Palazzo Centani a San Tomà
Ln magione è antica; lo indica l’architettura di stile archiacuto, e l’edificio grandeggia colossale, veduto d’ambi i lati, dalla calle, cioè, che diremo dei Nomboli, e disceso il ponte di questo nome, dal rivo, dove risaltano ancora le decorazioni del prospetto. L’occhio rimane però disgustato alla vista dei guasti e delle contraffazioni, d’ogni genere e senza numero, che fanno deplorare manomessa, più dalle mani degli uomini che dal dente del tempo, una fabbrica, che sarebbe documento cospicuo d’arte, come lo è della storia, ove da qualche dovizioso acquistata, fosse alla sua prisca interezza restituita.
Uno stemma, scolpito sulla cisterna nel cortile e sulla scalea scoperta di marmo, di antico stile, ci da a conoscere che il palazzo fin dalla fondazione apparteneva alla famiglia Rizzo, distinta fra le case cittadinesche, e il dott. Tassini nelle interessanti sue Curiosità veneziane dichiara, che una Laura Rizzo notificava nel 1537 di possedere appunto uno stabile da stazio a San Tomà. Risulta poi da documenti, che succedesse ad abitarvi la famiglia Centani, o Zantani, circa il 1550 venuta sulle lagune da Breno nella Valcamonica, per sollevazione di quei popoli, e le storie decantano Antonio, che sostenuta eroicamente la fame e l’impeto dell’oste nel formidabile assedio di Scutari, moriva armalo più di valor che di ferro. Del quale invitto prode, che da taluno si vuole martire, al pari di Paolo Erizzo, un altro Antonio si ricorda, nipote, a cui si deve l’istituzione dello studio delle medaglie, emulo di Enea Vico e di Sebastiano Erizzo, e che possedeva un museo, e quadri di ottimi pennelli, e anticaglie diverse.
Fu egli da Giulio III papa fregiato del titolo di conte e cavaliere, con amplissimo privilegio, per la gloriosa morte dell’avo. Era perito nel disegno, nel ricamo e nell’intaglio; si dilettava anche di musica, e in questo palazzo concorrevano alle frequenti accademie, con numerosi dilettanti, gli organisti celebri della Cappella ducale, Parabosco e Claudio da Correggio. Si esercitava questo Antonio Zantani anche nell’architettura, e modellò la chiesa ora distrutta che era annessa all’Ospitale degli Incurabili, da lui con largizione beneficato. In questi recinti moriva nel 1567, ultimo della casa, e legava delle pingui sue entrate tre ducati ad ogni anno in perpetuo, ai patrizi, che il giorno di San Antonio avessero cavato balla d’oro nel Maggior Consiglio.
In questo palazzo apriva gli occhi alla prima aurora, e mandava i primi vagiti il nostro comico unico, l’italiano Molière, il padre della commedia italiana, Carlo Goldoni, e parve quasi che la materiale magnificenza dell’albergo valesse a segnare la grandezza della futura sua gloria. Il fatto di tale nascita è incontrastabile, attestato da lui stesso in quelle memorie della vita, intorno alle quali impiegava tre anni, esprimendosi con accuratezza topografica: io nacqui a Venezia, l’anno 1707, in una grande e bella casa, situata fra il ponte dei Nomboli, e quello di Donna Onesta, al canton della strada di Cà Centoni, sotto la parrocchia di San Tomaso. Era però a pigione l’appartamento, non avendo mai abitato in casa propria, quantunque la sua famiglia possedesse alcuni benifondi in Venezia, e l’avo suo, che fungeva un uffizio tra noi alla Camera dei cinque Savi alla mercanzia, ereditasse una sostanza dai congiunti Salvioni, segretari di Senato, che abitavano nel palazzo, in Salizzada di Sant’Antonino, ora della vedova marchesa Riccini. Partiva infatti il Goldoni dopo il primo anno, che studiava grammatica inferiore, per recarsi a Perugia; si trasferiva più tardi a Modena, ove s’incontrava col Frugoni, che per gelosia di fama non aveva dispiacere di sua partenza, e tornato sulle lagune, riabitava colla madre in corte di San Giorgio, vicino a San Marco, che sarebbe in campo Rusolo, o San Gallo, nella casa stessa, ove il 16 ottobre 1822 alle dieci della mattina spirava l’anima il Fidia italiano. E nelle volte, che soggiornava in questa natale e prediletta sua terra, si legge che cercava sempre case, in una contrada o nell’altra, e anzi la briosa sua commedia la Casa nuova, nacque dall’imbarazzo che in certa circostanza lo molestava, dovendo mutare di abitazione. Narra in appresso che prese a pigione un appartamento a San Paterniano, poiché gli avvocati in Venezia, al suo tempo, che erano nel numero di 240, iscritti nel registro, tra i quali dodici di primo grado e venti del secondo dovevano avere le abitazioni, o almeno gli studi, detti volgarmente mezzadi, nel sestiere dove risiedeva la curia.
Il Goldoni confessa aver veduto con pena, che mancasse alla nostra nazione (son sue parole) qualche cosa di essenziale, tuttoché avesse conosciuta l’arte drammatica prima di ogni altra nazione moderna, nè poteva comprendere, come l’Italia l’avesse negletta e si fosse tanto avvilita. Bramava quindi passionatamente, che la patria sua stesse a livello di tutte le altre, e si riprometteva di contribuirvi. E quanto non amava l’Italia, che corse dall’Alpi al Lilibeo, e chiamava il giardino dell’Europa! Allora Venezia contava una popolazione di duecentomila anime, città da lui trovata straordinaria, da non poter farsene, egli pronunziava, una giusta idea, senza averla veduta, non bastando le carte, i piani, i modelli, le descrizioni, tutte le Città del mondo, più o meno rassomigliandosi, ma questa non somigliando a nessuna. E s’è vero, com’è verissimo che la lingua è una patria, al pari del paese, e separa le nazioni meglio assai che non facciano le montagne ed i fiumi, il Goldoni ebbe a considerare, come il dialetto nostro, che si accosta più di ogni altro nel costrutto e nelle frasi al toscano, conservasse pura l’originale sua impronta, mai per quattordici secoli da strania signoria imbastardito.
E lo conobbe il linguaggio più dolce e grazioso fra gli altri dialetti d’Italia, colla sua pronunzia chiara, facile, delicata, colle parole abbondanti ed espressive, e le frasi armoniose piene di spirito, che si attagliano al fondo del carattere allegro e lepido dei veneziani. In esso scrisse pertanto le sue più efficaci commedie; e qual altro dialetto al mondo saprebbe vantarne di eguali? La fedele pittura di caratteri e di passioni, il bizzarro e ingegnoso in treccio di casi, una vivacità e verità somma di dialogo, e quanto costituisce nel giudizio dei bene intendenti la principale eccellenza drammatica, si trova raccolto quasi per prodigio nel Goldoni, da far credere a chi lo ascolta di conversare coi cittadini del secolo XVIII. Egli mostrò la severità dei nostri costumi, che nessuno ancora superò, quando ritrasse il cuore umano, senza calunniare l’uomo; ritrasse i lioni, sommi uomini, che ridevano di tante umane follie, ma col riso che nasconde una lagrima nelle miserie dei tempi; sulle umane stranezze volle piuttosto esser compreso per sentimento, che a parole; scese nel cuor della donna, che non si dipinge e non si conosce in un attimo; lesse in quel libro fatale, in cui sono più misteri che nell’abisso e nel cielo.
Secondo il retto giudizio in somma del Missirini, il Goldoni derivò la commedia dal cuore del genio e dallo studio del mondo; potente di forza comica, espose piacevoleggiando difetti e virtù sociali; creatore del teatro morale, lo purgò dalla licenza; trasse il ridicolo dalle passioni dell’animo e dalle stravaganze della mente, con popolarità di caratteri, e la filosofia gli tenne luogo di fortuna. Infatti, mentre le di lui commedie cominciavano a incivilire le scene, e il popolo ne gradiva la riforma, l’invido orgoglio, che deturpa i begli ingegni, fece delirare lo spirito strano e beffardo di Carlo Gozzi, che unito all’altro mediocre ingegno del Chiari, tentò strappargli l’alloro, con la Tatiana degl’influssi, e l’Amore delle tre melarancie, sfacciata parodia delle maniere del Goldoni, recitata a San Samuele con sette repliche dalla compagnia Sacchi.
Ma sia pure, che i contemporanei combattessero il sorgere di tanto astro, e che il Baretti menasse la frusta, come ben giudica il conte Dandolo, più presto da aguzzino e da birro, che da critico urbano ed onesto, noi dobbiamo a quelle rivalità molte più opere del padre della commedia italiana dell’Ariosto del dramma. Intanto, quando Goldoni in Francia nel 1761 si cimentò nella lingua stessa di Molière, ebbe da Voltaire l’encomio, che la Francia si dichiarava debitrice ad uno straniero, se le veniva ridonato il gusto della buona commedia, depravata dalla stranezza del comico piagnoloso. E il Botta nella storia d’Italia ripone il Goldoni tra le più splendide glorie della penisola, e lo giudica col Metastasio e l’Alfieri terza colonna del buon gusto italiano.
Moriva il Goldoni a Parigi agli 8 gennaio 1793, di 86 anni, e la postuma gloria risorgeva dal sepolcro. Ormai, a cura dei fratelli Errera, venne collocato il busto nelle gallerie del palazzo Ducale, un’iscrizione si consacrava nell’atrio del gran Teatro della Fenice a quell’unico maestro, più glorioso che fortunato, e acciò non paresse sconoscente tutta l’Italia, al limitare esterno di questo stesso palazzo ove ebbe la culla, si pose l’effigie con l’epigrafe; hic hortum habuit, plaudentibus musis. E le commedie, in numero di 150, in prosa e in verso, d’intreccio e di carattere, vera immagine della vita domestica, in tutta la sua naturalezza, sono ormai riconosciute quali modelli, e i migliori scrittori moderni le studiano e le imitano, poiché il tempo è galantuomo, e gran mastro di restituzioni (1)
(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).
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