Ottone Orseolo. Doge XXVII. Anni 1008-1026

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Ottone Orseolo. Doge XXVII. Anni 1008-1026

Morto il padre, rimase solo al governo Ottone, il quale, sebbene contasse soli diciotto anni di età, al dire dei cronacisti, era dotalo delle più eminenti virtù per reggere lo Stato. Saggio, prudente, giusto, pio, bello del corpo e dovizioso, fu giudicato, come scrive il Sanudo, essere degno di tal governo, anche pei meriti del padre e del l’avo santissimo. Tolse, poco appresso, a sua donna Elena, figlia di Geiza re d’Ungheria, e sorella di Stefano I, che fu pure innalzato a quel trono, e dopo morto salì all’onore degli altari. Elena, pur essa, non degenere dalla bontà dei parenti, è lodata dal Dandolo, siccome castissima e non inferiore alla virtù del fratello.

Fin dai primordi del suo governo Ottone regolò le decime, che i cittadini pagavano per i pubblici bisogni, alterate dai precedenti dogi e loro gastaldi. E già erano scorsi otto anni che la pace, mantenuta costantemente, faceva prosperare il popolo veneziano, quando dovette il doge reprimere le armi di Pietro I vescovo di Adria, il quale, bramoso di stendere i propri domimi, invadeva i territori di Loredo e di Fossone; sicché, accorso tosto doge Ottone cacciava i nemici, e ne poneva a sacco le terre loro, costringendo il vescovo stesso a recarsi in persona, coi primari del clero suo e del suo popolo, in Rialto a chiedere perdono e pace, segnando il dì 7 giugno 1016 un compromesso, nel quale si obbligava, fra le altre cose, di non più molestare né danneggiare il castello di Loredo, cui egli aveva stimolato a ribellarsi alla Repubblica.

Né questo fu la sola impresa di Ottone; che dovette poco dopo rivolgere le sue armi contro gli Slavi-Croati, i quali, con alla testa il loro capo Cresimiro, o Crusimiro, si erano dati nuovamente a devastare il territorio dalmata, e si erano già insignoriti di Zara. Laonde, allestita poderosissima flotta, si mise in mare Ottone stesso, disposto di assediare tostamente Zara occupata dai nemici. Sennonché dessi gli si fecero incontro sfidandolo a battaglia; nella quale così fatta rotta toccarono, che soli pochi poterono uscir salvi, mediante sollecita fuga, riparandosi fra le gole e le rupi di quelle loro inaccessibili montagne. Nel suo ritorno, volle il doge visitare le città e le isole tutte della Dalmazia, e rinnovare, con ciascheduna, i patti, già quattro lustri prima stabiliti col di lui glorioso genitore, i cui documenti sono tuttavia superstiti. Dopo alquanti mesi ritornava il doge alla patria: ma la fama splendidissima da cui era accompagnato destò la gelosia e l’invidia di alcune famiglie nobili, le quali mal supponendo troppo potenti gli Orseoli, onde non avessero, a mezzo anche delle illustri lor parentele, ad usurpare la sovranità assoluta della patria, cercarono, per via dei lor amici e aderenti, di sedurre gran parte del popolo e di infondergli il sospetto medesimo; e tanto furono efficaci le costoro istigazioni, che la plebe, sempre credula perché ignorante, ed instabile sempre come il mare, insorse per modo da gridare il doge deposto e volerlo cacciato in bando, e con lui anche il fratello Orso, patriarca di Grado. Laonde, per il loro meglio fuggirono ambedue, riparandosi nell’Istria vicina.

Non è improbabile che anche Peppone, patriarca di Aquileia, abbia, per mezzo dei suoi, soffiato in questa ingiusta rivolta: imperocché sempre guardando egli all’ingrandimento della sua giurisdizione, ed ai vari titoli che i suoi antecessori vantarono sul patriarcato di Grado, fattosi potente per l’amicizia dell’imperatore Enrico II, cui aveva accompagnato nella sua spedizione di Napoli, ritornato che fu alla sua sede si adoperò con tutto sé stesso a sollevare gli animi contro Orso patriarca di Grado, ed accusato già lo aveva appo il pontefice Benedetto VIII, come intruso e illegalmente eletto.

E poiché, per l’accennata rivolta, essendo Orso fuggito, come dicemmo, parve a Peppone venuto il tempo d’incarnare i suoi perversi disegni, sicché, raccolta tostamente una forte mano di militi, si recò sotto le mura di Grado. Sennonché, trovando egli chiuse le porte, e parati i cittadini alla difesa, si diede egli ad ingannarli, facendo loro intendere, non esser venuto quale nemico, ma solo mosso dallo spirito di carità, onde prender cura di un gregge rimasto senza pastore. Ciò veniva affermando con sacramento; per cui gli diedero fede i Gradensi ed gli aprirono le porte, e lo accolsero amico.

Ma il patriarca, non sì tosto entrava nella città, che fatto dimentico del giuro proferto, e del carattere sacro di cui era insignito, ordinò alle sue genti un generale saccheggio; il quale non andò scompagnato da quella sfrenatezza propria delle milizie, che non temono Iddio, che giustizia ignorano, che pietà disconoscono, sicché né i templi andarono immuni dalle sacrileghe loro mani, né le sacre vergini poterono uscire incolumi; e quindi il prelato malvagio, raccolti i corpi santi ed i tesori delle chiese, seco recolli, come a trionfo della mala opera, alla sua sede, lasciando però in Grado, quale città sua, grosso presidio. Arsero, a ta1 nuova, di sdegno i Veneziani; e sia che per questo atto fellonesco si avvedessero delle mire iniquissime di Peppone, che sparsa aveva la discordia, ossia che gli amici dell’Orseolo conoscer facessero la ingiustizia del trattamento a lui fatto patire; pentitisi del male operato, deliberarono di richiamarlo unitamente al fratello, e a cotal fine deputarono alcuni a ricondurlo alla patria ed al trono. Ritornava in fatti Ottone con Orso, e tostamente si mosse a rivendicare l’onore nazionale, a punire Peppone, ed a ricuperar Grado perduta. Giunto sotto le mura di quella città, il presidio tosto si arrese, e il doge, entrato, restaurare fece le mura e rinnovare le porte, e queste validamente munite di ferro, ritornava glorioso alla patria.

Ma neppur questo fatto valse a stabilire durevolmente Ottone nel seggio ducale. L’odio, l’invidia, il malo animo delle nemiche famiglie dei nobili, segretamente si fermentavano, ed alla fine irruppero, dopo due anni, in nuova rivolta. Alla quale diede pretesto la sostituzione alla cattedra di Olivolo, resasi vacante per la morte di Domenico Gradenigo, la cui famiglia celatamente tanto operò che eletto venne un nipote del vescovo estinto, appellato pur egli Domenico, il quale toccava appena il diciottesimo anno di età. Quindi parve proprio al doge negare l’investitura di quella sede all’intonso Domenico; ed allora i Gradenighi, stimolati e aiutati dai Flabanici, il cui capo era un Domenico, uomo capace ad ogni delitto, mossero il popolo alla da lungo tempo meditata sommossa, e lo spinsero a volere la deposizione e l’esilio del doge. S’impadronirono quindi di lui, e rasagli la barba, lo posero a confine a Costantinopoli. Suo fratello, patriarca di Grado, non si chiamando sicuro, prese la fuga, e venne pur egli dannato all’ostracismo. Così ebbe fine il ducato di un principe, che doveva, per le sue esimie virtù e doti dell’animo, esser tonuo carissimo: esempio solenne di quanto sono per lo più ingiuste le rivolte dei popoli, che, contro i dettami evangelici, vogliono erigersi a giudici dei lor governanti.

Sul breve che gira di retro all’immagine di questo doge, sta scritto :

MARTE GRADVM REDIMENS, QVEM VI PATRIARCHA TENEBAT
VRBIS AQUILEIAE DEMVM DE SEDE REPELLOR (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto.  Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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