Palazzo Morosini Gatterbourg a San Stefano, nel Sestiere di San Marco

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Palazzo Morosini a San Stefano. In "Venezia Monumentale e Pittoresca", Giuseppe Kier editore e Marco Moro (1817-1885) disegnatore, Venezia 1866. Da internetculturale.it

Palazzo Morosini Gatterbourg a San Stefano, nel Sestiere di San Marco

Di stile gotico-moresco, sorgeva questa magione un tempo, e ne conservano ancora l’impronta alcuni davanzali, e la porta di un terrazzino, respicienti un cortile interno. Confermano il fatto i registri dell’estimo del Comune, in cui si legge allibrato un Andrea Morosini da San Stefano, appunto in quel torno, cioè nel 1739. Un’asserzione poi del Boschini nelle sue miniere della pittura, che questo palazzo fosse tutto dipinto esteriormente da Antonio Vassilacli, detto l’Aliense, e si con cambiassero quegli affreschi in tanti sassi, ci richiama al fatto, che ignoreremmo d’altronde, che un’altra fabbrica esistesse intermedia all’antica, e a quella che di presente sussiste.

Semplice è il disegno dell’attuale, e al mancante lusso architettonico sopperisce la copia dei monumenti, che contiene e rappresenta, e meglio ne rilevano il lustro. Né sarebbe stranezza il pensiero, che l’architettura cedesse le sue ragioni al limitare di questo edificio, veduto il grande arco dorico, in aria quasi di trofeo, a colonne e pilastri, con fregio al di sopra nell’architrave e frontone, e con emblemi guerreschi. La facciata di fianco è di forme migliori del prospetto sul rivo, con basamento squadrato a bozze, e con poggioli negli ordini, e finestre architravate. Fu il Selva, che la corresse, col togliervi il tritume di ghirlande e di fregi, che accusava la decadenza del gusto. Del difetto di euritmia è poi d’accagionare l’irregolarità dello spazio; ma chi si affaccia al cortile, con ringhiera colonnata, vede che non ha mancato il genio del bello nei signori dell’edificio, come si può di leggeri comprendere, penetrando nell’interno.

Di Orazio Marinali sono le statue di marmo su piedestalli di pietra d’Istria, che raffigurano le arti sorelle, con Palladio, Vittoria e Tiziano. Il grande atrio è singolare fra le dimore patrizie, ricco delle insegne di valore degli avi. Lo stemma dei Morosini è grandioso per dorature ed intagli, con figure ai lati e trofei, e con pileo e squadrone. Si vedono disposti in ordine sulle pareti, targhe, lance e picche, e nove bellissimi fanali da galee, della mole di mezzo uomo, ottangolari, cilindrici, con tettarelli rigonfi, e limpidissimi cristalli tra loro insistenti sul dorso, opere dell’ arte vetraria, di cui, al pari di tante industrie, fu Venezia dagli stranieri spodestata.

Tre fanali, sorretti da cornucopia, coi timpani del bordo, e i rostri della poppa a banderuola, additano la capitania, o la nave del duce, quale si nota di frequente sotto i ritratti dei veneti generali. Da questo atrio avviandosi alla scala, si comincia a passeggiare, a così dir, per la storia. Nella sala principale, nel sito precisamente, in cui si vuole nascesse il Pelopponesiaco, sta l’armeria, unica che si conservi di tante, che esistevano nei palazzi. Su quell’origliere, chermisino posa il berretto ducale del Morosini; vi si scorgono lo scettro e la spada, che brandi per l’onore della Repubblica nei quindici anni di guerra, che gli valsero i conquisti di Morea, Nicopoli, Santa Maura, Corone, con varie terre di Dalmazia, e Modone, Napoli di Romania, Navarino, Corinto, Patrasso, Lepanto, Atene e Salamina, onde si inalberava il vessillo di San Marco in vetta all’Acropoli, tra le rovine del Partenone.

Quella bandiera, con fregi turcheschi, si rapiva all’ottomano; le code crinite sono simbolo del potere, tolto ai pascià. Gli strumenti di artiglieria si schierano, in serie distribuiti, clipei tessuti moreschi, moschetti di curiosa foggia, alabarde riccamente ornate, elmi, visiere e maglie, cappelline o celate, corazzine e falde, bracciali, panciere e tutte le parti delle armature, targhe, rotelle e pavesi, pugnaletti, misericordie, costalicri, daghe, stocchi, lanciotti ed aste, e coltellini, spadaccie e scimitarre in gran copia. E chi osserva gli archibugi a castoni di madre perla, colla guardia, l’impugnatura e la coccia a tarsie di metallo e di avorio, gli stipetti per polvere, le ampie staffe, gli scheggiali, i cintigli e le cornette, può vantare la conoscenza delle condizioni del l’arte bellica nel secolo XVII. Al quale appartengono pure i grossi archibugi in bronzo sul carro, i predati cannoni, i mortaretti da proiettili, i cannoncelli collo stemma del Morosini; a dir breve, sta in piedi un piccolo campo di battaglia, e tutto si trova a sito, come nel tempo, in cui non si era ancora addormito il Leon di San Marco. Quindi si rifà il pensiero sul passato, che sorride fulgido dei più gran fatti, e rivive l’anima, in breve illusoria meteora, una vita di amore e di poesia.

Fuori dell’armeria cinquanta tele dipingono le battaglie dall’eroe combattute, onde estese col valore i confini dei domini veneti nell’Egeo, nell’Arcipelago, sulle coste di Epiro, su quelle della Macedonia, e nell’Attica, fulmine di guerra, a cui la Grecia soggiogata dava un nome, temuto tanto e venerato. Nella sala detta dei diplomi, il busto in bronzo, di stupenda fusione, con piedestallo di marmo di Carrara, era nella sala di armi del Consiglio dei Dieci, decretato dalla Repubblica, vivente ancora il Pelopponesiaco, con esempio unico di onore; e ottenne di averlo in questo palazzo la contessa Elisabetta Gatterbourg, ultima dei Morosini, ed erede delle virtù somme dei gloriosi suoi avi, madre alla superstite contessa Loredana, tenera delle patrie glorie, e specchio di pietà e di patria beneficenza. Quivi, tra frammenti di statuaria, di greco marmo, che il gran capitano recava a Venezia, tolti alle rovine del tempio di Minerva, due delle prime età dimostrano, come si lavorasse venti secoli addietro nella scultura; le quali opere sarebbero utili agli iniziati nell’estetica, massime per lo studio del panneggiamento nella configurazione del marmo. Fu quindi con accorgimento disposto, che il busto in bronzo dell’immortale guerriero avesse nella sala, a cosi dire, un corteo, nelle immagini dei proavi, tredici dei quali si vedono nei recinti insigniti della stola procuratoria, e se ne ricordano ventisette, e stanno sulle pareti, e sopra la porta i ritratti, fra parecchi, di Michele, ambasciatore in Inghilterra e in Francia, del cavalier Tinelli, dei cardinali Marco e Nicolò, uno di Leandro Bassano, l’altro di Francesco da Ponte. E nella sala, ove il Lazzarini dipinse il doge, in figura al naturale, sotto spoglie guerresche, e in paludamento da gran capitano, sta scritto in un lembo della tela, che due volte, come generale, e due come doge, debellò gli Ottomani, di cui fu terrore nell’Ellesponto, a Candia, a Tenedo, ai Dardanelli. Ivi stanno in bell’ordine le immagini di Marin doge di Gentile Bellino, del doge Domenico di Vincenzo Catena, dell’altro doge Michele, del Lazzarini, e di Costanza imperatrice di Serbia, e della bella Tommasina consorte a Stefano re d’Ungheria, che partorì Andrea III, detto il veneziano, serbato all’onore d’incoronare la madre.

Sparsi per il palazzo stanno poi altri oggetti di belle arti, e la copia del dipinto del Lazzarini, esistente nella sala dello scrutinio, che rappresenta l’espugnazione della Morea, dopo che da sommo politico aveva il Morosini sostenuto la dignità del nome veneto, colla cessione di Candia. Atto questo, che, tenuto dapprima come arbitrario dall’invidia dei malevoli, lo faceva soggiacere a gravi peripezie, al carcere perfino e allo spoglio della stola procuratoria, ma poscia, risguardato come gloria dalle Corti di Europa, e anzi rarissimo esempio in tutte le storie dei popoli, gli valse l’egual trionfo di Vittore Pisani, e colla restituzione della stola procuratoria, il principato della patria. E come dubitarsi infatti di quello eroico patriottismo che lo fece scendere più volte dal trono, avanti e dopo l’incoronazione, per continuare le battaglie di Malvasia e Negroponte, che non avrebbero avuto esito infausto, se non perdeva egli la vita, nel 1694, in Napoli di Romania, da dove, a spese della famiglia, si trasse a Venezia la salma imbalsamata, che si deponeva nel tempio di San Stefano, sotto ingente valva di bronzo; opera del celebre scultore Parodi.

La pinacoteca di questo palazzo è suntuosa, contenendo opere di Rosa da Tivoli, di Tirabosco, di Paris Bordone, dei Bassani, dei Vivarini, di Gherardo delle Notti, tra bei fiamminghi, alcuni in pietra di alabastro, e del Basaiti, del Pissolo, del Parmigianino, del Giambellino, di santa Croce, di Andrea Schiavone, del Tintoretto, del Bonifazio e del Sassoferrato. Quest’ultimo dipinto, guasto assai dal cristallo, che danneggia sempre le pitture ad olio, sta nel sacello, ove l’inginocchiatoio, a rococò, era ad uso nella galea del capitan generale. E questo palazzo pertanto un vero tempio dell’arti, una vera reggia di gloria in cui respirò le prime aure della vita uno dei più grandi eroi del secolo XVII, che conquistò 37 piazze fortificate, il cui solo nome basterebbe alla fama e alla immortalità di un popolo, e che fu nuovo Sebastiano Venier, e colse gli allori di Carlo Zeno e di Vittore Pisani. La progenie del quale, se in oggi, per mancanza di linea, si estinse, non à fine però nella memoria, ma vivrà eterna nella riconoscenza di Venezia. (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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