Palazzo Tron a San Stae

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Palazzo Tron a San Stae. In "Venezia Monumentale e Pittoresca", Giuseppe Kier editore e Marco Moro (1817-1885) disegnatore, Venezia 1866. Da internetculturale.it

Palazzo Tron a San Stae

Uno sguardo a questo palazzo ne compendia a un tratto la storia. Qualche balcone infatti di stile archiacuto dalla parte del cortile, ove sta l’altro ingresso al secondo piano, non meno dell’anello della cisterna nel cortile stesso, parimenti di stile puro gotico, accennerebbero ad una primissima fondazione. Nè vi sarebbe errore nel calcolarne l’ipotesi, leggendosi che, allibrati tra i nobili all’estimo del Comune, figura nel 1379 un Donato Tron di San Stae, e un Marbosano Polani, marito di donna Betta Tron, pur di San Stae, nelle genealogie del Barbaro.

Le cronache combinano nel mostrarci che i Tron fiorirono in antico sulle lagune, e primeggiarono per meriti nelle gravi missioni di Stato, originari di Mantova, giusta il Maffei, e qui ricoverati per le incursioni di Attila. Il Sansovino poi nella Venezia tocca dell’attuale fabbrica, qualificandola memorabile e di gran corpo, e di onorata apparenza; s’inganna però nel pronunziare che sia di giusta simmetria. Poichè se, come si opina nella Venezia e sue lagune, può dirsi poco diverso questo palazzo nell’ordinamento della facciata esterna da quello Fontana, poi Rech, e di stile a un di presso conforme, d’attribuirsi, cioè, alla scuola Sansovinesca, è anche giustizia il convenire, che l’architettura non è esatta, e indica più dell’altro il decadimento dell’arte.

Né vorremo già comprendere nelle prove del nostro giudizio la patente irregolarità della seconda riva di approdo nel lato destro. Questa fu certamente aggiunta posteriormente, come dopo con disdoro del Prospetto si immurava una delle quattro arcate, con tre colonne a sostegno, di marmo fino, ornate di capitelli, d’ordine corintio. I balconi del primo ordine, a poggioli colonnati, si vedono sorretti da medaglioni di bello stile. Anche i davanzali degli ammezzati hanno il puntello di medaglioni lunghi ricurvi, di pietra viva, e sono eguali quelli del secondo ordine. Nel quale piano il poggiolo nel centro è simile al primo, sì nelle arcate come nelle colonne, colla sola differenza nei capitelli, che sono invece di ordine jonico. Il cornicione, che superiormente circonda la prospettiva, ed ha un semifregio architettonico tra il 4.° e il 2.° ordine, è di forma romana. Si giunge al vestibolo per bel cortile spazioso, a cui dalla calle si mette. Un tempo vi stava il blasone gentilizio di legno ad intaglio, ed era ricco nelle pareti di brandi, di picche, di alabarde, e di scudi. È sorretto il cortile da due colonne massicce di marmo rossastro veronese, con capitelli di ordine corintio, al pari delle due colonne nel1′ interno, ad appoggio del tramezzo, che fu più tardi aggiunto per dare comunicazione agli ammezzati. Pel grand’ arco, che introduce alla scala del primo piano, la quale à pilastri canalati, e la fronte con capitelli dell’ordine stesso corintio, dominante in gran parte il Palazzo, si penetra nelle sale. In queste si vedono ancora rimasugli di fregi, di stile barocco, e pitture di mezzano pennello. Le ricche copiose stanze erano abbellite di stoffe e damaschi di seta con intagli dorati a disegno, secondo la moda allora del rococò. Le porte, pure intagliate, sono adorne di piccole teste in bronzo di deità guerriere, e di baccanti. Nel 1844 fu rinnovata la stanza, che fa angolo tra il piccolo rivo e il Canal grande, ed era rivestita di broccatello rosso e giallo, con ricchissime travature dorate, a bel disegno. Si ricorda che in mezzo ad essa sorgeva, a foggia di monumento, di tutta altezza, un camino suntuoso, in due ordini suddiviso, con sei grosse colonne di pietra di parangone, e con capitelli corinti di marmo di Carrara. Altrettante, pure di paragone, nel secondo facevano capo a frontone bene ornato, quasi nicchia splendida lapidaria, con vari marmi veronesi intorno, rosso, cinericcio e mandorlato. Fatalmente l’opera si perdette, poichè si acquistava per ingente somma da un possidente trevigiano, che ne abbelliva un suo palazzo, conservato nella prisca forma.

Esistevano nei recinti ben molte tele, rappresentanti fatti mitologici del pennello di Palma juniore. Alcuni soggetti di famiglia erano di Girolamo Pilotti veneziano, che, secondo il Zanetti, emulò felicemente lo stile del Palma: di lui abbiamo opere nelle chiese di San Giobbe, di Santa Lucia, di Sant’Eufemia e di San Silvestro. Si vedevano una Giuditta di Gio. Francesco Barbieri, detto il Guercino da Cento, di cui esiste in legno la vecchia stampa, e una sacra famiglia di Simon Contarini detto Pesarese. Sulle sovrappone stavano i ritratti di due Senatori di Domenico Tintoretto, come di vari congiunti di Benedetto e Gabriele Calliari, di Andrea Vicentino, creduto alunno del Palma, e di Antonio Fasolo, grande imitatore di Paolo Veronese, del quale si conserva nell’Accademia di belle arti la piscina probatica.

Rinnovata in seguito l’architettura di questo Palazzo nella forma attuale, vi si aggiungevano due ali nel cortile d’ingresso, che comunicavano ad una seconda parte della fabbrica, ove era fastosa una sala per danze e concerti, tutta da un capo all’altro ricca di specchi, con dorati cornicioni, e con sfarzo di dorature all’intorno, e gruppi di putti, intrecciane ghirlande di frutti, di ottima scuola a rococò. Il plafone era opera di Jacopo Guarana, uno dei migliori frescanti dell’ultimo secolo, e rappresentava con mirabile effetto la caduta dei Giganti, di cui esiste il modello. Gli ovati, pure a fresco sopra le porte, che simboleggiavano le muse, si vedevano fattura di Lodovico Dorigny di Parigi, pittore facile e sicuro, quegli che dipinse la gloria degli Angeli sul altare maggiore dei Gesuiti, e sulla volta della Cappella Manin ai Scalzi. Questa sala fu teatro di leste, in molte solennità diplomatiche, ed alla venuta di Giuseppe linel 4775, in tempo della fiera della Sensa. Allora il Procuratore Andrea Tron fu delegato agli spettacoli, ed era permessa dai Capi del Consiglio dei Dieci una regata particolare con macchine per tutti i traghetti del Canal grande, e bande di strumenti e sinfonie, avendosi dato a cadauno dei sopracomiti del Bucentoro cento zecchini, per le spese del rinfresco. Il detto Procuratore, uomo di Stato, di gran senno e facondia, conoscitore perfetto dell’etichetta dei gabinetti, ed istrutto neg1i interessi delle corti, per essere risieduto in ben molte, come ambasciatore della Repubblica, già precorso dalla fama, fu desiderato nel 1782 dall’Imperatore delle Russie, che qui giunse con la compagna, i quali viaggiavano sotto il nome di Conti del Nord, e lo volle al suo fianco nella brillante dimora sulle lagune. Ultimo personaggio fu questo, alla caduta della Repubblica, di tempera e di età nestorea, che moriva in questo palazzo: in lui, dopo un lungo giro di secoli, la prosapia si estingueva. Ed oh! quanto è stato infelice il consiglio di spianarsi al suolo quella sala memoranda, il recinto più interessante del palazzo, il maggior testimonio di glorie secolari, che per avere accolto tanti principi e monarchi, sarebbe stato adescamento al genio del forestiere, non meno che del cittadino.

Di questa casa fiori il Doge Nicolò Tron, di grand’animo, generale di armata, e vincitore più volte del Trace per l’alleanza di Ussuncassan di Persia, il primo ed ultimo fra i principi, che si arrogò il poter dei Monarchi, annullato dalla Repubblica con una delle tante promissioni ducali, che esinanirono l’autorità ducale. A lui faceva sorgere il figlio Filippo, senatore, nella chiesa dei Frari il deposito sepolcrale, sulla parete sinistra della cappella maggiore, rimpetto a quello del Foscari, scompartito in quattro ordini, sopra il basamento, con diciannove simulacri. È opera insigne della scuola dei Bregni, decantati precursori dei Lombardi, la vita dei quali pone in luce evidente il Cicognara nella storia della scultura. Ciò a proposito di chi, per toglier fede al Sansovino, che indica un Antonio Bregno architetto della scala dei Giganti, vorrebbe fosse a tenersi il Bregno non più che come un soprannome del Rizzo, ritenuto architetto in cambio di quello. Curiosa idea di volersi distruggere un’esistenza effettiva, se pur risultasse che fosse un altro l’autor di quell’opera.

Sul chiudersi del IX secolo, fu di questa casa il Doge Pietro Tribuno, o Trono. Egli fortificò nell’interno le isole Realtine, quando i Tartari Ungheri invasero il Friuli italico, ed armò più flotte per debellarli sul lido di Pelestrina, in faccia al porto di Albiola. Dopo la sconfitta in Rialto di Pipino colle francesi bande, fu questo del nome veneto uno dei più gloriosi trionfi. Questo palazzo è ora della casa patrizia dei conti Dona dalle Rose. (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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