Palazzo Corner Piscopia Loredan a San Luca
E’ a premettersi l’avvertenza essenziale che l’architettura di questo palazzo, come di quello contermine dei Farsetti, e di altri pochi di tal genere richiama all’età, in cui era in fiore il commercio veneziano coi Saraceni e cogli Arabi, dai tipi delle cui fabbriche fu ritratto il carattere. Si affaccia allora subito allo sguardo la grande relazione di somiglianza anche di questo edilizio a quello più conosciuto sotto il nome di Fondaco dei Turchi, però fatta astrazione dagli ordini superiori, che vennero aggiunti più tardi, forse nel secolo XV, compreso l’anacronismo dei poggioli, che ne deturpano il prospetto, alterando lo stile originario.
Figurava infatti questa facciata quasi un’aperta loggia all’orientale, con un fregio nel centro, esteso per tutta la sua latitudine, e assai più spiccavano le tredici arcate, che la sorreggono, e le quattordici colonne, quali si vedono, di marmo greco, adorne di capitelli moreschi. Lo stile puro gotico-bizantino è infatti rappresentato dal portone, con minareti o torricelle ai canti, con nicchie e ben sculte figure per entro, e con lo stemma, coronato da quella specie di cordone; ingresso, che, a dir vero, meritava sempre di venire aperto pubblicamente al palazzo nella calle Loredan, malamente detta anche Memmo, poiché i Memmo non ebbero mai la proprietà di quel palazzo. Ma volgendosi ha un’altra parte sulla Riva del ferro, è parimenti di puro stile moresco quel vestibolo, con cinque arcate a volto, e quattro colonne di fino marmo, con cappelli gotico-bizantini, di lavoro stupendo, colle dentellature nel contorno delle arcate, e in una faccia sotto il poggiolo, che fanno l’ufficio di decorazione. Splendido è il primo ingresso, e un’arcata di esso mette a cortile spazioso, avente nel mezzo una cisterna col blasone di marmo, altresì questa di puro gusto bizantino. I due atri terreni erano un tempo abbelliti all’intorno del cortile con statue greche, recate dall’ isola di Cipro, per le relazioni appunto coll’Oriente dei Veneziani antichi. Le scale sono nobili, ricche ed eleganti. La sala del primo piano, coi contorni delle porte di marmo, e gli ornati a fogliami ha le colonne del portone di verde antico negli stessi specchi della base incastonato, di rara qualità, con capitelli d’ordine corintio, e con due angeli ai canti; scultura vaghissima. Le vecchie cronache rammentano, che primi d’ogni altro abitassero questo palazzo i Boccasi, oriundi di Parma, detta Crisopoli, città della Lombardia, cinque miglia lontana dall’Appennino, già colonia dei Romani, poi soggetta al dominio della casa Farnese. II loro blasone è raffigurato da tre scaglioni di oro in campo azzurro. Il Cappellari ammette pure nel suo Campidoglio, che stanziassero nella contrada di San Luca, e si rileva aver essi ospitato nonagenario Jacopo Contarini, quando depose il corno ducale, nel 1280. Questo anno sarebbe posteriore all’esterna architettura, che risale al principio del secolo XI. Fa menzione la storia di un Bertuccio Boccasi, elettore degli elettori ducali, che venne punito colla perdita di un casino di delizia in Mestre, perché comperato contro il divieto, che davano ai nobili gli Statuti di estendersi nei possessi in terraferma. Parerebbe, che questo palazzo si alienasse dopo il 1300, in conseguenza ad una restrizione di estimo dei proprietari; tanto è vero, che essi si assentarono da Venezia, non avendo potuto più figurare col decoro degli avi loro. Anzi il Camerlengo Girolamo, passato a Roma in prelatura, era eletto ivi al servigio del cardinale Michele, col grado di protonotario apostolico. In lui, morto nel 1476, mancava la discendenza.
Ai Boccasi succedettero i Zane, di antica stirpe fra i primi tribuni e fondatori di Venezia. Erano della stessa linea, per opinione di più autori, di quei Ziani, guerrieri e politici, che ci diedero i Dogi Sebastiano e Pietro, una delle più ricche e potenti case del secolo XII, estinta nel 1236. Andrea Zane, di San Luca, era indubbiamente proprietario di questo palazzo, e nei suoi recinti albergava ai 5 dicembre 1361, per ventidue giorni, Pietro Lusignano Re di Cipro, avo di Jacopo, che più tardi impalmava Catterina Corner. Perciò quel monarca lo decorava del titolo di cavaliere. Dopo questa epoca, pare che i Zane si unissero ad altri rami, poiché si trovano di casa a Sant’Agostino rimpetto al palazzo smantellato di Baiamonte. Ivi certamente fioriva il Senatore Domenico, detto il Pericle della patria, celebre per l’ambasceria nel 1658 alla Corte di Spagna, ove fu creato cavaliere da Filippo IV, da cui gli era donata l’arma di Castiglia, ché ha la torre d’oro in campo vermiglio, inquartata coll’antica insegna della Volpe. Narra il Sabellico, che in questo palazzo si ospitarono altri Sovrani, e una seconda volta, nel 1365, il re Pietro Lusignano di Cipro. Allora era divenuto proprietà di Federico Corner, detto il grande, per le imprese magnanime, al tempo della guerra di Chioggia. Egli possedeva grandi ricchezze, per molte giurisdizioni feudali, e fu amico intimo del re Lusignano. Sbaglia però il Sansovino nella Venezia, asserendo che il palazzo avesse appartenuto al re di Cipro, e che da lui si donasse alla famiglia di Federico. Si contraddice anzi, essendosi espresso in altro passo della Venezia, dove parla delle feste dei Prìncipi, che era proprietà dei Corner. Confuse certamente il palazzo col castello Piscopia, che il re gli diede in dono, per sè e discendenti, col cavalierato, e cogli stemmi, per cui i Corner assumevano il secondo appellativo. Ma quel dono era non più che un tratto di riconoscenza, per essersi prestato Federico ad accomodare al Monarca del proprio scrigno la ben ragguardevole somma di settantamila ducati d’oro, per dargli abilità ad intraprendere le spese del viaggio per la Francia. In prova della Reale concessione stanno nel prospetto, alla destra del piano nobile, lo scudo intagliato dei re Lusignani, e alla sinistra lo scudo antico dei Corner colle insegne dei cavalieri di Cipro, in una spada, e un’epigrafe colle parole: pro tuenda integritene, a caratteri antichi. Ai lati degli scudi si scorgono effigiate Venezia e la giustizia, sedenti su due leoni; la prima tiene in mano una colonna con sopra un leone, ed è appoggiata al ginocchio destro della belva, qual simbolo che mentre la Repubblica eserciterà la giustizia, sarà sempre forte per resistere ad ogni potenza nemica. Oltre la giustizia e la Venezia, stanno due altri antichi scudi Corner, e compiono l’emblema le figure sculte nelle parti estreme del fregio, di Davide alla destra, e del gigante alla manca, percosso dal sasso, per significare che il vizio è dalla virtù dominato.
Siffatto fregio di marmo si vedeva un tempo dorato; le armi e le figure di basso rilievo, con altri intagli vaghissimi, apparivano dipinti con sì vaghi colori, che la ricchezza dell’oro e la varietà delle tinte aggiungevano splendore al prospetto. E consta che Federico ponesse alla veduta pubblica i titoli, che rappresentati furono più tardi alla Signoria per far conseguire alla famiglia il cavalierato ereditario. Il fatto poi di quel prestito si rileva da scritture degli Archivi domestici, ed è gran prova di opulenza il privato esborso ad un re, e più ancora, risultando dal testamento di Federico del 1378, in Atti di Domino Costantino da Cicono, Notaio Veneto, che tredici anni dopo era ancora in credito verso l’erario reale. Un anno prima che testasse, ebbe Federico procura dal monarca di sposar per suo conto Valentina, figlia di Bernabò Visconti, che, incontrata a Milano da quattro Senatori, in questo palazzo si ospitava, con regale pompa. Per la quale circostanza, Federico faceva rifabbricare, con fino artificio, una stanza bella e ricca d’intagli, tutti messi ad oro, che si chiamava la camera della regina.
I Corner Piscopia si segnalarono per il genio delle lettere e delle arti, per spirito guerresco, e per carità nazionale. Benedetto si celebrava da primi letterati; un Francesco, giovane ancora pel molto senno, si elesse Provveditore generale in Dalmazia contro gli Uscocchi. Due Federici apparvero fulmini di guerra nella battaglia contro i Genovesi, uno dei quali passò con Andrea Contarini alla riconquista di Chioggia. Francesco, Girolamo e Stefano, governatori di galera nel 1571, consacrarono la vita da prodi alla fede e alla patria, nel conflitto gravissimo alle Curzolari. Da questi discende Giovanni Battista, di genio ardente per i begli studi e di regale animo, che esborsò ben ventimila ducati per la guerra di Candia, e nel 1649 si insigniva della stola procuratoria.
Fece egli ristorare in alcune parti questo palazzo; lo accresceva di stanze; ne arricchiva sei di decorazioni, e provvedeva di cornicioni, leggiadri e di bell’intaglio, le sale lunghe venti, e larghe circa sei passi, come dichiara il Martinioni. Di tale rifabbrica stanno orme nella grande arcata seconda d’ingresso, col mascherone in alto, del carattere del Longhena, nei due portoni laterali, conducenti ai piani terreni, dove sono quattro nicchie per uno in alto e al basso, le ultime contenendo alcune piccole figure, in parte mutilate, però di stile goffo e spregevole. Tutti i poggioli del prospetto e le colonne del secondo ordine di pietra d’Istria, e le fabbriche circostanti il cortile sembrano del carattere dello Scamozzi. Triplice fila vi ha di ringhiere di ferro, una sopra l’altra, meno la parte di mezzo, ricca nei due ordini di poggioli di marmo. La grande nicchia poi sul fondo, con iscrizione, allude al valor belligero di un Fantino Corner, per la battaglia navale di Azio del 1538. I due stemmi Corner e Loredan uno all’altro sovrastano nel centro, grandi al naturale. La statua dell’Abbondanza, che tiene al fianco la Cornucopia, è allusione allegorica, che per quella vittoria s’indusse nella città e nella casa la prosperità e la ricchezza. Si scorge le prove in somma, che questo edilizio si restaurava più volte, sì internamente che ai lati, ove presenta un misto di stili, rivelanti diverse mani, anche nello scender dell’arte.
Le statue poi del Marinali, sparse nell’atrio, raffigurano Apollo e Diana, la Geometria e la Prudenza. E sono emblemi delle virtù e delle scienze, nelle quali ebbe vanto principale la figlia del Procurator Giovanni Battista, Elena Corner Piscopia, di intelletto altissimo, che professò sette scienze e conobbe, sette lingue. Nacque la insigne donna in queste aule; quivi ebbe a primo maestro Giovanni Battista Fabris, parroco di S. Luca, quegli che commentò tutta la filosofia di Aristotele. E colse ella le usate onoranze dal collegio dei dotti, del lauro, dell’anello e della mozzetta dottorale, avendo disputato un’ora nella cattedrale di Padova, divenuto angusto lo spazio della università alla pressa degli accorsi. Del pari in questi recinti sostenne erudito cimento, di confronto ad un Giovanni Gradenigo, al cospetto di ventisei forestieri illustri nel solennissimo dì della Sensa. E con onore unico, e unico esempio, si riportava ad altra festa il Consiglio in Pregadi, perché l’intero Senato desiderò di assistere alla di lei Orazione. In questo stesso palazzo quella nobile vita si estingueva, e quattro filosofi e medici ne levavano la salma, lutto il collegio, in mozzetta e manto lugubre, intervenne all’esequie, e fu deposta come oblata Cassinense, nell’avello dei monaci a San Giorgio Maggiore. La biblioteca ambrosiana la effigiava in uno dei suoi saloni; l’Università di Padova ai piedi del primo ramo della scala, a man destra di chi entra, la faceva scolpire sedente; il collegio dei dotti coniava una medaglia al suo nome, e nella Basilica del Santo, per cura del Procuratore suo padre, erge vasi mausoleo, con lusso di marmi e di simulacri.
In Giovanni Battista mancava la discendenza dei Corner Piscopia nel 1692, e passava la facoltà e questo palazzo nella famiglia dei Loredani. Suntuosa biblioteca vi si custodiva, con manoscritti di storia patria, disposta per materie in caselle di rimesso, con maestria lavorate. Si ammirava un ricco studio di pitture, con opere del Vecellio, del Bassano, e gran numero di altre in miniatura di Carlo Loth di Baviera. Anche l’Armeria conteneva a dovizia armi antiche e trofei militari.
Questo edificio, eminentemente storico ed artistico, bersaglio a tutti gli eventi di sorte, converso a molteplici usi di Litografia, di Locanda, di Uffizio delle Diligenze, delle Messaggerie, del Vapore e della Società per le strade ferrate, si può dire che fosse quasi preludio e termometro delle varie fasi dello sviluppo dei lumi e del progresso sociale.
Fattasene acquirente la contessa Catterina Peccana, nata Campagna, di Verona, quando era deturpato e deperito in sommo grado, lo redense all’in tutto, mercé un ingente restauro, per cui gli restituiva le parti ornamentali, rivestiva le travature della gran sala di dorati fregi, sparsi a bel disegno a rococò; e vi aggiungeva un vago cornicione a rosette. Inoltre vi collocava arazzi, con miti, che i Pesaro a gran prezzo acquistavano dai principi della Mirandola, ornamento un tempo della sala del loro palazzo sul Canal grande. Altre stanze fregiava con pareti filettate d’oro. Vi pendevano i ritratti, della scuola dei Bassani, degli avi Campagna, celebri per meriti in pace e in guerra, taluno avendo battagliato cogli Scaligeri.
Ispirandosi insomma alle memorie, che questa insigne mole rappresenta, la fece, nei comodi e nelle decorazioni, rispondere alla magnificenza dei suoi bei giorni. (1)
Passò nel 1867 al comune di Venezia e divenne sede del municipio assieme a Ca’ Farsetti: nuovi interventi di ristrutturazione alterarono pesantemente la sua pianta originale (2)
(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).
(2) https://it.wikipedia.org/wiki/Ca’_Loredan_%28San_Marco%29
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