Vitale I Michiel. Doge XXXIII. Anni 1096-1102

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Vitale I Michiel. Doge XXXIII. Anni 1096-1102

L’assemblea generale, che elesse a doge Vitale I Alienicl, sperò giorni migliori sotto il reggimento di un uomo, che aveva dato di sé prove di senno e prudenza. Sennonché al movimento dell’Europa universa, fattosi più sempre maggiore, per la chiamata del pontefice Urbano II, a tórre dalle mani degli infedeli il sepolcro di Cristo, parve alla Repubblica conveniente non rimanere oziosa a tanto strepito di armi. Laonde, che che ne dica il compilatore della Storia documentata di Venezia, che in sua logica poi si contraddice da sé, statuivano i Veneziani per la prima volta di unirsi a quella impresa, mossi da due molle possenti, dalla religione, cioé, e dal proprio commerciale interesse.

Pertanto, doge Vitale, ordinava poderoso armamento, forte di ottanta galee, di cinquantacinque tarette, o caracche, legni cotesti che servivano e al commercio e alla guerra, e di settantadue navigli di varia forma; la metà della quale formidabile flotta fu arredata in Venezia, il resto nella Dalmazia. Il comando di essa venne affidato a Giovanni figliolo del doge, a cui si volle aggiungere Enrico Contarini, vescovo castellano, come consigliere, al dir di taluni, o, secondo altri, come supremo rettore della impresa.

Nell’anno 1097 salpò quindi la flotta unita, dirigendosi alla volta di Rodi, ove nelle acque di quell’isola accadde un fiero scontro con le navi pisane, ivi giunte pur esse al fine medesimo di soccorrere la santa crociata. Quale fosse il motivo per cui esse flotte venissero a pugna; quale la vittoria conseguita dai nostri; come poi si rappacificassero i dissidenti, e proseguissero il viaggio loro; come giunti nelle acque di Licia, oggidì golfo di Satalia, presa terra a Mira, acquistassero i Veneziani i corpi dei santi Teodoro martire e Nicolao, zio dell’altro Nicolò possente protettore dei marinai, ed anche di questo ne conseguissero le reliquie, fu detto nella illustrazione della tavola CLXXIX di quest’opera, recante l’incisione del dipinto che rappresenta appunto tale vittoria, collocato nel soppalco della sala dello Scrutinio.

Proseguendo il loro viaggio, giunsero i Veneziani a Joppe o Jaffa, già caduta in mano dei crociati, ove poco oppresso giungeva anche Goffredo, reduce dalla vittoria ottenuta sulle armi del sultano di Damasco, e, quantunque gravato dal morbo che in breve lo trasse al sepolcro, volle veder tuttavia i duci veneziani, i quali lo donarono di vesti e vasi preziosi. Prometteva egli ai medesimi di presentarsi l’indomani all’armata; ma aggravatosi il male nella notte seguente, e più sempre imperversando nei dì appresso, fu tenuto consiglio e statuito, che i nostri assalissero per mare il castello di Caifa, situato a piedi del Carmelo, mentre Tancredi e Guarnieri dei Greis lo batterebbero dal lato di terra. Infrattanto si trasportò Goffredo a Gerusalemme; e nel punto che i crociati apparecchiavano le macchine ossidionali, pervenne a Jaffa l’infausta nuova che egli era presso a mancare. Dolenti per cotanta sventura, si recarono subitamente i duci franchi ed i veneti a Gerusalemme, ove assistettero al suo trapasso, ne curarono gli onori funebri, e riconobbero a successore Baldovino I suo fratello. Quindi, tornati i duci all’oppugnazione di Caifa, dopo molto battagliare la conquistarono. E poiché ebbero poscia tentato i nostri un colpo contro Ascalona, valutando, per quella stagione, compiuta la campagna, sciolsero le vele verso la patria. Giungevano quivi il 6 dicembre, giorno sacro alle glorie di San Nicolao, di cui recavano le venerate reliquie, le quali deposero tosto, con solennità memoranda, nella chiesa del Lido, al Santo medesimo intitolata.

Tali fatti vennero diversamente narrati dagli storici nostri; volendo alcuni che accadessero in due spedizioni distinte, susseguitesi un anno dietro l’altro; ma contraddetti sono dalla ragione dei fatti medesimi, e dalla testimonianza di parecchi altri autori stranieri.

Continuarono pur tuttavia alcuni navigli veneziani a correre i mari dell’Asia senza però prender parte alle pugne, soltanto impiegandosi nel trasportare a Jaffa i pellegrini, che si recavano in Terra santa.

Bene ad altra impresa, di maggiore interesse nazionale, chiamava la Repubblica a porvi mano, vòlta a reprimere le correrie dei Normanni, i quali, fino dal tempo di doge Domenico Selvo, avendo ricuperato Durazzo, da colà movevano i loro legni infestando 11 mar circostante. Ai Veneziani si unirono le armi terrestri di Calomanico re di Ungheria, e invece di tentare Durazzo stessa, reputarono impresa migliore quella di assalire Brindisi e Monopoli nella Puglia. Di fatti, prese ivi terra la flotta veneziana, e sbarcate le proprie unitamente alle milizie ungare, occupò quelle due città, desolando il circostante paese; per cui Ruggieri, re normanno, non potendo resistere a quella irruzione, chiese ed ottenne la pace, obbligandosi di non più recare molestia ai vincitori.

L’ultimo fatto, di qualche rilievo, accaduto durante la ducea del Michieli, fu l’aiuto che porsero i Veneziani alla celebre contessa Matilde. La quale, sostenuto avendo a tutto potere, ma però con poco successo, le ragioni dei pontefici, contro l’imperatore Enrico IV, intorno all’affare delle Investiture, volgendo alla peggio in Italia le cose di Enrico stesso, cercò la contessa di ricuperare Ferrara, perduta alcuni anni prima. Laonde, invocato l’aiuto dei Romani, dei Toscani, dei Lombardi e dei Veneziani, ed ottenutolo, nell’autunno dell’anno 1101, strinse, con tutte queste genti, d’assedio quella città, sostenendo l’assalto i Veneziani, colla loro flotta minuta sul Po, sicché poco tardarono i Ferraresi ad arrendersi. Per tale soccorso prestato, ottennero i Veneziani, fin d’allora, privilegi parecchi, tra i quali, a quanto pare, quello di tenere in Ferrara un visdomino, o consolo, a tutela dei loro negozi.

L’anno seguente, cioé nel 1102, passava il doge alla seconda vita, sepolto nella chiesa di Santo Zaccaria, e non nel portico della basilica di San Marco, come dice per errore il Sanudo. Narrano però alcuni cronacisti, che fu ucciso da un cotal Marco Cassolbo o Cassuolo, il quale pagò tosto il fio del suo reato coll’essere impeso.

Fece il Michieli edificare, nel 1101, nel lido di Malamocco il tempio ed il cenobio di San Cipriano, ma pochi anni appresso essendo stati ruinati dalla furia del mare, furono riedificati nell’isoletta presso Murano, che da allora si appellò appunto San Cipriano di Murano. Venne eretto anche solto il suo reggimento una torre sul lido di San Nicolò, per sicurezza del porto vicino.

Nel breve, su cui posa la sinistra mano del ritratto di questo doge, si legge, con qualche diversità del Sanudo:

PISANAM CLASSEM SACRAE TELLVRIS VT HOSTES
PRAEPOSITVM CHAYFAM AEGYPTI IVRE REPVLSI. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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