Famiglia Foscarini
Foscarini. Non valutando quanto dicono il Malfatti e il Bracciolini, il primo dei quali dice che la famiglia Foscarini venne a por stunza a Venezia dalle vicine contrade, ed il secondo dalla terra di Ponte del Brenta, volendo che si appellasse da prima col nome di Cebeschini; ma, attenendoci alla più ricevuta opinione riferita dal Frescot, perché maggiormente consentanea al vero, diremo essere qui venuti li Foscarini dalla citta di Altino, e fino dai primi tempi del loro pergiungerc aver sostenuto il tribunato, ed aver poscia prodotti uomini illustri in ogni ordine. Contribuì anche questa famiglia con altre alla erezione della chiesa di San Paolo, tenendo poi in varie altre chiese di Venezia e di fuori monumenti cospicui ed onorate memorie. Possedé la terra di Bovolenta per acquisto fattone da Michele Foscarini, coll’esborso di 7260 ducati; ed era di suo patronato la chiesa di San Giovanni Battista nella terra di Ponte Longo nel Padovano.
Cinque armeggi diversi porta il Coronelli nel suo Blasone, siccome appartenenti a questa casa. Lo scudo più usato però negli ultimi tempi, che é quello sottoposto all’immagine del nostro doge, e inquartato, e reca nel primo e quarto punto, in campo azzurro, tre gigli d’oro posti in fascia, nel secondo e nel terzo, una banda fusata o di fusi azzurri in campo d’oro, sotto un capo vermiglio, caricato di un leone passante d’oro.
Il doge Marco Foscarini da Nicolò Foscarini, e da Eleonora Loredano trasse doge Marco i natali il di 4 febbraio 1695; e fin dai più teneri anni ebbe fra i lari paterni splendidi esempi da poter imitare. Né fu a lui di poco giovamento l’avere il padre aperto la sua dimora ai cultori delle lettere umane, amandole esso e coltivandole, per quanto lo comportavano gli uffici gravissimi di cui era
incaricato e insignito dalla Repubblica. Laonde la prima e più efficace educazione la ottenne Marco fra le pareti domestiche, ove menò i due primi lustri dell’età sua; toccati i quali, ito all’università di Bologna ad appararvi grammatica e filosofia, dopo due soli anni, siccome egli stesso lasciò scritto in alcune sue memorie tuttavia inedite, difese ivi alcune tesi grammaticali contro il celebre Guglielmini, professore nella università patavina.
Ma gli studi, i quali preparar lo dovevano a percorrere luminosamente la doppia carriera di magistrato e di scrittore, lo attendevano in patria. E’ di vero, ritornato in essa, era atteso dal consorzio degli uomini d’ingegno, i quali convenivano frequentemente nella sua casa, e vi tenevano lucubrazioni intorno a vari argomenti di sapienza civile e politica. E qui appunto esordiva il giovanetto Foscarini con la dissertazione sulla necessità della storia per formare gli uomini alla direzione della Repubblica; da cui traspira, dice saggiamente il Gar, un senno molto superiore all’età, e una decisa propensione a quel genere di studi che gli procacciarono in seguito sì bella fama. Nel tempo medesimo pose opera a riordinare la biblioteca domestica, ricca principalmente di manoscritti, raccogliendo a parte quelli che parvero a lui più convenienti per cavarne utilità nello studio della storia e delle vicende così della propria come d’ogni altra nazione. Quindi si fece tesoro in la mente della erudizione più eletta, ed investigando venne le condizioni della vita interna dei popoli e degli stati; scrutinò le influenze loro reciproche; e., aguzzando l’intelletto, cercò modo, date certe combinazioni di casi, onde poter quelle migliorare, queste volgere ad utile fine. Di cotali sue giovanili esercitazioni fanno chiara testimonianza la traduzione dell’istoria batava di Ugone Grozio, e i vari centoni di estratti e di note intorno alle storie italiane, che si conservano in Vienna fra le sue carte.
A raffermar meglio ed estendere le cognizioni attinte dallo studio delle più reputate opere, giovò grandemente al Foscarini il viaggio di Francia che intraprese col padre, speditovi ambasciatore straordinario durante la minorità di Luigi XV. Nella capitale di quella grande monarchia ebbe egli a conoscere d’appresso i costumi, l’indole e la tendenza di un popolo diverso affatto dal proprio; instituire
confronti fra uno stato governato a repubblica e quello retto da un solo; e quantunque giovanissimo, tornato in patria, quelle sue osservazioni raccolse in un discorso politico intorno alla eccellenza della Repubblica Veneta, che dedicò a Michel Morosini, sindaco e inquisitore di Terraferma.
Allo studio della storia, per alcun tempo della sua giovinezza, alternava quello della poesia italiana e latina, nella quale aveva steso le fila di un poema didascalico, intitolato i Coralli, col quale intendeva giovare a un ramo d’industria veneta allora molto scaduto, e meritevole di quello incoraggiamento che in seguito, per suo consiglio, gli accordava il governo.
Entrato nell’età conveniente a far parte del Maggior Consiglio, incominciavo, il di 18 settembre 1721, come savio agli ordini, quella carriera degli impieghi civili, che si chiuse dopo oltre otto lustri colla suprema dignità dello Stato.
Il cielo area dato di vivere al Foscarini in una età scaduta per debolezza e per avvilimento. Con la pace di Passarowitz, che inchiudeva la perdita della Morea, la Repubblica di Venezia segnava il proprio decadimento, e tutta la sua politica restringeva ad una fatale neutralità.
Sincero e caldo amatore della sua patria, il Foscarini, ne deplorava nel suo secreto la preponderanza perduta; ma scorgeva aprirsegli tuttavia largo campo di giovarle coll’opera e coi consigli, nel promuovere o modificare le civili instituzioni, che tanto avevano un giorno contribuito a renderla poderosa e ammirata. E perché in libero governo efficacissimo mezzo di volger le menti alle utili risoluzioni è la facoltà di ben dire, egli si diede con lo studio incessante dei classici a coltivar quella dote, di cui la natura gli era stata prodiga madre. E tosto gli si porgeva occasione di porre in atto la sua eloquenza, dappoiché essendo egli nel 1721 savio di Terraferma, fece una viva esposizione al Senato di ciò che gli sembrava acconcio a promuoversi presso la corte romana, sia per onore, come per utilità della Repubblica: e un’altra ne fece anche il seguente anno, intorno all’origine e alle riforme delle franchigie accordate agli ambasciatori residenti in Venezia. Fu appunto in quel tornio, che bramando d’unire il precetto all’esempio, dettava un eccellente trattato della eloquenza estemporanea, cui per affollamento di occupazioni diverse non gli venne più fatto di rivedere e di porvi l’ultima mano come avrebbe desiderato. Del quale trattato ne rimangono buone copie nella Marciana e nella libreria del seminario veneziano.
Dopo essere stato savio di Terraferma, aveva sostenuto il Foscarini oltre magistrature fino al 1730, quando la di lui molto sapienza gli valse in quell’anno di essere spedito ambasciatore straordinario alla corte di Vienna, per trattare intorno alla successione del ducato di Parma, ché colla morte di Antonio Farnese rimanea senza erede quella casa. Ripatriatosi nei primi giorni del seguente anno 1731, veniva eletto ambasciatore ordinario presso la corte di Francia. Ma Nicolò suo padre chiese ed ottenne dal Senato dispensa, e ciò per cagioni di domestica economia.
Eletto il di 7 febbraio 1732, siccome ambasciatore ordinario alla corte di Vienna, vi si recò nel novembre allorché l’Austria e la Russia contendevano unite colla Francia per la elezione del nuovo re di Polonia. La scelta accaduta il dì 13 settembre 1733 di Stanislao, suocero del re francese fu vana; ché dopo ventidue giorni di regno, l’eserciti dei Russi l’astrinse a fuggire, e venne proclamato in suo luogo l’elettore di Sassonia, che prese il nome di Augusto III. In tutti i rivolgimenti che in seguito succedettero, la Repubblica rimase spettatrice passiva, esposta alle esigenze e le scorrerie degli eserciti belligeranti in Italia: dal che si può facilmente desumere quanto grave e delicata fosse la missione del Foscarini. Nel suo soggiorno a Vienna diede principio ad un grave discorso, nel quale prese a indagare le riposte cagioni per cui l’Austria si lasciasse cogliere allo sprovvista, e perdesse in quella guerra sì presto quasi tutti i suoi possedimenti in Italia. Questo discorso, che intitolò Storia arcana, e che pose a termine dopo il 1754, venne pubblicato nel tomo V dell’ Archivio storico italiano, a merito dell’illustre Tommaso Gar.
Infrattanto era sì accresciuta la stima della sapienza del Foscarini, che morto essendo Pietro Garzoni istoriogrofo della Repubblica, venne, nel 1735, dal Consiglio dei Dieci eletto a succedergli. La scelta non poteva esser più adotto: e sebbene codesto ufficio richiedesse un alleggerimento di straniere faccende, e la presenza quasi continua dello scrittore in Venezia, ciò nondimeno il Foscarini era uomo da trarre vantaggio dalle medesime difficoltà, esercitando nelle corti quel politico accorgimento, che, come dice egli stesso, infonde anima alla storia, e la solleva sopra le narrazioni volgari. Grato quindi della incombenza onorifica, rispose al Consiglio dei Dieci in tuono di onesta peritanza, e promise di volgere l’ingegno ed il cuore a far sì che la sua storia riuscisse disappassionata e sincera. Né lasciò in mezzo alcun tempo all’impresa, ma ricorse alla saviezza del marchese Scipione Maffei, e a quello di monsignor Passionei, famigliare della sua casa ed uno dei più dotti uomini del secolo suo, per averne materiali ed indirizzi intorno al modo di ben condurlo. La moltiplicità poi e la lunghezza delle pubbliche cure sostenute fuor della patria gli impedirono sventuratamente di compiere per questa parto la commissione affidatagli, non rimanendo fra le carte da lui lasciate che materiali incomposti.
Compiuta l’ambasceria e ritornato a Venezia, vi lesse nel Maggior Consiglio la relazione della medesima: indi venne tosto, per deliberazione del Senato 1.° marzo 1736, spedito ambasciatore ordinario alla corte di Roma.
Sedeva sul trono pontificale Clemente XII, vecchio di spiriti risoluti nel difendere le ragioni della santa sede, sempre più vacillante all’urto del principato. Avendo egli di quei dì instituita la celebre fiera di Sinigaglia, la Repubblica di Venezia vietava ai propri sudditi di frequentarla: per la qual cosa, indispettito il pontefice, troncò subitamente ogni relazione di traffico tra gli Stati dello Chiesa e quei di San Marco. Il Foscarini mise alloro in opera ogni mezzo suggeritogli dallo propria avvedutezza e sapienza per rimuovere quelle differenze; ma invano, dappoiché era pari l’ostinatezza fra i due contendenti; e quegli improvvidi divieti, nocivi ad entrambi, non furono tolti se non dopo il trapasso di quel pontefice.
Le cure affannose di cotesta ambasceria non tolsero però agio al Foscarini di occuparsi nei prediletti suoi studi: imperocché procede egli sia nelle indagini storiche, specialmente relative alla corte romana; sia raccogliendo libri stampati e manoscritti per arricchirne la sceltissima sua biblioteca di scrittori veneziani, che servì di critico fondamento alle future sue produzioni. Dalla Vaticana diseppellì gli autori veneti affatto ignoti, o nuove opere dei conosciuti; tesoro d’altre nozioni opportunissimo alle sue mire, ritrasse dalla continua corrispondenza cogli uomini più celebrati d’Italia ed oltremonte.
Non erano ancor trascorsi due anni del soggiorno di Roma che al Foscarini venne il pensiero di scrivere intorno la letteratura della nobiltà veneziana, per dimostrare, come all’amministrazione dello Stato sapessero i patrizi congiungere la coltura delle scienze e delle arti, e come quelli che nel governo delle cose pubbliche si distinsero, fossero anche i più versati in ogni liberale disciplina. E bramoso di dare alle pellegrine notizie una forma amena, e di aprirsi maggior adito alle utili digressioni, le dispose in piano ragionamento ai nipoti, e le circoscrisse ai due secoli che segnarono la rinascenza e il decadimento dei buoni studi in Italia.
Avvicinavasi infrattanto il termine della sua legazione, quando, venuto a morte papa Clemente, i ministri delle principali potenze straniere si posero a gareggiare fra loro, colle solite arti, affine di far prevalere l’influenza delle proprie corti nella elezione del successore. Comandato il Foscarini di esprimere al raccolto conclave i sentimenti che in quella congiuntura animavano la Repubblica, confortò i cardinali a provveder degnamente, nella scelta del nuovo pontefice, al decoro della Chiesa e al bene della cristianità; e il suo discorso gli acquistò grandissima laude, e, ciò che più vale, la stima d’uomo integerrimo presso tutto quel venerando consesso. Dopo mesi parecchi d’incertitudine negli elettori, fmalmente il 29 luglio 1740, era dato a capo della chiesa il famoso Lambertini, che assunse il nome di Benedetto XIV, uomo che ebbe pochi pari per bontà e per ingegno.
Prima di torre licenza da esso, era al Foscarini riuscito di appianare le differenze e riaprire la corrispondenza fra la sua Repubblica e la Savoja, interrotta da settant’anni: laonde, per mantenerla più viva e feconda di ottimi risultamenti, verso la fme del medesimo anno, venne mandato ambasciatore straordinario a Torino.
Risiedeva appena da quattro mesi a quella corte, quando rivolta in Italia la guerra per l’austriaco retaggio, sollecitato si vide, con premure caldissime, dal re di Sardegna, affinché disponesse il Senato a stringersi a lui e alla regina d’Ungheria, colla quale si era confederato. Ma il Foscarini, conoscendo il divisamento del Senato, fermo alla neutralità, seppe esporlo con tale dignitosa prudenza, da non perder punto dei primi frutti della nuova relazione; ed esortò nel medesimo tempo la patria a provvedere ai futuri casi, per il turbine che le si andava addensando all’intorno.
Sebbene la dimora del Foscarini a quella corte fosse di pochi mesi, tuttavia trovò modo di avviare tra le due potenze proficui rapporti commerciali, e d’investigare le molle più ascose nella costituzione del dominio savojardo, in ciò adiuvato dal profondo suo acume e dall’amicizia del ministro d’Ormea, che a lui confidava le più gelose notizie, e perfino le orditure dei suoi disegni. E quest’ultima circostanza non volle passare sotto silenzio nella relazione che della sua ambasceria porse al Senato, la quale si può dire una storia succosa civile e politica dello Stato di Savoja, e che più volte fu pubblicata e tradotta in vari idiomi stranieri.
La patria riconoscente dei rilevanti servigi prestati sino allora dal Foscarini, gli conferì gli onori e le cariche principali. Già nel 1741 era stato eletto procurator di San Marco per merito; reduce dalla legazione torinese, fu bibliotecario della pubblica libreria, riformatore dello studio di Padova: ufficio commessogli in seguito ben quattro volte, e che disimpegnò col massimo zelo, proponendo o maestri di scienze e di lettere gli uomini più capaci, e, per quanto dipendeva da lui, introducendo nel sistema di generale istruzione sempre nuovi miglioramenti.
Della occasione di manifestare la sua eloquenza, e sopra tutto la rettitudine dell’animo, gli offersero poco appresso le insistenti doglianze dei popoli dalmatini, esposti agli arbitri, alle rapacità, ai monopoli dei veneti provveditori. Per togliere i turpi abusi e ravvivare la trascurata osservanza delle leggi in fra quei popoli, tenne nel Maggior Consiglio una sì robusta orazione, che fu vinto il partito di rimettere, l’antico ufficio del sindacato, e di spedire tre inquisitori in Dalmazia, i quali vi sorvegliassero i pubblici rappresentami nelle operazioni del governo civile, economico e militare.
Il breve ozio che dall’attendere ai più vitali interessi della Repubblica gli derivava, veniva egli impiegando nel dar corpo ad un vasto e generoso disegno. Fu questo di estendere la storia della letteratura veneziana, alla quale impresa nessuno si aveva peranco accinto. Il Foscarini adunque dopo quasi tre lustri che avea posto l’animo a rilevare anche questa parte di gloria nazionale, pubblicò, nel 1752, colle stampe del seminario di Padova il primo volume in foglio, della Letteratura veneziana, diviso in quattro libri, nei quali esamina le leggi, le cronache, le storie venete e forestiere. Il dubbio però che egli espresse nel proemio della medesima, cioé, che la brevità della vita e le soverchie occupazioni del pubblico ministero non gli concedessero di stendere anche l’altra parte del suo dotto lavoro, sventuratamente si avverò; e sebbene quella già pubblicata possa stare da sé e chiamarsi nel suo genere quasi perfetta, ciò non ostante molto ragionevole é il desiderio della continuazione, prodotto dalla lettura del primo volume, se si guardi all’intima armonia dell’insieme, e alla importanza degli argomenti che doveano svolgersi nel secondo.
L’intenso studio impiegato in simili produzioni non lo distolse minimamente dall’adempiere ai doveri di cittadino; anzi, non fu mai più premuroso e più fervido nel giovare alla patria, che appunto in questo periodo. Manifesta prova ne sono le arringhe per ricomporre le differenze tra la Repubblica e l’Austria a cagione del patriarcato d’Aquileja, le quali ebbero termine coll’estinzione di esso, e la formazione dei due arcivescovati di Udine e di Gorizia; quelle contro il vestiario; le tendenti a promuovere la compagnia per la fabbrica dei coralli, ad animare il commercio dei vetri di Murano, e la scuola di disegno applicato alle manifatture di seta; a consigliare l’introduzione della carta bollata: a riformare le attribuzioni del magistrato militare; a proporre lo pace coi Barbareschi: delle quali scritture tutte si trova memoria da lui stesso lasciataci in un suo manoscritto posseduto tuttora dalla libreria del seminario di Venezia. A questi aggiungasi l’arringa tenuta nel Maggior Consiglio per la correzione del Consiglio dei Dieci, già pubblicata dal Gaspari.
Moriva infrattanto il doge Francesco Loredano, e il dì 31 maggio 1762, veniva dato a successore il Foscarini, come superiormente dicemmo. Senonché dopo dieci mesi fatalmente mancava alle speranze della patria. Il suo trapasso fu attribuito alla imperizia e alla discordia di una turba di medici divisa in due partiti: per lo che negli ultimi istanti si lagnò egli per essere stato troppo lusingato e non avvertito a tempo del suo vicino pericolo. Si preparò non pertanto al supremo passaggio quale ottimo cristiano, e come visse mai sempre.
Fu il Foscarini di forme prestanti, di modi soavi, non disgiunti da gravità: lepido e facile parlatore, largo di lodi e di aiuti ai coltivatori delle lettere e delle scienze: ma come scrittore, vanitoso ed insofferente delle censure, di che ne fan testimonianza le contese con Girolamo Tartarotti, prodotte da una dissertazione scritta da quest’ultimo sugli antichi storici veneziani citati dal Dandolo, e stampata dal Muratori nel volume XXV dei suoi scrittori delle cose italiane. Quanto era egli felice nel concionare improvviso e nell’accogliere con prontezza e con un certo entusiasmo tutto ciò che leggeva ed udiva, altrettanto era tardo e paziente nell’eleggere e vestire i concetti. Animo aveva aperto alle impressioni del bello e del grande; tenacità di propositi, carità di patria ardentissima, alla quale ogni altro affetto sottoponevo, tranne quel della religione, la quale tenne in cima a tutti i suoi pensieri; di che ne fan pruova molti luoghi delle opere sue.
(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI
Dall’alto in basso, da sinistra a destra: Campo Do Pozzi, 2609 (Cannaregio) – Ramo Rio Terà, 2610 (San Polo) – Calle del Campaniel detto Civran o Grimani (San Polo) – Rio Terà dei Nomboli, 2705 (San Polo) – Campiello del Pegoloto, 1802 (Cannaregio) – Calle dei Orbi, 3034 (San Marco) – Fondamenta dei Tolentini, 182 (Santa Croce).
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