica, che, tratta in inganno da inique delazioni e da fallaci apparenze, non ebbe riguardo dichiarare palesemente il suo torto, e cercare, per quanto era in lei, di riparare al mal fatto senza sua colpa. Il quale esempio non sappiamo se le storie di altri governi additare lo possano, giacché ci é noto, che nei misteri della politica sta pur quello di celare gli errori commessi, affinché non risulti palese la ignoranza di chi ne fu per avventura l’autore, e il danno non si manifesti prodotto dagli errori medesimi.

Antonio Foscarini, figlio di Nicolò, la cui sapienza e la pietà verso la patria l’avevano chiamato alle cariche più cospicue, fra cui alle ambascerie difficili e gelosissime presso le corti di Francia e d’Inghilterra, ove si recava insignito del grado di cavaliere del Cristianissimo, e ove rimase sei anni, ma di colà in pari tempo ebbero origine le sue sventure, cagionate dal suo segretario Giulio Muscorno. Il quale, per le sue ribalderie, venuto in uggia del suo principale, dopo di averlo colà diffamato, venne a Venezia e lo calunniò presso gli inquisitori, affermando, aver egli ad altrui data copia dei dispacci che inviava al governo, e tenere in Inghilterra condotta indegna del suo posto, tutto dato a lascivie e sprezzatore della religione. Per ciò adunque veniva il Foscarini, il 25 luglio 16I5, richiamato in patria, e sostenuto; ma dal lungo processo istituito risultò la sua innocenza, e la colpabilità del Muscorno, per cui finalmente, il 30 luglio 1618, si liberava il Foscarini, e veniva il suo calunniatore dannato a due anni di reclusione nella fortezza di Palma. Non valeva tuttavia questa pena a correggerlo, ché sottomano macchinava alla rovina del Foscarini; il quale intanto, pienamente restituito nella fiducia del governo, veniva eletto savio di Terraferma, e senatore, e sosteneva altri incarichi gelosissimi.

La circostanza però della svelatasi congiura del Bedmar, il timore in cui vivevasi continuo di nuovi tradimenti, e le scoperte che diuturnamente si facevano di propalatori dei secreti dello Stato, rendevano il governo pur troppo accessibile alle delazioni; e di ciò profittando, vi furono malvagi che per guadagno di ricompense, esercitarono la denunzia per mestiere. Principale tra questi era un Girolamo Vano, che prendendo motivo dalle visite che il Foscarini faceva alla contessa Anna d’Arundel, moglie di Tommaso Arundel of Wardour, maresciallo, ed uno dei più eminenti personaggi d’ Inghilterra; la quale, venuta a Venezia per assistere, diceva, alla educazione dei due suoi figlioletti, teneva casa sì in questa città come a Padova, ove intervenivano gli ambasciatori di Spagna, di Firenze ed altre persone addette a diverse ambascerie; veniva il Vano accusando il Foscarini d’informare quei ministri esteri dei segreti di Stato. Ciò volse perché la sera dell’ 8 aprile 1622 il Foscarini stesso, all’uscir del senato, fosse arrestato e tradotto in carcere d’ordine del Consiglio dei X; imputato d’essersi segretamente e frequentemente ritrovato con ministri di principi di giorno e di notte nelle loro case ed altrove, in Venezia e fuori, travestito o nel suo proprio abito, aver loro a voce o con polizza palesato li più intimi segreti della Repubblica, e ricevuto danari da essi. Il suo processo fu affidato agli Inquisitori. Sorpresa e sbigottimento cagionò questo fatto alla città tutta quanta, e ognuno ne discorreva variamente, come avviene sempre in tali occasioni ; ma la voce più generale era appunto quella, che il Foscarini fosse andato sull’alta notte, solo e travestito in casa dell’Arundel, donna di spirito, ove avesse pratiche col segretario dell’ ambasciatore cesareo, il quale doveva poi partecipare alla Spagna, e che quindi ritraesse perciò seimila scudi di annua provvigione.

Redatto il processo, parve la sua reità evidente, sicché il 20 del medesimo aprile, con dieci voti contro cinque, fu condannato, quale reo e traditore di Stato, ad essere strangolato quella stessa notte in prigione, e poscia appeso la mattina seguente fra le due colonne della piazzetta, con un piede insù, così rimanendo fino alla sera. Intimata la notte stessa al Foscarini la sentenza, domandava ed otteneva di poter fare testamento, dettandolo con animo imperturbato, e qual uomo a cui non rimordeva la coscienza, protestando sé essere innocente. Eseguita tosto la giustizia, ed appeso il suo corpo alle forche, stupore e duolo invasero la città tutta al caso funesto; e più il dolore s’accrebbe allorquando serpeggiò da prima fra il volgo, poscia fra i grandi la voce, che Antonio fosse innocente. Moltiplicandosi di fatto le accuse di fellonia anche contro altri senatori, si sospettò finalmente della falsità delle testimonianze. Catturati e delatori e testimoni, tra quali il Vano con due suoi compagni, questi contraddicendosi fra loro nelle interrogazioni, si aveva certa e dolorosa prova dell’atroce calunnia, la quale si avrebbe potuto scoprire assai prima, e senza effusione di sangue innocente, se meno solleciti i giudici avessero sentenziato. Strangolato il Vano insieme col suo compagno Domenico da Venezia, i Dieci, avvedendosi del gravissimo errore commesso, non vollero tenerlo sepolto nell’impenetrabile loro seno, ma, mirando soltanto alla fama straziata di un onesto cittadino, albi ignominia della sua discendenza e alla inviolabilità della giustizia, spontaneamente, ed entro e fuori della città, e in tutte le forme, divulgarono essere Antonio Foscarini innocente del delitto imputatogli, emanando corrispondente decreto in data 16 gennaio 1623, ed ordinando che fosse levato il suo corpo dal cimitero dei SS. Giovanni e Paolo, e portato con solenne pompa per le piazze in vista di tutta la città fino alla chiesa dei Frari, ove, dopo magnifici funerali, fu deposto nell’arca dei suoi maggiori.

Al tempo pure del doge Priuli, cioé nel s’instituì, secondo la più ricevuta opinione, la Magistratura sopra il Banco Giro. Un senatore col titolo di Depositario del Banco Giro, assisteva quotidianamente al detto banco, e doveva, prima di partire, far fare l’incontro del libro giornale, e sottoscriverlo. Nel 1627 si creò stabilmente li Tre Inquisitori e Revisori sopra le scuole grandi; magistrato che provvisoriamente era stato ordinato nel 1022. Aggiungiamo ancora, che nel 1618 si rifabbricò la chiesa dell’Angelo Raffaello; nel 1621 si compì la cattedrale di Castello per cura del patriarca Giovanni Tiepolo, e si diede mano a costruire la fabbrica delle nuove stanze e la sala dei Banchetti nel Palazzo Ducale.

Il ritratto del Priuli, che è dipinto da Domenico Tintoretto, reca sul campo la seguente inscrizione, diversa allo intutto da quella riportata dal Palazzi, che suona: Rexi pacifìcus; magnificus excepi Leonoram Imperatricem; Vallis Tellinae tumultus sedavi, eumque Petri elavibus subiectam reddidi.

FRINCIPATVM IAMDIV MERITVM ABSENS OBT1NVIT ET VIRTVTIS GESS1T P. P. F. OB1IT (1).

(a) Antonio Priuli nacque da Girolamo nel 1548, e di soli diciotto anni si imbarcò come nobile sulla flotta, sicché nel 1574, intervenne nella famosa battaglia alle Curzolari, in qualità di governatore di galea. Ripatriato, sostenne parecchie magistrature, notando il Cappellari essere egli stato provveditore di Peschiera, alle pompe, sopra banchi, alla sanità, savio, senatore di pregadi, alle biade, sopra atti, censure del consiglio dei X, savio grande, e nel 1599 capitano di Padova. Quindi, nel 1601, fu spedito ambasciatore in Francia ad Enrico IV, da cui fu creato cavaliere, e l’anno appresso ed in seguito, tornato in patria, coperse le cariche di riformatore dello studio di Padova e di consigliere del doge, finché il 3 luglio 1603 ottenne la stola procuratoria di S. Marco de citra, in luogo del defunto Giovanni Soranzo. Nel 1606 fu uno dei tre senatori eletti sopra il governo e quiete della città, e l’anno dopo fu di nuovo riformatore dello studio di Padova; carica che coperse anche negli anni 1612, 1615 e 1617. Nel 1607, essendo appunto in questo ultimo uffizio, venne spedito provveditore in Friuli, per sopire alcune turbolenze ivi insorte, e quindi mandato a Paolo V siccome ambasciatore. Nel 1613, fu eletto generale delle armi in Friuli, e provveditore generale in Terraferma, in occasione della guerra con l’arciduca Ferdinando, alla qual carica fu riassunto nel 1615; ma l’anno appresso, colto da febbre, fu dispensato. Però nel 1618, era uno dei commissari i che in Segna stabilirono la pace con l’arciduca Ferdinando prefato, ove essendo, veniva assunto al ducato, come dicemmo. Fece egli costruire la sua tomba, semplicissima e senza inscrizione, nella chiesa di S. Lorenzo, dinanzi l’altare maggiore, testando che fossero ivi pur tumulati i suoi figli Matteo e Agostino, quello creato cardinale da Paolo V nel 1616, e questo vescovo di Bergamo, non che suo nipote Pietro Priuli, figlio di Federico, ambasciatore in Spagna, morto nel 1613 (Cicogna, Inscr. Venez., Vol. II, pag. 380).

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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