Palazzi Mocenigo a San Samuele

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Palazzi Mocenigo a San Samuele. In "Venezia Monumentale e Pittoresca", Giuseppe Kier editore e Marco Moro (1817-1885) disegnatore, Venezia 1866. Da internetculturale.it

Palazzi Mocenigo a San Samuele

Questi palazzi sono quattro uniti in corpo, e alcuni documenti di famiglia danno ragione, perché si ammetta la distinzione di Casa nuova e Casa vecchia, nomi che tuttora si vedono nelle calli, per cui si aveva ingresso in antico alle abitazioni dei Mocenighi. Infatti una sentenza della Corte del Proprio, in data 25 febbraio 1588, per liti contro Dardi e David fratelli Bembo, per pretese di spazi, riferisce che Giovanni e Nicolò fratelli Mocenigo del fu Leonardo procuratore acquistarono nel 1454 da Pietro e Alvise Falier, in Atti Pagiarini nodaro Veneto, alcune case nel confine di San Samuele. Demolite queste, si fabbricava un palazzo, in prossimità a quello, che i Mocenigo tenevano anche allora in possesso. Troviamo cosi spiegato il motivo, che nel primo piano della Casa, appellata vecchia, si scorge lo stile lombardesco, e per quale cagione sussista una cisterna, dello stesso carattere, collo stemma scolpito sopra dei fiamminghi Bembo Gheltorp. E volgendosi a sinistra, non ci sorprende più il rinvenire vestigi anche di stile gotico nei comparti, nei davanzali, prospicienti un cortile, e in un pozzo, pure gotico, come di vedere reliquie di architettura del medio evo nelle fabbriche confinanti dei Priuli e dei Contarini. Il continuatore della Venezia del Sansovino qualifica questi due palazzi memorabili e di gran corpo, e ci narra che al suo tempo erano possesso di Giovanni, fratello al Doge Luigi. Quello alla destra à la facciata di marmo greggio d’Istria, a forme riquadre, e bozze squadrate; l’arco della riva è assai svelto; tre sono le finestre del poggiolo nel primo ordine, delle quali è arcuata soltanto la media. Vi sta una balaustrata a colonnelle; i modiglioni simmetrici a volute mancano di ornamento; le doppie finestre ai canti, a frontoni orizzontali, hanno fra mezzo intagliati gli stemmi. La cornice superiore, uniforme al piano secondo, appartiene all’ ordine toscano.

Il secondo palazzo, alla sinistra, à tutte le finestre arcuate, coi poggioli a tre archi, e sì nell’ordine primo che nel secondo le finestre centrali sono sorrette da colonne di pietra d’Istria, decorate da capitelli toscani. In ognuna delle arcate si vedono mascheroni rilevati alla sommità; la cornice è pure di ordine toscano. Forse mirava l’architetto a far armonizzare le due fabbriche, nella stessa loro disparità. Parrebbe che il primo palazzo accusasse la scuola del Vittoria, rimanendo però alquanto inferiore nel merito all’ altro, che vedemmo dello stesso architetto, tuttora dei Balbi in Volta di Canal. Il secondo palazzo indicherebbe la scuola del Longhena, vincendo però il pregio della mole, che con assai poco merito si disegnò da Baldassare, per i Widmann di San Canziano. La Venezia e sue lagune lo crederebbe meglio architettura del Benoni, che disegnò la Dogana della Salute, e la chiesa di San Basso, nella piazzetta dei Leoni.

A questi edifici sono posteriori gli altri due, che vennero uniti nel centro, aventi pronunziati i caratteri del decadimento dell’arte. Si doveva dar compimento alle fabbriche con cornicioni e riquadri, come aveva ordinato un Zuanne Mocenigo, con testamento del 1579. Il Martinioni li ricorda quali fabbricati nuovi, e ne esalta l’architettura, fino a dirla mirabile per ornamenti vaghissimi. Ma giovi avvertire, che egli vorrà intender di alludere alla qualità degli affreschi, pennelleggiati da mani maestre.

Infatti troviamo nelle miniere della pittura del Boschini, che Benedetto Caliari, fratello di Paolo, più valente nei lavori a fresco, che ad olio, e molto studioso in particolare dell’architettura, aveva dipinti al di fuori della Casa Moceniga, sopra il Canal grande, tutte a chiaroscuro varie istorie dei romani, con fregi, putii ed animali. Anche sopra la riva erano dipinti dei chiaroscuri, opere di Giuseppe Alabardi detto Schioppi, con maniera sua propria e non dispregevole, e due o tre figure, al tempo del Zanetti, rimanevano nel cortile, forse le attuali, non molto bene rinfrescate. Ivi le sfumature, visibili per tutta l’estensione delle muraglie, ricordano le opere più lodate di Benedetto Caliari. Si rileva poi dal Ridolfi, che in cinque maggiori comparti erano dipinte parecchie storie di Roma, e in cinque spazi minori alcune favole Ovidiane.

Il detto cortile è di aspetto scenico; in esso verdeggiano dei gelsi antichi, tolti all’orto di un palazzo Mocenigo a Murano; vi sono sparsi dei busti marmorei, taluno anche di qualche pregio, di provenienza dalla casa Memmo. Per questo cortile si giunge al piano nobile, per ricco arco d’ingresso, che si estende maestoso, con grande cornice a frontone, e con due figure di geni nei riquadri. Le colonne sono scanalate, di marmo fino veronese, adorno di capitelli corintii, con base e zoccolo del marmo stesso, specchiato nel dado di Africano, come lo è il fregio superiormente.

Le sale appariscono ornatissime; le trabeazioni, alla Sansovinesca, intagliate e filettate d’oro, con dorata cornice, con putti nel fregio, sculti in legno, a foggia di cariatidi. Il Tintoretto dipinse in quelle sale le imprese e le immagini dei Mocenigo educati sempre alla grandezza, che furono eroi nei più ardui cimenti di guerra, politici nelle più gravi missioni di Stato, ambasciatori alle Corti più eccelse di Europa, della patria nerbo e salute, alla testa ben sette volte del Principato. Una stanza à le pareti vastissime di stoffa di velluto a disegno; è ricca di lavori a rococò, del tempo di Luigi XIV; contiene, con gran sfarzo di dorature, vasi di porcellana del Giappone, ornati in bronzo, e candelabri di cristallo di rocca. Stanno effigiati cinque dei sette Dogi della casa, che colle armi e col senno zelarono l’onore della patria, compreso quell’Alvise, che ai propri dipendenti, sì in guerra che in pace, rinunziava gli emolumenti delle magistrature, e anzi se gli assegni risultavano inferiori alle esigenze di quelli, che intendeva beneficare, vi sopperiva con ingenti somme, tolte alle rendite proprie familiari. Ne mancano i ritratti di Senatori e di gran Capitani, opere di Domenico Tintoretto e di Giorgione; quello di un generalissimo del cav. Tinelli; quadro in bella cornice, con trofei, in tagliati all’intorno, di legno cirmolo. È un dipinto del Liberi, bello quanto potrebbe esserlo un fiammingo, il ritratto del Doge Tomaso Mocenigo, l’antecessore del Foscari, quel portento di previdenza e facondia, cotanto dagli storici decantato, che anche moriente aveva in cuore la pace e la prosperità della Repubblica, fiorita nel suo regime soprammodo, per traffichi e per ricchezze. Tempi felici, in cui si potevano diffalcare quattro milioni di prestiti, e trasmettere dieci milioni ogni anno di capitale, con navi e galere per tutto il mondo, battendo ogni anno la Zecca un milione di ducati d’oro, e duecento mila d’argento. Volgendo in queste sale lo sguardo, ti incontri in Lazzaro Mocenigo, e nelle sue imprese, uniche nella storia. Il pennello di Palma Juniore ti rappresenta al vivo quel novello Scipione, che, di 32 anni appena, insieme a Luigi II, detto Leonardo, generalissimi entrambi, concepiva il magnanimo ardimento strategico di sbarrare colla veneta flotta il procelloso stretto dei Dardanelli, per vietare l’ingresso alle navi ottomane, e rotte le falangi del Trace, atterrire Costantinopoli. Tali imprese si scorgono ripetute dal Malombra nelle due stanze, che ad uso della biblioteca, sono descritte dal Sansovino, come copiose di volumi greci e latini, quando Luigi, Marc’Antonio e Leonardo vi tenevano lo studio di codici e di anticaglie.

In questi recinti si conserva anche la tavola del Tintoretto, rappresentante la morte del re Lusignano, colla regina Corner da un lato, e Pietro Mocenigo, che figurò in Cipro luogotenente. Molti altri nobili dipinti fregiano le pareti, e sono l’Adultera di Nicolò Barbaris, contemporaneo del Giambellino, unico in tavola di questo pittore in Venezia; una sacra famiglia del carattere del Bonifazio, una testa fiamminga; la visita dei Re Magi di Buonconsiglio, un’altra sacra famiglia, con Santi, di Giacomo Carassi di Pontorno, della scuola fiorentina. Possedè anche la famiglia un quadro, in piccole dimensioni, che rappresenta il Paradiso del Tintoretto, e si pretenderebbe che fosse il modello della tela, che si ammira nella sala del Maggior Consiglio, di trenta piedi di altezza, e settantaquattro di latitudine. Miracolosa opera, a parlar della quale l’intelletto non sa dettare espressioni alla penna, e che scoperta la prima volta, parve si aprisse il cielo agli occhi dei mortali, con tutti i misteri della beatitudine eterna. Noi però ne dubitiamo, per buone ragioni, non di questo luogo. Quivi bensì si custodiva lunghezza il ritratto di Enrico III, quale, con sorpresa del Monarca, lo improvvisava Tintoretto, nascosto nel Bucintoro; argomento di un bel dipinto ai dì nostri, del Paoletti. Questo quadro, donato dal re al Doge di allora Luigi Mocenigo, passava alla casa del consanguineo Jacopo Contarini di San Samuele, a cui si completa, avendolo egli commesso al pittore, e da lui si legava in morte al Palazzo Ducale, ove è di fregio oggidì della sala degli stucchi.

Ciocché si pone in chiaro, a toglimento di equivoci, sulla tanto controversa provenienza del dipinto. Un ritratto si conserva anche, opera del Longhi, di Andrea Memmo, riformatore dello studio Patavino, e cavaliere della stola d’oro; quegli che un prato in Padova converse in Areopago, e meritò di figurarvi fra i simulacri de’ più insigni Italiani. Egli era padre della fu contessa Paolina, vedova Martinengo Dalle Palle, di santa vita, e della contessa Lucia vedova di Alvise Mocenigo, di molto ingegno, mancata in questo Palazzo il 7 marzo 1854. Delle due sorelle si vede il ritratto, fattura di Angelica Haufman, e risale alla primissima loro età, quando, essendo il padre ambasciatore a Roma, ricevettero la cresima dalle mani di Pio VI, nella Cappella Sistina, con treno di Cardinali, e coll’intervento del re di Svezia; della qual cerimonia si tocca in alcune Ottave, fatte pubbliche per l’ ingresso del Memmo a Procurator di San Marco.

Un buon ritratto del Guarana ricorda il consorte della contessa Lucia, che fu Alvise Mocenigo, magnate di Ungheria e senatore d’Italia, quegli che su inospita maremma creava del proprio un nuovo centro di commercio e d’industria, in Alvisopoli, collo stabilimento tipografico, tradotto in uno di questi palazzi, e ceduto poi, col patto del nome, a Bortolammeo Gamba, accademico della Crusca, e principe dei bibliografi italiani. Né manca il busto in marmo di Carrara, opera del cavalier Ferrari, del dott. Alvise, figlio ai suddetti, attuai proprietario; cavaliere di gran senno e di fina coltura, che varie legazioni sostenne alle Corti, e in più guise si rese utile in patria con l’ opera e col consiglio, anche a prò della civica rappresentanza.

Dai veroni di questo Palazzo, che tante volte ospitava principi e monarchi, videro la Regata i duchi del Nord, e vi avrebbe goduto lo spettacolo, unico al mondo, Napoleone I nel 1807, se a cagione della miglior prospettiva del sito presso i Balbi in volta di Canal, non si avesse mutato consiglio da chi dirigeva le feste. E i Mocenigo, splendidi sempre, ben lungi dall’aver tollerato, che la città ne facesse la spesa, avevano anzi erogato egregie somme del proprio, acciò fosse sorta, in quel caso, condegna loggia sull’acque al loro Palazzo dinanzi, con ogni pompa di principesco apparato.

In queste aule abitò lunga pezza, nel 1848, il celebre lord Byron. Quivi avevano vita i canti del Don Giovanni, il Marin Falier, il Sardanapalo, la visione del Giudizio, e fra l’amor gentile a Venezia, ai più sublimi voli s’innalzavano la musa ed il genio dell’inspirato poeta. (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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