Palazzo Marcello alla Maddalena

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Palazzo Marcello. Corte Erizzo, 2134 - Cannaregio

Palazzo Marcello alla Maddalena

Quando un edificio qualsiasi è segnato dal caro ricordo, che qualche genio sovrano massime in una delle gentili arti di abbellimento alla vita, gli sia stato di albergo, l’entusiasmo dell’anima supplisce alla realtà nel desiderio dei riguardanti. La ricchezza allora della materia e la grandiosità dell’idea si trova nella stessa modestia e semplicità delle forme, e fosse anche rozza la fabbrica, ci diviene interessante. Sia pur semplice quindi il disegno di questa nobile magione, a cinque archi, in due ordini di decorazione, con doppia riva di approdo; ne fossero anche meno aggraziate le appariscenze; non vi sorgesse neppure l’adiacente verziere, quasi allusione al Grande che vi fioriva da presso, e tanta luce ha propagato nel mondo, basterà al passeggero sulle acque la ignuda notizia, che in questi recinti nasceva Benedetto Marcello.

Possiamo raffigurarci, non muto un tempo quell’angolo del Canal Grande, per le scene che si succedevano frequenti nelle serenate, che risultano deliziose nella freschezza dell’aria notturna, fra la doppia fila di palazzi, che vi raccoglie e rimanda il suono, mentre il quieto moto della barca consente di spiegarsi agli affetti, in quella solitudine solenne, col canto divino. E bene giudicava il gran maestro Claudio Monteverde, che il cielo non aveva potuto collocarlo in luogo, ove le cose fossero più armoniose, ali udendo agli abitanti di Venezia, che colla giocondezza del carattere e l’elasticità dell’ingegno sortivano l’attitudine sovrana alla musica, perché il popolo ha un istinto musicale, che dipende essenzialmente dalle grazie dell’armoniosa scorrevolezza della lingua, ricca di vocaboli affettuosi, di dolcissime frasi, verseggiata dai poeti vernacoli, e cantata sotto le stelle con quel singolare talento di concertare le voci, proprie dei veneziani. Infatti sotto il cielo beante delle lagune, che s’inghirlandano dei capo-lavori di tutte le architetture, all’ombra del governo antico, delle gioie popolari amantissimo, l’arte musicale assunse un color singolare, una individualità, che la distingue dalla scuola romana e napoletana, lasciando trovar in essa, di confronto all’indole e al carattere delle altre nazioni che la coltivano, brio, vivezza, maestà, modo e misura. Si aggiunga, che a Venezia la vita privata e pubblica poteva dirsi una festa continua; che era incoraggiata l’arte dal patrocinio dei governanti e dal genio dei patrizi, né si stupirà che avesse una gloria a sé della musica, cominciata nel principio del secolo XIV, e chiusa poco prima dell’era Napoleonica. Benedetto Marcello, avuti a genitori Agostino cultor della musica, e Paolina Cappello, di eletto ingegno e letterata, s’instituiva, col fratello Alessandro, poeta, nel collegio dei Somaschi, a Sant’Antonio di Castello, quando ivi studiava il celebre Apostolo Zeno che gli fu amico; e più lardi Francesco Gasparini, maestro nell’Istituto dei Mendicanti, lo addottrinava nelle ragioni del canto. Insignito dalla Repubblica di cariche ragguardevoli, fu dei quaranta, Provveditore a Pola, e Camerlengo a Brescia, ma più che magistrato, si fece artista per diletto, e apparve fin sulle prime un miracolo, che natura crea, arte non forma, onde protestava Pacchierotti, che aveva appresa dal Marcello l’arte di cantare all’anima. E se i patrizi giovarono con protezione speciale al perfezionamento della musica ricordandosi per esempio il Cornaro, ambasciatore a Vienna, che tenne al suo servizio il maestro Porpora, e giovò alla educazione di Haidn, il Marcello svolse, a così dire, il germe del genio, dava coraggio, e slanciava sulle scene il famoso Buranello, che così s’intitolava dalla sua patria il Galuppi. Allettato inoltre dai pregi singolari di voce, educava alla musica Faustina Bordoni, che fu moglie all’Hasse; e in una delle serenate sul Canal Grande adocchiata la Rosanna Scalfi, una rozza artigianella sapeva trasformare in una insigne cantante, che poscia impalmata in occulto, con lei divise la dimora e ne rallegrava i recinti.

In questo palazzo, composto di splendide stanze ancora decorate di soppalchi del Cedini e del Mingardi, e in cui si vedono dipinti di Alessandro, fratello di Benedetto ricordati dal Cicogna, frequenti e rumorose accademie avocarono i plausi di Venezia sul Canal Grande, capitanate da quel genio sovrano, che scrisse in tutti i generi di musica, nell’età più splendida per l’arte, nella prima metà del secolo XVIII, quando egli e Lotti gareggiavano, non meno educando al bel cantare, che con le opere immortali. Ma un genere nuovo inventò Benedetto coi Salmi, che nessuno poté imitare, e si disse che strappasse la lira di mano al Profeta, e si ponesse a suonare un’altra volta quegli inni miracolosi, che ebbero la potenza di calmar le furie di Saule. Né si tosto uscirono in luce quei salmi divini, si formò in Venezia una società numerosa dei migliori virtuosi, per eseguirli con scelta copia di musica; ne risuonò in breve la fama nelle regge e nel Vaticano, e nessuno osò entrare nei trionfi del campo esclusivo, per misurarsi con lui, onde era universalmente salutato coll’antonomastico nome di principe della musica.

L’immortale patrizio chiudeva l’era classica della scuola veneta; principe per animo e per dovizie, per bontà e larghezza di Mecenate, lo fu per la onnipotenza di quel genio, che forma la vera aristocrazia nel mondo, la quale sopravvive al cader dei governi, alla distruzione degl’imperi, e varca la notte dei sepolcri. Mirabile fatto veramente, che un tanto genio sorgesse negli ultimi aneliti della decrepita Repubblica, quasi a fornire ai posteri l’argomento, che se il cuore aveva debole il battito, la testa ancora degnamente pensava, né era già smarrito il senso dell’arte, ed una splendida agonia precedette quel morire sciagurato. In tal guisa deve filosofare chiunque si faccia innanzi al busto, che rappresenta il padre della musica ecclesiastica, fatto scolpire ed offerto all’Istituto Veneto di scienze lettere ed arti, e che nelle gallerie del palazzo ducale fu riposto all’ occasione del IX Congresso degli scienziati Italiani. Tante circostanze, altrettante idee, e fra tutte la massima di rammemorare il patrio disegno del benemerito professore Camploy, nome a Venezia carissimo, per i di lui generosi conati per la fondazione di un Istituto musicale, che disparve, e manca tra noi, essendo grande la necessità di avere strumenti di arco, onde completare le orchestre. Ora a doppio titolo ci gode l’animo, che siano tutto giorno queste sacre soglie dischiuse al nostrale non meno che al forestiere, per una non sapremo meglio se appellar galleria o gazofilacio, che l’intraprendente animoso genio di Consiglio Ricchetti, con accorgimento pari all’ efficace volere, quivi da anni molti fondava.

Poiché si ammirano collezioni di pitture di antiche scuole, e sculture, bassi rilievi e simulacri di prezzo, serie svariate e pregevoli di cammei, di antico e moderno lavoro, e manufatti senza numero e archeologiche antichità di ogni genere, argomento di patri studi, e per sbizzarrire gli amatori, e dar pascolo alle curiosità erudite. Cosi, mentre si visita da tutti la culla di quel genio, si vede, quasi ad omaggio, farsi tributarie a questi recinti Venezia e le isole nelle tante preziosità, che ai palazzi appartenevano, e che rappresentano ancora il nazionale patriottismo, l’amore intenso per l’arti belle, le antiche ricchezze dei Veneziani. (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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