Chiesa e Monastero di Santa Maria Vergine Assunta in Cielo vulgo della Celestia. Monastero di Monache Cistercensi. Chiesa demolita, Monastero secolarizzato
Storia della chiesa e del monastero
Fioriva in Piacenza con lode di santità il monastero di suore, che nell’austera osservanza dell’ordine Cisterciense fondato aveva la vergine Santa Franca, allorché nell’anno 1236. venuto da Venezia a presiedere come podestà in quell’illustre città, allora libera, il celebre senatore Reniero Zeno, che poi fu doge, ebbe occasione di conoscere, e di ammirare le esemplari virtù di quelle pie religiose. Credette adunque di dare non solo un ornamento, ma un sussidio pure alla sua patria, se ve ne introducesse l’istituto, perciò a tutto suo potere procurò ed ottenne, che si fondasse in Venezia un monastero cli uguale osservanza. Ottenute dunque dai Cisterciensi, dai quali diretto era il monastero, le opportune facoltà con la benedizione della loro abbadessa Carenzia Visconti, partirono verso Venezia dodici monache scelte fra le più capaci e virtuose, accompagnate da molti nobili sì veneziani, che Piacentini, e da due monaci Cisterciensi del Monastero di Piacenza, detto della Colomba, i quali secondo l’uso di quei tempi destinati erano alla direzione, ed assistenza del nuovo monastero. Accolte furono in Venezia le vergini fondatrici con quella venerazione, che era dovuta alla loro virtù, e fu con ammirabile sollecitudine eretto loro un sufficiente monastero, che nello stesso anno di sua fondazione 1237, venne da Gregorio Papa IX, accolto fotto la protezione della sede apostolica, e chiamato Santa Maria de Celestibus, ciò che dimostra essere favola ciò, che da alcuni si scrive, essere staro questo monastero denominato della Celestia dalla sua prima abbadessa, che con tal nome si chiamava.
Rinnovò poi, ed ampliò il sopraccitato apostolico privilegio Innocenzio IV, nell’anno 1247, concedendo libera ed indipendente alle monache l’elezione della loro abbadessa; ed il di lui successore Alessandro IV, esentò prima nell’anno 1255 il monastero da qualunque ecclesiastico aggravio, poi nell’anno seguente 1256, confermò la sentenza di Gualtiero vescovo Castellano, sottoscritta dal patriarca di Grado Angelo Barocci, con la quale si stabilì, che per cento e cinquanta passi all’intorno del Monastero della Celestia erigere di nuovo non si potesse chiesa alcuna, né veruno luogo sacro.
Seguirono gli esempi delle pontificie munificenze Ulrico piissimo arcivescovo di Salisburgo, e Tommaso vescovo squillacense legato pontificio di Alessandro IV, per restituire l’arcivescovo Ulrico alla sua sede, dalla quale iniquamente era stato cacciato. Poiché giunti insieme a Venezia nell’anno 1261, concessero sacre indulgenze a chiunque dei fedeli piamente porgesse sussidio alla chiesa del monastero, che a quei tempi si alzava dai fondamenti, il che pure fece nell’anno 1287 Ugone vescovo di Betlemme.
Reso dunque illustre questo sacro luogo e per la pietà delle religiose sue abitatrici, e per sì riguardevoli privilegi, acquistò nuovo splendore per la dimora, che in esso lungamente fece il santo abbate del Monastero di San Benedetto Novello di Padova Giordano Forzatè. Perseguitato il sant’uomo dall’inumano furore di Ezzelino da Romano, fuggi prima in Aquileia. Ma perché quivi ancora insidiavano alla di lui vita gli infami sicari del tiranno, ammonito in visione dall’angelo, si ricoverò in Venezia fra sacri recinti del Monastero della Celestia, ove accolto da un venerabile vecchio monaco, visse seco lui santamente circa sette anni, finché chiamato dal Signore volò all’eterna quiete nell’anno 1248. Solennissime furono le esequie fattegli, con le quali fu elevato il suo corpo, che per il pubblico concetto di sua santità fu collocato in luogo cospicuo della chiesa, essendo sin dai primi tempi dopo il suo felice passaggio cominciata la pubblica venerazione dei popoli al suo sepolcro, la quale continua ancora, dopo che alle preghiere delle monache allora abitatrici in San Benedetto Novello fu il sacro corpo trasportato a Padova, e sopra la mensa di un altare collocato a devoto culto dei suoi concittadini.
Frattanto quantunque dai pontifici diplomi di Gregorio IX e di Innocenzio I, fosse stato, come detto abbiamo, ricevuto il monastero sotto la protezione dell’apostolica sede, ed esentato pur anco da qualunque ecclesiastica giurisdizione, pur nonostante le monache memori della loro origine vivevano sotto la direzione dei padri Cisterciensi della Colomba, riconoscendo il di loro abbate come ecclesiastico visitatore, dal quale ottener dovessero avvisi, ed ordini salutari, qualunque volta ricercato da esse si portasse in Venezia per farne la visita. Così andò progredendo per lungo tempo lo spirituale governo del monastero, finché nell’anno 1351, Jacopo abbate della Colomba, benché non ricercato dalle monache, intimò loro, per certo determinato giorno la visita da eseguirsi. Gravosi però riuscendo alle forze del monastero questi atti troppo frequenti di zelo, ricusarono le monache di accettarla, né si acchetò l’abbate alle giuste loro rimostranze in contrario, furono costrette ad appellarsi all’apostolica sede, da cui immediatamente dipendevano. Per cui irritato l’abbate fulminò contro l’abbadessa, e le religiose sue figlie sentenza di scomunica soggettandole all’interdetto ecclesiastico. Da sì ingiusto procedere aggravare le monache avanzarono le loro doglianze in Avignone al pontefice Clemente VI, il quale nell’anno 1352 rimise la controversia alla decisione di Niccolò Morosini, allora vescovo di Castello; ed Urbano V di poi ai prieghi del senato veneto l’anno 1369 moderò la frequenza, e regolò la forma di tali visite, prescrivendo che non più di una volta all’anno si eseguissero alle grate, e vietando l’ingresso nei chiostri, e qualunque sborso di soldo; dovendosi osservar nel resto le prescrizioni dell’istituto Cisterciense. Da tali provide ordinazioni avvampò vie più lo sdegno dell’abbate Jacopo, cosicché levato alle monache il confessore, ricusò di più volerle provvedere di sacerdote, che loro i sacramenti amministrasse. Una così irregolare maniera di procedere arrivata a notizia del pontefice Gregorio X, obbligò l’apostolica sua provvidenza ad ordinare risolutamente nell’anno 1371, all’abbate di San Tommaso di Torcello, detto dei Borgognoni, che se l’abbate della Colomba differisse più in oltre la destinazione di un confessore, dovesse egli assegnare sacerdote alla spirituale assistenza del monastero, al che eseguire fu eccitato l’abbate Torcellano nell’anno 1374 da pressanti lettere di Andrea Contarini doge, e principale protettore del monastero. Terminata si era frattanto la sontuosa chiesa, a di cui maggior decoro volle la Gran Madre di Dio, a cui era dedicata, che vi si trasportasse dall’Oriente nell’anno 1372 una sua devota immagine, resa celebre non solo per i prodigi occorsi nella sua traslazione, ma altresì per i continuati miracoli a favore dei suoi devoti: come lo attestò in una sua bolla Niccolò cardinale Carraccioli, concedendo spirituali remissioni di pene a quei fedeli, che nei stabiliti giorni visitassero la chiesa
di Santa Maria dei Celesti, ove la di lei immagine risplendeva per molti miracoli. La storia di questo mirabile trasporto si legge esposta a lato dell’altare, su cui si venera il prodigioso simolacro, ed eccone il fedele trasunto.
Vivevano nel monastero di Santa Maria della Celestia due monache di casa Contarini, le quali professando particolar affettuosa riverenza alla Vergine Santissima Madre di Dio instarono con efficaci preghiere appresso due lor fratelli, che dai paesi dell’Oriente, per i quali navigavano, trasportassero loro qualche devota immagine di Nostra Signora.
Volle Iddio esaudite le brame delle pie religiose. Poiché viaggiando quei due nobili verso Costantinopoli, si abbatterono in alcuni mercatanti pisani, che dalla stessa città ritornavano, e nel discorrere di varie cose intesero da uno di loro, che avendo ritrovato in un determinato monte una statua di marmo rappresentante la Vergine Madre con il divino suo figliuolo, ed avendola voluta staccare dal luogo si affaticarono inutilmente, lasciandosi prima spezzar a traverso (come tutt’ora si vede) che spiccarsi da quel macigno. Si rallegrarono a tal notizia i due cavalieri, ed ansiosi d’accertarsi del fatto, si condussero al disegnato luogo, ove non solo riconobbero la devota immagine, ma si videro provisti di opportuna occasione per il trasporto: non indi lungi avendo ritrovato un carro tirato da buoi, e guidato da due bellissimi giovani, che tratto con facilità dalla rupe il simolacro lo condussero al mare; indi caricatolo sulla nave disparvero. Arricchiti di tesoro così prezioso i due nobili, mentre con propizio vento navigavano, si determinarono di offrire la mirabile immagine alla chiesa dei Santi Apostoli loro parrocchia. Ma un’improvvisa procella replicatamente seguita fece loro per ben tre volte cangiar pensiero, stabilendo finalmente, ed obbligandosi con voro di offrirla a quella chiesa, che fosse di divino volere. Allo stesso proferir del voto susseguitò la bonaccia; onde credettero di ricercar il divino beneplacito collocando la sacra immagine in un battello senza guida, né remiganti, perché la divina disposizione lo dirigesse. Condotta dunque da superiore direzione la barchetta venne a diritto cammino ad approdar alle rive del monastero, dove dalle monache accorse alla novità del miracolo fu accolta con venerazione eguale alla loro allegrezza. Il giorno seguente, che fu il 2 agosto dell’anno 1341, fu dal vescovo castellano Niccolò Morosini con l’accompagnamento solenne del clero, e con l’intervento del doge Andrea Contarini, e del senato trasferita, e collocata sopra un altare della chiesa alla pubblica venerazione di un gran popolo giubilante. Accadde in tal occasione, che uno dei muratori miscredente, mentre alza la mano per accomodar al luogo destinato il sacro simulacro, si sentì di repente assiderata la mano: onde riconoscendo nel castigo il suo fallo ne chiese pentito il perdono. Gli apparve nella seguente notte la Vergine Santissima e l’assicurò di riconcedergli l’uso della mano, quando precedesse una sincera confessione dei suoi peccati; ma avendola esso eseguita senza debita disposizione, l’avverti la misericordiosa Madre di doverla rinnovare, e dopo si vide con allegrezza ridonato l’uso perduto della mano. Furono poi così copiosi e manifesti i prodigi, coi quali Dio rimunerò la fede, e la divozione dei popoli così di Venezia, come dei circonvicini paesi, che Clemente VI con amplissimi diplomi d’indulgenze ne volle animato il fervore alla dilatazione e continuazione del culto. Si rinnovò questo e si accrebbe nell’occasione, che per il vicino incendio dell’Arsenale l’anno 15ó9 diroccò la chiesa. Poiché la maggiore delle lampade, che ardere soleva avanti l’ammirabile simolacro, fu ritrovata dopo cinque giorni accesa splendere sotto le rovine. Accompagnò Iddio anche la solenne collocazione della sacra immagine nella nuova chiesa fatta li 27 maggio dell’anno 1606 con replicati prodigi, dei quali sono permanenti testimoni le tabelle votive, che tutt’ora appese si vedono all’intorno del sacro altare.
Continuavano frattanto le monache sotto la direzione degli abbatti piacentini, i quali di tratto in tratto, secondo lo stabilito dalle costituzioni apostoliche, o personalmente visitavano, o delegavano altro abbate cisterciense per adempire le visite presiedendo altresì all’elezione dell’abbadesse, qualunque volta le monache ne avanzassero le istanze. Nell’occasione però o di visite, o di elezioni corregger dovevano gli abbati presidenti tutti quei disordini, che introdotti si fossero ad offendere la regolare osservanza; del che incaricati se ne leggono Pietro Abbate della Folina nell’anno 1439 e Girolamo Trevisano abbate di San Tommaso Torcellano nell’anno 1492. Non bastarono però né le ordinarie visite, né le correzioni degli abbati cisterciensi per conservare inviolata fra chiostri di questo monastero la regolar disciplina, in cui furono fondati; ma avendo nei dolorosi tempi dello scisma contratta l’antica religiosa disciplina non leggeri discapiti, vi accorse opportunamente la pontificia previdenza d’ Eugenio IV, destinando visitatori apostolici del Monastero di Santa Maria della Celestia San Lorenzo Giustiniani, allora vescovo di Castello, e Fantino Dandolo protonotario apostolico, i quali nell’anno 1442 estesero saggie e discrete regole alla correzione dei disordini, e alla riforma degli sconcertati costumi. Fu tale il frutto degli ordini salutari, che ritornato poi il monastero sotto la direzione degli abbati cisterciensi, ne trassero essi nell’anno 1457, Chiara da Mula ottima abbadessa, per costituirla madre e riformatrice del Monastero di San Matteo, detto San Maffio, di Mazzorbo, acciocché restituisse le monache rilassate al primiero vigore d’osservanza.
Per poco tempo però dopo l’apostolica riforma stette il monastero soggetto agli abbati cisterciensi; poiché nel principio del secolo XVI, furono dal romano pontefice tradotte le monache sotto il governo dei veneti patriarchi, ed esentate da qualunque visita, o soggezione dei superiori cisterciensi.
Così vivevano in perfetta quiete le religiose, servendo devotamente al Signore, quando l’anno 1569, la notte precedente al giorno 14 di settembre dedicato all’esaltazione di Santa Croce, accesosi improvvisamente fuoco nell’Arsenale, e passata la fiamma al luogo, ove si conservava la polvere per le artiglierie, avvampando questa in un instante scosse con tal impeto il contiguo monastero della Celestia, che in un momento diroccarono tutte le fabbriche, e la chiesa stessa si ridusse ad un mucchio di rovine. Rifuggitesi sino dai principi dello scoperto incendio, provvidamente le monache, alle loro paterne case, passarono d’indi ad abitare nel Monastero di San Jacopo della Giudecca, che loro in provvisionale ricetto concedettero pietosamente i Padri Serviti, e quivi dimorarono per lo spazio di cinque anni, finché riedificata risorgesse la loro antica abitazione. Rialzati poi con più ampia e dilatata struttura i rovinati edifici della Celestia passarono ad abitarli le religiose nell’anno 1574, il giorno 14 di marzo, accompagnate con festosa pompa dal patriarca Giovanni Trevisano, e da numeroso concorso di nobili, che resero più solenne la restituzione delle religiose vergini al primiero lor domicilio.
Restituite le fabbriche d’abitazione ad un più comodo stato, fu altresì dai fondamenti rifabbricata la chiesa sul magnifico modello di Vicenzo Scamozzi, e poi l’anno 1611 nel giorno 16 di aprile da Francesco Vendramin patriarca solennemente consacrata a Dio, sotto il titolo di Maria Vergine assunta al Cielo, e dei Santi Abbati Benedetto e Bernardo.
Si conservano in questa chiesa le seguenti reliquie. Una spina della corona di nostro signore Gesù Cristo, che con pomposo apparato si espone all’adorazione dei fedeli nel martedì della settimana di passione. Un osso della gamba di San Lorenzo levita e martire, ed un osso pure di Santo Stefano protomartire, custoditi nell’altare ad essi santi dedicato. Dieci teste di vergini compagne di Sant’Orsola, e molte ossa dei Santi martiri crocifissi in Armenia sul monte Ararath. Il corpo di San Caloandro martire, e molte insigni reliquie dei santi martiri tratte dalle catacombe romane.(1)
Visita della chiesa (1733)
Incominciando a mano sinistra dal primo altare vi è dipinta Sant’Orsola con le Vergini compagne martirizzate, che è di mano di Domenico Tintoretto. Segue l’altro altare nella di cui tavola vi è Maria col Bambino, e molti angeli nell’alto, ed abbasso i Santi Lorenzo e Stefano di mano di Andrea Vicentino. Come pure è dello stesso autore il Padre Eterno con gli angeli all’altare dell’immagine miracolosa. Le portelle dell’organo fono dipinte dal Cav. Tinelli nel di fuori l’Annunziata cosa limitata, e nel di dentro San Luigi e San Giovanni Evangelista. Nella cappella a mano sinistra dell’altare maggiore, ove è instituita la divozione di Sant’Antonio di Padova, vi è San Domenico con due santi vescovi di Paris Bordone. La tavola dell’altare maggiore con l’Assunta è di Giacomo Palma. La cappella alla sinistra ha la tavola di Antonio Foller con San Michiele un santo vescovo, e Sant’Antonio abbate. La tavola poi dell’altare con Cristo in croce è delle belle del Palma. Segue la tavola dei diecimila martiri opera delle più stimate di Andrea Vicentino. Dopo questa vi è la tavola con i Santi Elena, Benedetto, Bernardo, ed Angeli in aria, che sostengono la croce, opera rara di Maffeo Verona. Sotto al coro vi sono quattro quadri mobili contenenti la storia dell’immagine miracolosa di Nostra Signora, che in questa chiesa si conserva, opere come dice il Boschini d’autore Fiammingo, e lo dà molto quella dove si vede l’arrivo miracoloso della detta immagine al monastero. Sono sparsi sulle colonne della chiesa vari quadretti delle ultime scuole del Palma, ed altri di questa maniera se ne vedono per quasi tutte le chiese di monache, e parlatoi della città con certe cornici particolari su di una stessa maniera.(2)
Eventi più recenti
Nel 1810 la chiesa fu chiusa ed aggregata all’Arsenale. Il convento si diede alle truppe della Marina, ed ultimamente porzione di esso venne assegnata ad uso di quella casa di educazione militare marittima che innanzi stava a San Daniele. Entrano in cotesta casa i figli dei militari a ricevere, a spese dell’erario, un’educazione elementare insieme alle belle lettere, alla matematica ed al disegno.(3)
(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).
(2) ANTONIO MARIA ZANETTI. Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia ossia Rinnovazione delle Ricche Miniere di Marco Boschini (Pietro Bassaglia al segno di Salamandra – Venezia 1733)
(3) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).
FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.