Pietro Tradonico. Doge XIII. Anni 837-864

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Pietro Tradonico. Doge XIII. Anni 837-864.

Deposto ingiustamente Giovanni Partecipazio, i comizi elessero doge Pietro Tradonico, o Transdominico, uomo, secondo pare, di merito grande, se ottenne i voti concordi di tutti i partiti. E più ci sembra tale, se vero è, secondo alcuni cronacisti, avere egli rifiutato tanta dignità, per lo sconvolgimento in cui vedeva trovarsi gli animi dei suoi concittadini. Accettò alfine, mosso dalle preghiere di questi, ed allora sollevato sulle braccia dei nobili venne acclamato doge; e tosto gli fu concesso, ad onta degli esempi tristi passati, di associarsi al potere il figlio Giovanni.

Scorsi circa due anni, dovette egli accingersi a reprimere le piraterie dei Croati, collegatisi coi Slavi Narentani; ed uscito perciò egli stesso dal porto con poderosa flotta assalì innanzi tratto le coste della Dalmazia, e dal procelloso seno del Quarnaro proseguì fino a Ragusa, riducendo al dovere tutte quelle tribù; sicché fu obbligato Miroslao, loro principe, che dominava, forse, l’isola di Curzola, recarsi supplichevole ai piedi del doge, e chieder pace. Tradonico quindi approdava ai lidi di Narenta, ove abitavano i Mariani o Marianini, tra tutti gli Slavi i più forti e i più molesti, e costrinse il loro capo, appellato Drosaico, ad accettare le condizioni che a lui vennero imposte.

Ritornato in patria glorioso, poco poi dovette venire ancora alle prese coi primi. I quali ucciso Miroslao ed eletto Turpimiro, rinnovarono le assuete piraterie; per lo che fu il doge obbligato ad una nuova spedizione, l’esito della quale non fu, come la prima, felice; per lo che ripatriava inglorioso.

Ma una spedizione maggiore, e una sconfitta più grave, accadde secondo gli storici nostri, il seguente anno 840. Il greco augusto Teofilo, che mal poteva difendersi dai Saraceni, perpetui infestatori della Sicilia, cercò nuova assistenza dai Veneziani, ai quali spediva Teodoro patrizio, inviando al doge il titolo cospicuo dì protospatario imperiale. Quantunque ardua fosse, per molti riguardi, l’impresa, a cui erano invitati i nostri, pure, guardando il doge l’interesse precipuo della cristianità e della Repubblica di domare quei barbari, decise, col consentimento della nazione, di prestare il  domandato soccorso. Laonde, allestite con ogni sollecitudine sessanta navi, che, secondo pensa Filiasi, erano della specie di quelle appellate dromoni, portanti ognuna duecento guerrieri, e munite di macchine ossidionali e di torri, furono inviate alla volta di Taranto, ove si unirono alla fiotta greca. Poco stettero i Saraceni ad incontrarla con quella comandata da Saba loro duce. La battaglia che quindi s’incagliò fu aspra e terribile, dalla quale uscirono vincitori i Saraceni; per cui poterono tosto penetrare nell’Adriatico, dar alle fiamme Ossaro ed Ancona, e spingersi fino alla baia non lungi  dall’antica Adria, e perciò distinta col nome di Porto adriense, ritirandosi alfine al l’uscita del Golfo, ove rapinavano le navi veneziane, ritornanti in patria dall’Oriente o dalla Sicilia.

Non accagionarono i nostri della toccata sconfitta il doge Tradonico, forse perché la gravezza del danno oppresso aveva grandemente gli animi; o forse a motivo della stima ed affetto che nutrivano per lui. Il quale, a conservarsi l’amore del popolo, volse l’ingegno per conseguire il rinnovellamento degli antichi trattati con l’imperatore Lotario. Mandava infatti a lui ambasciatore Patrizio, il quale colla interposizione del conte Gherardo, ottenne un diploma, datato a Pavia, per il quale si stabiliva riguardo alle città italiche aventi porto sull’Adriatico, pace e buona amicizia fra esse e i luoghi dipendenti dal veneziano ducato; e ciò per il corso di cinque anni: si stabiliva quindi, fra le altre cose: dovesse cessare ogni correria e molestia a danno delle terre veneziane: si restituivano i fuggitivi, che dopo il precedente trattato di Ravenna ricoverati si fossero nelle terre del regno italico: non potessero i sudditi di Lotario comprare alcun Veneziano, né farne traffico, né potessero evirarlo: i servi fuggitivi, sarebbero restituiti; gli omicidi consegnati: sicuri essere gli ambasciatori e gli epistolari, o corrieri: riconosciuti i confini veneziani, quali erano stabiliti nell’antico patto fermato tra doge  Anafesto e Luitprondo, re longobardo, e confermato poi da re Astolfo : non darebbero, gli abitanti del regno italico, alcun aiuto ai nemici dei Veneziani, cui notizierebbero anzi dei disegni ostili che si formassero contro di loro, e concorrerebbero nella comune difesa contro gli Slavi: avrebbero i Veneziani libero il commercio, pagando soltanto le  consuete gabelle: libero egualmente ai sudditi di Lotario il commercio per mare: potrebbero i Chioggioti tornare liberamente ai luoghi loro (forse della terraferma, come a Conche, Foqolana ed altri villaggi situati sul margine della laguna, donde erano stati cacciati nelle precedenti rivolte): sacri i depositi, le cauzioni, i capitali affidati; esatta  l’amministrazione della giustizia; rispettate da ambe le parti, le chiese; rispettati i monasteri: avrebbero i Veneziani licenza di far legna nei boschi vicini, non però asportandone gli alberi interi: potrebbero pascolare le mandrie loro: da ultimo, fossero commisurate le pene pecuniarie stabilite, secondo le disposizioni delle leggi salica e longobarda, vigenti in Italia.

Dalla vittoria riportata a Taranto, i Saraceni presero baldanza per modo che, scorso appena un anno, ricomparirono con poderosa armata navale nell’ Adriatico, osando spingersi lino al tempestoso Quarnaro ed alle spiaggie dell’Istria.

A reprimere quei barbari doge Pietro fece arredare una nuova flotta, la quale, ascita in mare  s’incontrò colla avversa all’altura dell’isoletta di Sansego, presso a quelle coste. Ostinatissima e cruenta fu la battaglia, dalla quale uscirono vincitori un’altra volta i Saraceni. La sconfitta toccata dai nostri, diede animo agli Slavi, e tanto, che  uscirono pur essi a corseggiare per il Golfo, inoltrandosi perfino ai lidi di Caorle, che misero a ferro ed a fuoco. A munir le lagune dalle scorrerie loro, il doge costruir fece nuove navi, due fra le altre di maggior nerbo e grandezza, che valsero ad allontanare quei feroci corsari, ed a farli snidare dalle coste occupate. Anche i Saraceni, ai quali costò cara la vittoria anzidetta, lunge dall’inseguire i nostri, si erano in quella vece ritirati, recando terrore e stragi fino nelle vicinanze di Roma.

Alle guerre esterne, successero le interne discordie. Poiché il patriarca Andrea di Aquileia, succeduto a Massenzio, tornava ad inquietare quello di Grado, ma riuscì a papa Leone IV di comporre una nuova tregua fra essi.

Morto in seguito l’imperatore Lotario, curarono i nostri ottenere dal di lui successore, Lodovico II il Germanico, l’assueta conferma dei privilegi; la quale fu loro concessa. Quella occasione fece sì che entrasse nell’animo di quell’Augusto il desiderio di visitar le lagune, la cui fama suonava chiarissima. Perciò, in compagnia della moglie Engilberta, si mosse da Mantova, e, pervenuto a Brondolo, fu incontrato ed accolto dai dogi padre e figlio, ed alloggiò nel monastero di San Michele. Indi accompagnato con pompa solenne, con la sposa a Rialto, ammirò le fabbriche, l’operosità ed il vivere dei nostri; e a vieppiù confermare la pace ed amicizia, dimorò tre giorni col doge, e tenne al sacro fonte un figlio di Giovanni, partendo quindi, e restituendosi in Italia.

Ma nuovi sconvolgimenti si preparavano intanto nel cuore delle isole. Da parecchi anni si mantenevano inimicizie tra le nobili case dei Giustiniani, dei Basilii, o Basegi e dei Polano da un lato, e quelle degli Iscoli, o Istolii, dei Selvi, o Silvii, e Barbolani dall’altro; onde accadevano frequenti zuffe ed uccisioni. Intorno poi all’anno 861, erano addivenute sì gravi e perpetue, che dovette il doge porvi riparo, esiliando le Ire prime, secondo narra il Dandolo. Ricorsero esse famiglie a Lodovico imperatore, e colla di lui mediazione ottennero di ritornare in patria, ove eressero le nuove loro abitazioni nella vasta isola di Dorsoduro.

Né per questo cessarono le discordie: crebbero anzi quanto più occulte, tanto più vigorose, e questa volta contro la persona stessa del doge. Sia che vero fosse essere egli stato tolto in uggia da molti per lo sprezzante suo orgoglio, e per qualche atto arbitrario da lui commesso, come riferiscono alcuni cronacisti, ossia per altro motivo; certo è che fu ordita contro di lui una congiura da Giovanni Gradenigo con un suo nipote; da Pietro, figlio di Stefano Candiano; Domenico Faletro, o Falier; Stefano Sabulo, figlio di Domenico; due fratelli Sabiani, Orso Grugnario, Demetrio Labresella, Domenico Caloprino, ed altri. Colto l’istante, in cui il doge usciva, dopo il vespero, dalla chiesa di San Zaccaria, dicono alcuni con ogni probabilità, il giorno di Pasqua, d’improvviso lo assalirono, e, quantunque respinti sulle prime dalle guardie  ducali, pervennero poscia a trucidarlo. Nel comune terrore e nel trambusto di quel tragico fatto nessuno si peritò toccare il lacerato cadavere, e perciò rimase sul suolo, finché, raccolto nella notte seguente dalle pie monache, ebbe tumulo nell’atrio di quella chiesa. Era appena trascorso un anno, che l’infelice doge perduto aveva il figlio Giovanni.

Gli aderenti ed i servi del Tradonico, temendo dei congiurati, si ricoverarono nel palazzo ducale, e colà si fortificarono, e tanto che si legga esser durata la resistenza loro per il corso di quaranta giorni: ma ciò è certo errore di menante, passato poi per ignoranza di critica, in altre scritture. Perciò ci è noto, per testimonianza del Sagornino, che il popolo irato mise a morte alquanti dei rei il dì di San Sisto, vale a dire, quattro soli giorni appresso la Pasqua, in cui accadde l’uccisione del doge. Abbattuto quindi dopo ciò il partito dei congiurati stessi, furono chiamati Pietro, vescovo di Equilio, Giovanni, arcidiacono di Grado e Domenico Massione, affinché instituissero processo contro i colpevoli. Furono quindi rilegati alcuni a Costantinopoli, nel mentre che altri di lor volontà esularono in Francia. II solo Orso Grugnario rimase in patria, forse perché meno colpevole, ma, secondo il Sagornino, fu creduto dal popolo che dal demonio venisse tormentato ed ucciso. Da ultimo, per estirpare ogni semente di scandalo, gli aderenti del doge furono mandati ad abitare nelle isole di Fine e di Poveglia, ove ottennero terre, valli, pesche, pascoli, cacce e paludi, verso annuo censo.

Non ci prendemmo cura poi di narrare due fatti che, quantunque riferiti dalle cronache, sono falsi del tutto. Il primo è la venuta a Venezia del pontefice Benedetto III; il secondo è il dono del primo corno ducale fatto al doge dall’abbadessa di San Zaccaria, Agnese Morosini. Che se del pari non ricordammo un terzo fatto, attestato dal Sanudo e da altri cronacisti, quello, cioè, del soccorso prestato dai nostri ai Veronesi contro gli abitatori del Iago di Garda, ciò fu perché venne da parecchi posto in dubbio, e da altri negato. Giova pertanto considerare, come di questi anni risulti tuttavia la storia veneziana vestita di ornamenti propri sol della favola, parte dei quali, per la loro verosimiglianza, trasse in errore taluno che più si compiacque del meraviglioso, né si curò sceverare il vero dal falso al vaglio della critica sana.

Ostenta il ritratto del doge nel papiro tenuto dalla destra mano il motto seguente:

IN DALMATAS ET SARACENOS MARE SVPERVM INFESTANTES CLASSEM INSTRVXI.
APVD AEDEM DIVI ZACHARIAE INTERREMPTVS OCCVBVI. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia 1861

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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