Palazzo Contarini dalle Figure a San Samuele

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Palazzi Contarini Dalle Figure a San Samuele. In "Venezia Monumentale e Pittoresca", Giuseppe Kier editore e Marco Moro (1817-1885) disegnatore, Venezia 1866. Da internetculturale.it

Palazzo Contarini dalle Figure a San Samuele

Due vecchi autografi dell’archivio domestico c’istoriano abbastanza tutte l’epoche di questa fabbrica. Gotica ne era in origine la struttura, e ne avanzano visibili orme in alcune merlature del cortile, e nella forma in cui si connettono le trabeazioni nell’atrio. Da un quaderno ci viene indicato il recupero che fecero i Contarini di questo Palazzo, nel 1448. Si vede proprietà di una Marina Venier, vedova di Marco, che lo vendeva al patrizio Nicolò Cocco, con istrumento 1 dicembre 1447. Un Jacopo Contarini aveva già offerto all’Uffizio dell’Esaminador di comperare lo stabile allo stesso prezzo, e per ragion di confine gli fu deliberato l’acquisto per prelazione. In quel documento sta descritta una casa da stazio, con due case da saccenti, o ad uso di famigli, con corte e adiacenze, nel confine di San Samuele sul canal grande, e si nota il prezzo della delibera di ducati 70 di grossi. È chiaro dunque, o che quella fabbrica era allora di piccolo corpo, o in stato di ben grave deperimento, e che si rese poi di maggiore rilievo per ampliazioni ed aggiunte, finché assunse in processo di tempo forme gentili e appariscenti, secondo il gusto, che si svolse più corretto nell’arte. È certo, che circa il 1504 si lavorava nell’edilizio, perché risulta il fatto dai molti atti, che seguirono e si conservano in famiglia sulle controversie coi Lezze confinanti, per usurpo di alcuni diritti di possesso in quell’area; questioni, a quei tempi frequenti. Sorse però finalmente il prospetto, e si innalzava stupendo in felice stagione, quando fioriva il magistero dei Lombardi. Quindi l’opera è forse d’attribuirsi ad Antonio, figlio di Pietro, nel periodo che viene segnato dal cav. Diedo, con giusto termine, cioè, allora che l’arte, non salita peranco al pieno meriggio, era avanzata non poco oltre l’aurora. E quanto non fa pompa in vero di leggiadria e di eleganza quel prospetto sulla svolta del gran Canale, avendo a destra il primo dei quattro Palazzi Mocenigo, il gotico dei Lezze alla manca, e quasi di fronte il rustico dei Grimani Papafava! E sia che si vagheggi nelle proporzioni, o nello stile del rinascimento, si ammira in tre ordini di pilastri agli angoli, con capitelli lombardo-jonici, ai quali corrispondono i laterali del centro. La faccia è tutta rivestita di marmo. Il primo ordine, che ha quattro finestre arcuate, fa mostra di parapetti, con rotondi nel mezzo, incrostati di porfidi. I vani fra le dette finestre si vedono incrostati, tra ornati a rilievo di marmo fino, da un quadrato e ritondo in porfido, a cui fa capo un grazioso cherubino. Si direbbe quasi, che nel passaggio, subito dall’arte in quel torno, se pur si vede ancora un’imitazione di arabeschi, questi assumessero più gentile la forma nelle belle sculture dei lati. Anche nell’ordine secondo, le finestre sono arcuate lateralmente a cornici, e frontoni rilevati, con colonne scanalate di pietra, adorne di capitelli jonici. Nel mezzo poi il poggiolo è a quattro archi, sostenuti da cinque colonne scanalate, di marmo greco salino finissimo. È d’avvertire però, che ad esse non sembrano gran fatto corrispondere le ben alte basi di sostegno, di semplice pietra, e di lavoro greggio, senza ornati, che quasi partecipano dello stile gotico originario. Arresta bensì le attenzioni degli studiosi la forma dell’arco, con cornice, che sovrasta ai capitelli lombardo-ionici, ed è d’un lavoro sì bello, da far risaltare il pretto stile palladiano. Anche nei vani del secondo ordine, e in quelli del terzo appariscono delicate le sculture negli ornati agli stemmi, che per altro mancano di tracce, a così dire, araldiche. Il cav. Diedo, con fina delicatezza, le descrive come fusti di albero, che mostrano alcuni virgulti uscir dai capi dei rami recisi, ma senza le insegne gentilizie, che un dì saranno state sottoposte all’uccello di Giove. Noi ci scosteremo poi d’alcune di lui opinioni sul carattere e il merito di qualche porzione della fabbrica, parendo fosse tratto in parte il dotto uomo in errore da chi elaborava il disegno. Poiché conveniamo con lui, che il traforo del parapetto nelle balaustrate del poggiolo sia gentilissimo, e senta il sapore delle delicate maniere etrusche, ma non vedano come possa dedursi, che fu cavato ingegnosamente il disegno dal fregio, che manca nella cornice, ed è di corona all’edificio, di semplice stile toscano. Né ci sembra che tutti si possano pure uniformare sulle prime al giudizio circa l’introduzione delle due teste, che sul disegno nell’opera delle fabbriche cospicue si ammettono quali mezze figure, e stanno nell’arco della riva d’approdo, frontato a cornicione, con pilastrini lisci alle parti. Infatti, lungi dall’entrare esse in sussidio delle lunette, se anzi scappano dalla cornice della porta, per far l’ufficio di cariatidi, e, come il Diedo medesimo osserva per meglio sostenere il poggiolo sporgente, si scorgono sottoposte troppo immediatamente al poggiolo che fa parte dell’ordine e che terminando a sesti pensili le racchiude ed innicchia. Apparirebbero invece ornamento isolato, e senza nessuna relazione estetica col complesso dell’opera. Forse da quelle teste, o testiere, secondo il Sansovino, derivava al casato il soprannome delle figure, per distinguere questo ramo dei Contarini dagli altri. Adotteremo meglio questo avviso, anziché ammettere l’appellativo per quelle figuracce barocche di legno, senza alcun significato, dell’atrio d’ingresso, due delle quali furono trasferite e si conservano nel vestibolo dell’antica casa dominicale, posseduta tuttora dal co: Marco Contarini, in calle dell’arco a San Antonino.

L’insieme della fabbrica, è giudizio del cavalier Diedo, che pecchi di secchezza, senza mancar di eleganza, e vorrebbe poi attribuirne il disegno a qualche autore, proveniente dalla scuola di Bramante. Ammessa la prima parte, non vedremmo in verità come ammettere il carattere di Bramante, che si distingue piuttosto per la ricchezza, e ne abbiamo un esempio in quel prospetto del palazzo ducale, così straricco di ornamenti, che sovrasta alla scalea dei giganti. Possiamo però travedere con sufficiente chiarezza, che egli vagamente opinasse, e quasi per incidenza, non intendendo rinunziare affatto al concetto più positivo che l’edificio fosse opera di qualcheduno dei Lombardi, come a prima giunta si scorge. Per un arco d’ingresso a colonne scanalate superiormente, con frontone a cornice, e capitelli jonici, si salgono scale comodissime, che danno accesso agli ammezzati. In uno di essi è bello il camino di marmo bianco veronese, con riporti di marmo venato rosso di Francia, e con figure che fanno l’ufficio di cariatidi, di bel lavoro ai lati, in marmo di Carrara. Tra gli altri è splendido un camino colossale di marmo venato di Sardegna, ricco nella parte superiore di fregi e figure, in stucco, alla Sansovinesca. È ornamento ben dicevole a una stanza veramente suntuosa nel piano nobile, alla destra, pure a disegno Sansovinesco, con lavori magnifici d’intaglio all’intorno del fregio, e rivestimenti d’oro nelle trabeazioni. Nel detto fregio tramezzo stanno varie tele del Palma Juniore, e vi hanno specchi grandi, cornici intagliate, mobilie con sfarzo di dorature dello stile di Luigi XIV. Nella stanza, che era tutta rivestita di seta, sussiste ancora il plafone, dipinto a fresco da Giov. Batt. Gedini, seguace della scuola del Tiepolo: altri quattro soffitti si vedevano dipinti dal Malombra. Un tempo varie tele di celebrati pennelli abbellivano questo Palazzo, e si ricorda una serie di ritratti dei personaggi del casato, di ambidue i sessi. Il quadro, p. es.  che ne rappresenta alcuni, nel relativo costume, riuniti in una tela genuflessi innanzi la Vergine, avente il divo infante sulle ginocchia, è fattura di Jacopo Palma juniore. Un ritratto del celebre cardinale Gaspare Contarini è di Jacopo da Ponte, detto il Bassano. Vi ha l’effigie di Francesco Contarini, giurisperito e filosofo, in grande pelliccia, di Giov. Batt.Moroni, e il ritratto, che di sé stesso faceva il Tintoretto, e passò poi in una stanza secreta della Procuratia de supra, secondo riferisce il Zanetti nella sua opera sulle pitture a  fresco dei Palazzi. Preziosa era la galleria di pitture, quando viveva il dottissimo Jacopo Contarini gran mecenate delle lettere e delle arti, che faceva sempre eseguire opere da artefici contemporanei. Anche in un codice miscellaneo della Marciana sta una lettera autografa di Benedetto Caliari, che descrive un quadro allegorico in rame, eseguito per commissione del dotto gentiluomo. A lui perciò veniva commessa dal Senato la cura delle pitture nel Palazzo Ducale da sostituirsi ai capolavori sgraziatamente per la storia delle arti periti nell’incendio del 1575. Jacopo è quegli che legava al Maggior Consiglio la sua galleria ed ai suoi lasciti aggiungeva una collezione Bertucci Contarini del fu Girolamo, disponendo in morte i quadri tutti del portico da basso di questo palazzo presso la libreria, come sta scritto nel testamento 12 giugno 1713, atti notaro Fratina, pubblicato secondo il costume, presente il cadavere, nel 27 dicembre dell’anno stesso. Il detto Contarini Bertucci che istituiva di questo palazzo un fideicomisso perpetuo, si segnalò nel ministero e nelle legazioni alle Corti, e si ricordano anzi nell’atto di ultima volontà vari oggetti portati da Roma e da Costantinopoli, per esempio il Giamberlucco di tigre del gran serraglio, regalo dell’ambasciata, la romana con pelli di volpe e la dogalina di velluto, che lasciava al nipote, acciò la portasse nel quarantanno. L’illustre cavaliere era pur modesto e pio, e ordinava che per non dar incomodo di corrotti, a nessuna casa di nobili non si mandasse il ballottino ad annunziar la sua morte, e che fosse sepolto senza pompa in abito cappuccinesco nel tempio del Redentore, poiché gli era quell’Ordine claustrale carissimo, come lo fu agli avi suoi, che per la votiva fabbrica donavano un palazzo suntuoso con alcuni orti alla Giudecca. Il Sansovino nella Venezia fa inoltre menzione della rara biblioteca di Jacopo Contarini, che con notabilissima spesa raccolse tutte le storie stampate e manoscritte universali e particolari della città, molti volumi di scienze, gran serie di strumenti matematici e di macchine e di copiosi scritti suoi propri.

Tutta la quale ricchezza donava egli al Senato, insieme ai manoscritti ed ai bei testi greci, dando aumento così alla Biblioteca pubblica che fondata fu dal Petrarca, e che per trentamila zecchini di codici veniva dopo ingrandita dal cardinale Bessarione. E qui per dare una illustrazione ulteriore dopo il già detto acconciamente nel Palazzo dei Mocenigo, noteremo che Jacopo Contarini ebbe dal Senato la ben grave missione di allestire la pompa per l’ingresso di Enrico III, che riceveva un elogio dal Monarca per i suoi talenti in Senato e una ben grande onorificenza, poiché ammesso il re tra i Senatori a cavar balla d’oro in Consiglio, lo nominava di Pregadi. Per la qual distinzione riconoscente il Contarini fece ritrar di soppiatto quel Sovrano nel Bucentoro per il pennello del Tintoretto; del qual fatto toccammo nella descrizione dei palazzi Mocenighi. Questo Palazzo si vendette al marchese Ignazio Guiccioli di Ravenna. Qui nacque il co: Nicolò, figlio del Senatore Bertucci, che coltivò con onore sommo lo studio di più rami della storia naturale, ed era amico di celebri naturalisti ed intimo dello Spinola, di Voeldicke e Genè di Turbigo, zoologo, e del naturalista illustre Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino; e morendo il 16 aprile 1849, già membro dell’ I. R. Istituto di scienze, lettere ed arti, legava al Museo Civico Correr la sua serie di volatili indigeni europei, di conchiglie, d’insetti, il ricco erbario e i libri agli studi attinenti. Come non ultima memoria di onore accenneremo al fatto, che l’immortale Andrea Palladio, nell’intimità di Jacopo Contarini, in questo Palazzo abitava ogni volta, che si recava in Venezia, e quindi alla morte dell’architetto rimasero in famiglia disegni di templi antichi, di archi, di sepolcri, di terme, di ponti, di specule e di altri edifici pubblici dell’antichità, che formarono parte delle preziosità regalate alla Marciana. Le quali più apprezzabili ancora risultano per avere appartenuto agli studiosi esercizi di chi lasciò anche tra noi in fabbriche insigni le impronte del genio, onde qual principe nell’arte è riverito dal mondo. (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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