Andrea Dandolo. Doge LIV. Anni 1342-1354

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Andrea Dandolo. Doge LIV. Anni 1342-1354

Rimasero lungamente incerti gli elettori intorno alla persona da sostituirsi al morto doge Gradenigo: e quantunque tutti convenissero, che in quanto ai meriti ed alle qualità personali, il migliore d’ogni altro fosse Andrea Dandolo, pure la giovane sua età, d’anni trentasei, metteva gli animi loro in bilico. Ma tanta era la opinione concepitasi di lui, che finalmente venne, per replicati scrutini, sempre usciti con maggioranza di suffragi, innalzato, il di 4 gennaio 1343, alla suprema dignità della patria.

La prima cosa che operò il Dandolo fu di aiutare la crociata promossa da papa Clemente VI contro gli Ottomani. I Veneti, armata una poderosa flotta, si unirono agli alleati, che erano il Papa, il re di Cipro e i cavalieri di Rodi: Pietro Zeno per i Veneziani e Martino Zaccaria genovese per il Papa, comandarono la flotta. La quale tostamente liberò Negroponte assediato dai Turchi, e quindi con stupendo valore s’impadronì della città di Smirne, antico emporio dei crociati, poscia tolto loro dai Musulmani. Ma questa città non stette lungo tempo sotto il nuovo dominio; perciocché i Musulmani, ritornati più numerosi, assalirono gli alleati; e questi, quando già erano per la seconda volta vincitori, sparpagliatisi per amore del sacco, furono per la maggior parte trucidati. Lo Zeno, lo Zaccaria e il legato apostolico, il quale ultimo nella memoranda e funesta giornata impugnò la spada di San Giorgio, valorosamente, anzi eroicamente tutti pugnando, caddero, come i soldati di Leonida, scannati, ma non vinti. Narra però il Sanudo, che Pietro Zeno non pugnò in quell’incontro, ma che rimase ucciso nell’atto che assisteva ai divini misteri celebrati da Enrico patriarca di Costantinopoli. Comunque ciò fosse, il Senato volle, in età più tarda, che la morte dello Zeno, come è raccontata dal Sanudo, venisse espressa a chiaro-scuro nel soppalco della sala del Consiglio Maggiore, per mano di Pietro Longo. La perdita di Smirne intiepidì gli animi, e quindi pose termine, l’anno 1345, alla crociata, la quale finì come tutte le altre. Conchiusa la pace, doge Dandolo, attentissimo al bene della nazione, volle da ciò ricavare ogni possibile utilità: conchiuse un trattato col soldano d’Egitto, per il quale i Veneziani piantarono allora fondachi in tutte quelle piazze, e incominciarono quel commercio che li rese col progresso di tempo sì potenti.

Intanto Zara ribellò, e Lodovico re d’Ungheria, per odio contro i Veneziani, venne in suo aiuto. Furono spediti tosto ad oppugnarla Pietro Canale con la flotta, e Marino Faliero come sopraintendente alle milizie terrestri. Memorabile fu la battaglia accaduta il dì 2 luglio 1346, quando questi, già in procinto d’essere vinti, furono soccorsi dalla ciurma che stava osservando la pugna, e così ottennero la vittoria e la città. Questa fu, contro i suoi meriti, ma con somma prudenza e utilità, moderatamente trattata.

Ma nuove complicazioni accadevano intanto nel Levante per la gelosia dei commerci fra la Repubblica e Genova. La quale ultima già aveva dato alla prima motivo di disgusti, ed inflitti aveva parecchi danni; e ad evitarne dei nuovi e peggiori venivano, nel 1342, ad un trattato. Sennonché anche questo non avendo bastato a finire ogni gelosia e rancore, accaduta una rissa a Cipro tra Genovesi e Veneziani, ed avendo risposto il governo di Genova con alterigia alle rimostranze che fece la Repubblica, s’incominciarono nuovamente le discordie, accagionate eziandio per alcune piraterie commesse dagli stessi Genovesi a danno dei Veneziani, e per lo fatto di Scio, riacquistato da quelli in gara con questi; sicché tutto faceva prevedere ormai vicina la guerra tra le due Repubbliche.

A sospender le ire tristi avvenimenti seguirono, l’anno appresso, a funestare Venezia e tutta l’Italia. Il primo fu lo spaventoso terremoto accaduto il dì 25 gennaio 1347, durato più giorni, per lo quale caddero campanili e case, si seccarono canali per l’elevamento momentaneo del suolo, ed altri gravi mali intervennero, da volersene perpetuata la memoria in una lapide, tuttavia superstite sulla interna porta della confraternita della Carità, ora Accademia di Belle Arti. Il secondo, fu quella terribile peste, che nel 1348 desolò tutta Italia, e che con tanta compassione eloquente descrisse il Boccaccio. Ad onta dei pronti e saggi provvedimenti presi dalla Repubblica, perirono da tre quinti della popolazione in Venezia, fra cui si estinsero cinquanta famiglie nobili, che componevano novecentocinquantanove individui, come registra la cronaca dello Svajer, citata dal Gallicciolli. Cessata la lue, a ripopolare la città, s’invitarono i forestieri concedendo loro privilegi larghissimi.

La fedifraga Capodistria, approfittando della sciagura, si ribellò, cacciando il podestà Marco Giustiniani ed incendiando il palazzo di sua abitazione; ciò accadde il dì 17 settembre 4348. Ma la Repubblica spediva subitamente a reprimerla con la flotta Marco Soranzo, e con le milizie terrestri Panerazio Giustiniani, onde furono astretti quegli abitanti a sommettersi il dì 40 ottobre seguente.

Queste sventure furono lievemente consolate, prima della pace fermata, per otto anni, il dì 5 agosto 1348, col re d’Ungheria, verso il quale era cessato ogni rapporto amichevole, e ciò da quando egli, nel 1346, soccorse i Zaratini ribelli: poi dal trionfo ottenuto sopra il conte di Gorizia, il quale, rotta guerra, fu vinto e mandato a Venezia, ove ottenne la pace, a condizione di demolire alcune sue castella.

Ma altra gravissima sventura sorgeva poco appresso, la guerra cioè con Genova, le gelosie della quale erano radicate. Né le pratiche di accomodamento avviate tornando a bene, ed in quella vece accadendo nuovi argomenti di sdegno, nuove piccole rappresaglie, si venne da ultimo ad aperta rottura. Marco Ruzzini veniva quindi spedito, con trentacinque galee, nei mari di Grecia; e nelle acque di Negroponte predava la maggior parte delle navi genovesi cariche di ricche merci, guidate da Nicolò De Magnere; e poco poi Filippo Doria, con la flotta di Genova, sbarcava in Negroponte stessa, ponendola a fuoco, saccheggiandola e adducendo seco cattivi i molti navigli colà trovati.

D’allora in poi, arse più furiosa la lotta, e, per sostenerla robustamente, la Repubblica contrasse alleanza con Pietro re d’Aragona e con Giovanni Cantacuzeno, imperatore d’Oriente; e spediva Nicolò Pisani con valida flotta in Levante. Direttosi egli a Pera, principale colonia dei Genovesi, ne devastava i contorni, catturava le navi nemiche che tornavano dalla Meotide, accorrendo poscia alla difesa di Negroponte, minacciata dalla flotta avversaria, retta da Paganino Doria. Ciò nell’anno 1351. Nel seguente, accaddero varie mosse senza alcun risultato, fino a che nelle acque del Bosforo si scontrarono le armate rivali, e successe terribile battaglia, in cui non è a dire le stragi ed i danni patiti da ambedue le parti: dappoiché, quantunque ottenessero vittoria i Genovesi, ed avessero fatti prigioni gli stessi comandanti Pancrazio Giustiniano, e l’aragonese lnico Della Priente, pure non osarono inseguire il resto della veneta flotta che si ritirava sgominata.

Frattanto il Pisani scorreva i mari predando i legni nemici, ed il Senato spediva nuovi rinforzi alla flotta, la quale, unita alla catalana, comandata da Bernardo di Cabrerà, si svolgeva nelle acque di Sardegna ad incontrare la flotta di Genova retta da Antonio Grimaldi. Colà quindi avveniva, il dì 29 agosto 1353, una seconda e non meno fiera battaglia, detta della Lojera, da cui usciva vittorioso il Pisani.

Disperata Genova allora, e sempre più divenuta astiosa contro la rivale, a vendicarsi dell’onta e del danno patito, si diede a Giovanni Visconti, vescovo e signor di Milano, il quale da lungo tempo anelava al dominio di quella città. Per cui per rimbalzo, Venezia si stringeva in lega con Cane Della Scala, coi marchesi di Ferrara e di Mantova, coi signori di Padova e di Faenza, e col re di Boemia e dei Romani, poi imperatore Carlo IV.

Il Visconti però, visto il nembo addensarsi, mostrava di voler evitare la guerra: per la qual cosa spediva ambasciatore a Venezia l’immortale Francesco Petrarca, allora alla sua corte; ma invano: ed invano tornarono le lettere che il Petrarca stesso inviava al doge per conseguire la pace; dappoiché la Repubblica aveva per fermo volesse il Visconti con tali pratiche addormirla, per prepararsi frattanto con più agio alla guerra.

È di vero, non cosi tosto poterono i Genovesi raccozzare di nuovo la flotta, questa arditamente spinsero fino nel Golfo, incendiando e saccheggiando Lesina e Curzola nella Dalmazia, ritirandosi poscia. Mandava tostamente il Senato Marco Michiel con cinque galee a difesa del Golfo, e in pari tempo Nicolò Pisani, con altre quattordici ad inseguirli; e non avendoli potuti raggiungere, si recò nelle acque di Sardegna, ove erano le navi di Genova comandate da Pagano Doria. Ma questo evitò destramente lo scontro, e in quella vece volava a Parenzo, devastandola.

A prevenire un colpo di mano del ligure ardito, la Repubblica eleggeva a tutela della capitale, col titolo di capitano, Paolo Loredan; ordinava che si munisse il porto del Lido con forte catena di ferro; disponeva milizie, e gettava un nuovo prestito per sopperire alle spese.

In mezzo a tanti travagli venne a morte il doge Andrea Dandolo, il dì 7 settembre 1351, e veniva sepolto entro nobilissima urna nella cappella del battistero di San Marco.

Al suo tempo furono instituiti nuovi magistrati. Per decreto del Maggior Consiglio 7 settembre 1343, si creò quello degli Auditori delle sentenze, con che si veniva a separare le cose civili dall’Avvogaria, a cui spettava, oltre le criminali, ingerirsi nell’appellazione dei giudizi civili di prima istanza interni ed esterni. Allorquando poi, nel 1410, per l’allargato dominio, si crearono altri tre Auditori, i primi furono detti Auditori vecchi, nuovi i secondi. Nel 1349 venne pure creato un Collegio sopra le Biade, colla facoltà di provvedere granaglie e disporle. E finalmente, nel 1354, fu instituito provvisoriamente il magistrato detto delle Rason Vecchie, la cui ispezione era la economia e la disciplina del pubblico erario; magistrato che fu poi reso stabile nel 1375.

Fece ancora doge Dandolo eseguire una nuova raccolta di leggi, richiesta dalle mutate condizioni, e che trovasi aggiunta ai cinque libri dello Statuto di Jacopo Tiepolo, col nome di Sesto libro.

Né la peste, né la guerra, né le tante altre disavventure poterono scemare la pietà e la magnificenza dei Veneziani; imperocché si videro, durante il ducato del Dandolo, erigersi nuove chiese o rifabbricarsi, instituirsi pii sodalizi, e dar mano ad opere singolari. Nel 1344, si eresse la fabbrica della scuola grande della Carità. Fra Pietro d’ Assisi, nel 1346, fondava, presso il cenobio di San Francesco della Vigna, il pio luogo della Pietà, trasportato poi, nel 1475, nel sito attuale. Si poneva, nell’anno stesso 1346, la prima pietra della chiesa di Sant’Antonio di Castello. Si rifabbricava, l’anno appresso, l’altra chiesa di San Basilio, per opera della nobile famiglia Basegio. Marco Michieli disponeva in morte che venissero fondati una chiesa ed un monastero a Murano; effettuatosi poscia nel 1363, elevandosi la chiesa ed il cenobio di San Pietro Martire. La basilica di San Marco, da ultimo, venne aumentata della nuova cappella di Sant’Isidoro, eretta ed arricchita di mosaici dal doge Dandolo; riceveva nobile decorazione nella facciata principale; e, nel 1345, si ampliava e si riduceva nella forma attuale la palla d’oro in San Marco medesimo.

II ritratto del Dandolo impugna nella sinistra mano un breve, su cui é scritto:

ALTA TRIVM PROBITAS MIHI QVARTO SVGGERIT INSTAR,
QVI DE DANDVLEA PROLE FVERE DVCES. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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