Storia della Basilica di San Marco di Flaminio Corner

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Basilica di San Marco,

Storia della Basilica di San Marco di Flaminio Corner

Sedeva nei principi del IX secolo sul trono imperiale di Costantinopoli Leone, detto l’Armeno, e nella Sede Ducale, recentemente trasportata da Malamoco a Venezia, Angelo Participazio: allorché gli Arabi Maomettani, dopo aver soggiogate molte delle vicine provincie, occuparono anche la Palestina, e profanarono empiamente i luoghi sacri di Gerusalemme. Per ostare a tali progressi, che andavano minacciando la cristianità d’Oriente, vietò l’imperatore Leone, che nessuno dei sudditi suoi navigar potesse in Siria, o in Egitto, il qual comando conosciuto ragionevole, ed utile da Angelo doge, e da Giustiniano di lui figlio, fatto collega nel principato, estesero ambedue uniti il divieto ai veneti d’approdare alle spiagge possedute dai barbari.

Fosse però o violenza di tempesta, o avidità di guadagno, due veneziani chiamati Buono Tribuno da Malamocco, e Rustico da Torcello, con dieci navi cariche delle loro merci arrivarono in Soria, ove giunti si portarono tosto ad Alessandria per venerarvi il corpo dell’Evangelista San Marco, celebre fra i veneti, fra i quali correva volgare tradizione, che avesse egli piantato la sede patriarcale d’Aquileia, di cui ne erano legittimi successori i patriarchi di Grado. Nell’entrare della chiesa videro Staurazio monaco, e Teodoro prete, custodi della medesima, afflitti e confusi, ed intesero essere la cagione del loro dolore, che il Califa dei Saraceni, per fabbricarsi un palazzo presso di Babilonia, aveva ordinato, che dalle chiese dei cristiani si togliessero i più scelti marmi; ed essi perciò temevano la devastazione della propria chiesa. Credettero i buoni veneziani opportuna l’occasione ai loro disegni; che però esagerando fu la tirannide dei Saraceni, esortarono i custodi a conceder loro il venerabile corpo dell’evangelista, e seco loro condursi a Venezia, ove dal doge colmati sarebbero e di ricchezze, e d’onori. Si scossero a tal inaspettata ricerca i custodi, e non sapete voi, risposero, che San Marco per comando del principe degli apostoli predicò l’Evangelo in queste parti, e che gli uomini di questa città vantandosi di lui figliuoli ci farebbero pagare con la vita il delitto di tal furto.

A tale risposta replicarono i mercatanti, esser anzi dovere, che ivi riposasse il santo evangelista, ove aveva prima di ogni altro luogo sparsa la semente evangelica, e piantata la prima patriarcale cattedra dell’Occidente: Che se per oggetto sì santo, qual è il togliere il sacro corpo dalle profanazioni degli empi, dovessero temer gravi persecuzioni, il consiglio di Cristo ci insegnò il fuggire ad altra parte. Nel mentre, che replicavano i custodi, non esser la persecuzione sì avanzata, che temer potessero della vita, videro sotto i loro occhi flagellarsi crudelmente un cristiano per aver infranto un marmo, affinché non fosse levato. Timorosi allora di un egual trattamento diedero orecchia all’insinuazione dei veneziani, e levato il corpo del santo evangelista, che era chiuso, ed involto in drappo di seta, vi supposero il corpo di Santa Claudia, lasciando destramente intatti i sigilli, dai quali il drappo era munito. Al levarsi del sacro corpo ne uscì odore così soave e veemente, che sparso per la città diede non lieve sospetto del furto eseguito: ma trovato avendo chiusa la cassa, ed in essa un corpo custodito nel solito drappo con suoi sigilli, attribuirono ad ignota causa la prodigiosa fragranza, e si stettero cheti. Per portar però sicuro il sacro pegno alla nave, lo depositarono in una gran cesta lo coprirono di folte erbe, e vi soprapposero carni porcine abominate dai Saraceni. Onde non volendo né men vederle, lasciarono libero il trasporto del venerabile deposito, che giunto alla nave fu legato al più alto luogo delle vele, finché uscire potessero liberi dall’ispezioni dei Saraceni. Sciolte d’indi le vele, mentre prosperamente navigano lieti del grande acquisto i veneziani, furono dal santo apparso in visione notturna a Domenico monaco ammoniti dell’imminente pericolo, in cui erano di rompersi; perciò ammainate le vele, si scorsero la mattina vegnente vicini ad un’isola in cui andavano miseramente ad infrangersi. Giunti poi ad Umago, città non molto discosta da Venezia, fecero del gran tesoro acquistato precorrerne avviso al doge Participazio, che concesso loro il perdono per il vietato approdo, e lodatili della ben condotta impresa, si portò col clero, con la nobiltà, e con molto popolo ad incontrar il sacro corpo, deposto poi solennemente nella cappella del Palazzo Ducale.

Concordi sono nell’asserire la traslazione del santo evangelico a Venezia gli scrittori più celebri ecclesiastici e veneziani, e ne rende fra gli altri la più autorevole testimonianza Bernardo, monaco francese, che nella descrizione dei viaggi da se fatti in Terra Santa nell’anno 870, ove rammenta la città Alessandria, scrive esservi appresso di essa fuori della porta orientale un monastero, dedicato a San Marco, dalla di cui chiesa i veneziani furtivamente tolsero il di lui corpo concesso loro dal custode, e lo trasportarono alle loro isole. Così pur asserirono anche scrittori greci, e di fede degnissimi, perché poco inferiori al tempo della traslazione, i quali sono Severo figlio di Macfas, vescovo d’Ascumia, che fiori nel decimo secolo, e scrisse le vite dei patriarchi alessandrini, ed Abalbirca autore del Canone Cronologico, i quali con unanime sentimento scrissero, aver i franchi rapito in Alessandria il corpo dell’Evangelista San Marco per arricchirne Venezia, dove tutt’ ora, dissero essi, ancor si conserva.

Ne minor prova del fortunato acquisto sono le frequenti peregrinazioni intraprese per visitar il santuario, ove il sacro corpo riposa, dai più riguardevoli soggetti o per santità e dottrina, o per dignità, i quali furono il piissimo abbate di Cossano Guarino nell’anno 978. Ottone III imperatore nell’anno 998. Papa Leone IX nell’anno 1053. Enrico IV imperatore nell’anno 1094, ed altri non nominatamente espressi nell’antiche cronache.

L’argomento però maggiore, e sopra tutti il più forte deve esser l’istesso edificio magnifico della di lui basilica architettato e disposto col solo oggetto di riporre in essa, e cautamente conservare un sì, invidiabile tesoro. Ad onore dunque del santo evangelista, che i veneziani festosi dal momento del loro arrivo si adottarono per principale protettore appresso Dio, determinò il doge Giustiniano Participazio d’innalzare un suntuoso tempio, di cui mentre andava disponendo i principi prevenuto dalla morte ne lasciò la pia cura a Giovanni fratello suo, e successore nel principato. Erede non meno della pietà, che della dignità fraterna, il doge Giovanni ergere fece per culto e custodia del sacro deposito una maestosa basilica, al di cui servigio e decoro istituì un Primicerio, carica già anche prima usata nella cappella ducale, ed alquanti cappellani necessari alla celebrazione dei divini misteri ed all’ufficiatura del coro.

Ridotto a perfezione il maestoso tempio vi fu nascostamente introdotto il santo corpo, chiuso prima in una forte arca di bronzo, ed essendo consci del geloso segreto solamente il doge ed il primicerio, fu segretamente collocato in uno degli interiori pilastri tutto incrostato di vivo finissimo marmo. Asserisce l’antica storia della traslazione, registrata anche dal Baronio nei suoi annali, essere stati dal doge Giustiniano, allorché ripose nella sua cappella il sacro pegno, ordinati cantori e ministri, che dessero lode a Dio, fra i quali fu il primo Staurazio monaco alessandrino, per di cui opera si era ottenuto il venerabile tesoro. Da tale autorità resta esso Staurazio registrato nella serie, che poi daremo, dei primiceri, in secondo luogo dopo Demetrio, che si legge notato primicerio della Ducale Cappella in un documento dell’anno 819.

Protessero i dogi successori di Giovanni il nuovo tempio fatto loro Ducale Cappella, che andò sempre più crescendo e di ornamenti, e di splendore sino al doge Pietro Candiano, di questo nome, e famiglia IV, sotto di cui per un atroce incendio fu quasi per l’intero distrutto. Reggeva questo principe con tirannia la Repubblica: per cui concitatosi il popolo, che l’odiava, si unì in tumultuosa sedizione, ed accorse al pubblico palazzo per sacrificare al proprio furore col doge tutta la di lui odiata famiglia. Ma dall’ingresso del palazzo proibita l’infuriata moltitudine dai soldati stipendiati dal doge a propria difesa, non vedendo altra maniera di arrivare al loro intento, attaccarono fuoco alle circonvicine case; dalle quali comunicato l’incendio al palazzo, ed al tempio, furono pressoché del tutto consumati e distrutti. Si rovinò in sì funesta occasione anche la vicina Chiesa di San Teodoro, che era già stata fabbricata da Narsete Eunuco, famoso generale dell’imperatore Giustiniano per gli aiuti ottenuti dai veneti, e corse il fuoco a divorar tutte le abitazioni fino alla chiesa di Santa Maria Giubenico, che pur essa fu involta nelle fiamme. Sfogatosi nella morte del doge e di un tenero suo figlio lo sdegno del popolo, come videro arder fra le fiamme il sontuoso tempio accorsero tosto tutti a divertirne i progressi, cosicché qualche parte poté illesa rimanerne.

Sottentrò sforzato dal voler della moltitudine nel trono ducale Pietro Orseolo, uomo venerando, e di santissimi costumi, il quale niente avendo avuto di parte (che ne dicano per errore alcuni scrittori) nella morte del suo precessore, volle con fausti auspici cominciare il suo dogado dall’opere di religione, procurando tosto la restaurazione dell’abbruciato tempio, che a tutte sue spese volle rialzato dalla rovina; ed in cui poi con somma cautela e sicurezza, come si era usato sotto il doge Giovanni Participazio, depose il corpo dell’evangelista titolare. Ad ornamento poi della rinnovata basilica fece a lavori d’oro e d’argento formare una Palla d’Altare, come si usava a quei tempi, e la pose sopra l’altar maggiore, ove si celebravano i più solenni uffici.

Ritiratosi poi il santo principe a professare vita regolare e solitaria nel monastero di Cussano, ove santamente morì, fu a tal dignità elevato Vital Candiano, che ad esempio del santo suo antecessore vestì l’abito benedettino nel veneto monastero di Sant’Ilario, ove finendo di vivere comandò di esser sepolto. Ascese alla di lui dignità Tribuno Memo, che nel quarto anno del suo principato a Giovanni Morosini, genero del lodato San Pier Orseolo, e monaco cussanense, donò la chiesa e l’Isola di San Giorgio, antico jus della Cappella Ducale, acciocché in essa fondasse un monastero sotto la regola di San Benedetto. Di questo, che pur anco morì monaco, fu successore Pietro Orseolo secondo, il quale emulando le virtù del santo suo genitore finì di perfezionare la Basilica Ducale, e pieno di meriti più che di anni passò agli eterni riposi nell’anno XLVIIII dell’età sua.

Memorabile è per la chiesa di San Marco l’anno 1040, in cui con l’assistenza e favore del doge Domenico Flabianco, fu celebrato da Orso Orseolo patriarca gradese un concilio provinciale per stabilire leggi alla disciplina ecclesiastica utilissime, e fra ess, che niuno potesse esser promosso al sacerdozio prima che toccasse l’anno trentesimo di sua età. Passati pochi anni dalla convocazione del sinodo fu chiamato a Dio l’ottimo patriarca Orso, e alla di lui sede fu sublimato Domenico Balcano cappellano della Ducale Basilica. A questo patriarca concesse il pallio, e l’autorità di farsi portare avanti la croce il santo Pontefice Leone IX, che poco dopo, cioè nell’ anno di Cristo 1053, per la singolare divozione, con cui venerava l’Evangelista San Marco, si portò a Venezia. Accolto con ogni riverenza dal doge, e dai cittadini, entrò nella Ducale Basilica, e dopo aver offerto all’evangelista fervorosi tributi di lodi, e preghiere, concedette alla chiesa ampi privilegi d’indulgenze ed immunità.

Quantunque però nel suo interno perfetta dir si potesse la chiesa, pure nell’esterno, e nei suoi abbellimenti attendeva qualche maggior compimento. Per cui Domenico Contarini Doge nell’anno 1071 che fu l’ultimo del suo principato, e di sua vita, ristorandone una porzione, e compiendone totalmente l’atrio, la ridusse a quella struttura, in cui oggi si vede; e poi Domenico Silvo di lui successore ne rese compiti tutti gli abbellimenti. Si accrebbero pure sotto il governo del doge Silvo i vantaggi spirituali che temporali di questa basilica. Poiché Alessio Comneno, imperatore di Costantinopoli, in grata riconoscenza dei soccorsi somministratigli dalla Repubblica contro Roberto duce dei Normanni, oltre molti onori e prerogative concesse al doge e ai veneziani, donò alla chiesa fabbricata in Venezia a nome dell’Evangelista e Apostolo San Marco molte ed insigni reliquie tratte dai santuari della Grecia, e le assegnò con sua bolla d’oro in perpetua offerta alcune riguardevoli rendite di tributi, ed un lungo tratto di fabbriche, le quali erano di ragione dell’imperiale erario.

Frattanto dopo il funesto incendio occorso per la morte di Pietro Candiano IV e dopo la riparazione fattane dal santo doge Pietro Orseolo, quelli che soli erano consci del segreto, ove riposasse il corpo dell’evangelista protettore, trascurato avendo di comunicarlo, furono cagione, che se ne perdesse interamente la memoria; cosicché lo stesso doge Vital Faliero, che fu eletto nell’anno 1084 ignorava totalmente il luogo del venerabile deposito. Era questa una non leggera afflizione non solo all’anima del pio doge, ma ai cittadini ancora, ed al popolo, che finalmente mosso da interna fiducia nella divina clemenza, si determinò d’implorare coi digiuni, e con le preghiere la manifestazione di un tanto tesoro, che più non dipendeva da opera umana. Pubblicato però un universale digiuno nella città, ed ordinata una solennissima processione nel giorno 25 di giugno, mentre il popolo radunato nella basilica con fervorose orazioni procura d’intercedere da Dio la sospirata grazia, si vedono con meraviglia massima, ed eguale all’allegrezza i marmi di un pilastro vicino al luogo, ove ora è l’altare della Croce, dopo piccola scossa cader a terra, e palesar al popolo giubilante l’Arca di bronzo, in cui deposto era il Corpo dell’evangelista. Risuonò di lodi, e di rendimenti di grazie la gran chiesa, e in perpetua ricordanza del prodigio fu decretato, che annualmente in tal giorno fosse la chiesa visitata dal principe e dal senato, e vi concorressero pure a celebrarne la festevole memoria le Scuole maggiori, ed ambi i cleri della città. Restò poi esposto il sacro corpo alla devozione del popolo dal giorno 25 di giugno sino al giorno 8 di ottobre, in cui essendosi celebrata la solenne consacrazione della chiesa, fu poi, nella notte seguente cautamente in luogo appartato sepolto, partecipi essendone del preciso luogo le sole persone del doge, del primicerio, e dei procuratori sopraintendenti alla fabbrica.

Di sì mirabile apparizione in una sua cronaca citata, e veduta da Pietro Giustiniano, ne stese il racconto Zenone abbate di San Niccolò del Lido, il quale ebbe la sorte di veder e venerare nella Chiesa Ducale esposto il sacro corpo intero ed incorrotto, ammantato con abiti sacerdotali, alla di cui intercessione accorrendo i fedeli ottennero molte grazie e miracoli, come racconta l’arcivescovo di Genova Giacomo de Voragine domenicano. Fra questi il più mirabile è quello accaduto ad un devoto religioso domenicano per nome Giuliano, a cui, mentre agonizzava in Faenza, apparve all’improvviso il santo evangelista, affettuosamente ringraziandolo per la divozione, con cui aveva molte volte visitato il luogo di sua sepoltura. Lieto a tal veduta il moribondo, chiamato il priore gli narrò il prodigioso avvenimento, ed indi fra rendimenti di grazie ed inni di lode santamente spirò. Esser ciò successo nell’anno 1241, lo attesta il citato arcivescovo di Genova, ai di cui racconti tanto più si deve prestare fede, quanto che estero di nazione, e regolare di professione nulla nutriva d’attacco per i veneziani, e tutto propenso era per la verità, e per l’onore sincero dei santi.

Corre voce popolare, che nel punto dell’apparizione stendesse il glorioso San Marco un braccio fuori dell’arca, porgendo la mano adorna di un anello d’oro, che poi ritirò, allorché un nobile di casa Delfina devotissimo del santo s’accostò per chiederglielo in dono; e in fatti replicando il nobile stesso più fervorose le preghiere, nuovamente l’evangelista stese la mano, da cui permise fosse levato l’anello. Sì straordinario successo non essendo rammentato né dall’abbate Zenone, che allora viveva, né dal Dandolo, nè da veruno dei più accreditati cronologi, ma solo da alcuni dei meno antichi, che lo trassero da un codice pergameno, conservato nella sacrestia di San Marco, si deve raccontare con quell’avvertenza, che è dovuta alle cose non sostenute da molto probabili fondamenti.

Maggior autorità si dovrebbe a Pietro Giustiniano autore dell’Istoria Veneziana, che nel lib. IV. di essa racconta questo mirabile avvenimento. Nel principato di Bartolommeo Gradenigo, eletto doge nell’anno 1339 crebbero per una improvvisa procella a tal segno le acque nella notte precedente al giorno 27 di febbraio, che s’alzarono oltre tre cubiti sulle strade de la città. Un pescatore, che s’era ridotto al coperto con la sua barchetta vicino al Palazzo Ducale, vide accostarsi tre venerandi uomini, che lo ricercarono di tragittarli sino a San Niccolò del Lido. Negò egli sulle prime per il timore, ma come li sentì risoluti, preso animo drizzò la barchetta verso il porto. Arrivati alla chiesa di San Niccolò dirimpetto al porto, osservò egli una nave carica di demoni, che precettata dai prodigiosi passaggieri tosto sì sommerse in mare, e ne seguì tosto intera bonaccia. Sbarcò poi uno di essi al monastero di San Niccolò, l’altro restò all’Isola di San Giorgio Maggiore, ed il terzo arrivato che fu non lungi dalla Ducale Chiesa fu ricercato dall’intimorito pescatore quale avesse ad esser la sua mercede: Di portarti, rispose il santo, al doge, ed ai senatori, ed esponendo il successo di questa notte, presentar loro l’anello, che ti consegno. Assicurali in mio nome, essere stata la loro città liberata da un orrendo diluvio; e perché tutto tu sappia, il primo che si sbarcò al Lido è il vescovo San Niccolò protettore dei naviganti; l’altro è il martire San Giorgio, che si fermò al suo monastero; ed io sono Marco evangelista padre, e protettore di questa città. Sparve ciò detto il santo, e nella seguente mattina presentatosi il buon uomo al dominio, espose il racconto, e consegnò l’anello. Si udì con meraviglia il racconto, e poi rese pubbliche grazie a Dio per la clementissima preservazione, fu stabilita al buon vecchio un’annua ricompensa dal pubblico erario.

Qualunque sia la verità di tali miracolose apparizioni, certissima è la mirabile rivelazione fatta del santo corpo, scritta concordemente da autori testimoni di veduta, da esteri scrittori, e comprovata con miracoli, che non possono rivocarsi in dubbio. Si accresce la certezza del fatto per le devote visite, che alla chiesa, ove il sacro corpo riposava, dopo la sparsa fama dell’apparizione, intrapresero riguardevoli personaggi. Fra questi Enrico IV di questo nome imperatore, appena avuta la notizia della rivelazione fatta in Venezia, si partì da Trevigi, ove allora dimorava, e si portò a Venezia per venerare l’evangelista San Marco, il di cui corpo si era non molto avanti prodigiosamente ritrovato.

E‘ opinione di qualche erudito, che l’imperatore in tale occasione facesse imprimere alcune piccole monete d’argento, una delle quali si conserva ancora nella Libreria di San Marco, nelle quali viene espresso da una parte San Marco protettore dei veneziani in abito sacerdotale, dall’altra il nome dell’imperatore Enrico all’intorno di una croce; moneta si può dire fiorita e di rara audizione rispetto alle cose veneziane allora occorse, come scrisse il celebre senatore Domenico Pasqualigo, che con suo testamento lasciò alla Repubblica con quella moltissime altre rare monete veneziane. Dell’universale devozione dei popoli italiani, e degli oltramontani ancora al veneto sacrario di San Marco frequenti sono le testimonianze, e però non sospetti scrittori, come il Razzio, il Fortunio, gli eruditissimi Bollandisti, ed il celebre Mabillon, che nel secolo VI dell’ordine benedettino rammemora le frequenti pellegrinazioni dei milanesi, e torinesi al sepolcro di San Marco in Venezia.

Con le autentiche testimonianze degli scrittori antichissimi, e non sospetti, perché d’estero dominio, e con la luminosa prova di cospicui miracoli unitamente alla concorde venerazione dei popoli, che o concorrevano a venerare il sacro corpo, o gli trasmettevano (come fece Lodovico XI re di Francia) in attestato di loro devozione votive offerte, come si comprovano l’acquisto fortunato, e il continuato possesso dei veneti, così si convince l’impostura dei monaci d’Augia presso il lago di Costanza, i quali con falso vanto pretendendo di avere o tutto o in gran parte il corpo dell’evangelista stesero della di lui traslazione una così sconcia e ridicola narrazione, che con le contradizioni, ed invero similitudini, di cui è piena, ben dimostra, che nelle cose gravi suole l’iniquità smentirsi da se medesima.

Per qual causa però il sacro corpo fosse dai nostri maggiori sino dai primi tempi del santo acquisto si gelosamente custodito e nascosto, ne rende ragione il Baronio all’anno 820 dei suoi annali, perché (egli dice) i francesi, allora potenti nell’Occidente, avidissimi erano dei santi corpi, dei quali ne avevano già dall’Italia trasportati molti alle chiese di Francia. In secreto luogo dunque perciò fu deposto prima da Giovanni Participazio, e poi da Vital Faliero, restandone la notizia appresso le sole persone del Doge, e Primicerio, e Procurator di Chiesa, come abbiamo dalla Cronaca del doge Dandolo, il quale attesta aver conosciuto il sito preciso, ove riposava il sacro corpo sin dal tempo che egli era procurator della chiesa, e così pure si ha da autentico documento averlo il doge Antonio Venier nell’anno 1391, palesato, esigendo giuramento di segretezza al primicerio Francesco Bembo. Mostrò di saperlo anche il doge Francesco Foscari, il quale al santo protopatriarca di Venezia, Lorenzo Giustiniano (come scrive nella sua Storia Bernardo Giustiniani) promise di rallegrare la città con la dimostrazione del venerabile tesoro, tosto che finita fosse la guerra, che allora ardeva contro il duca di Milano Francesco Sforza, benché poi, essendo prima di concludersi la pace volato al cielo il santissimo prelato, non seguì tale manifestazione.

Vanno frattanto molti curiosi anche al giorno d’oggi ricercando lumi, e congetture, ove possa il doge Vitale Faliero aver collocato il prezioso pegno. Che se da queste se ne potessero dedure conseguenze, farebbe forse probabile il dire, che nella mensa dell’altare maggiore fosse egli collocato, giacché, come sono ancora viventi molti testimoni di veduta, lo stesso altare fino ai tempi del primicerio Giovanni Cornaro, eletto nell’anno 1713, stette senza quella pietra, sotto la quale sogliono collocarsi le reliquie dei martiri in ubbidienza al decreto di papa San Silvestro, il quale comandò, che il divino sacrificio celebrato fosse sopra le reliquie dei martiri. Mancando dunque alla mensa dell’altare un sì indispensabile requisito, forze è credere, che sotto la mensa stessa cosa tale vi stesse, che dir si potesse reliquia di martire. Si aggiunga altresì per congettura, esser la mensa stessa circondata da lamine di ferro, e chiamarsi l’altare precisamente di San Marco; oltre di che in uno dei mosaici della gran cappella, situato in un oscuro luogo, vi è un mosaico rappresentante il doge Falier presente alla collocazione del santo corpo fatta da due mitrati prelati nella mensa dell’altare maggiore, con una iscrizione appostavi con tali parole, Collocatio Sancti Marci; ed è credibile aver da ciò avuto origine l’uso di circuire con la solenne processione l’altar maggiore nella festa dell’Apparizione di San Marco, quando negli altri festivi giorni solamente si passa avanti l’altare stesso senza circondarlo, o fermarsi. Scrive il lodato storico Bernardo Giustiniano, di aver nel Palazzo Patriarcale, in occasione di visitare il santo suo zio Lorenzo, veduto e letto un antico codice, in cui erano descritti tutti i corpi santi, e le reliquie della città col nome delle chiese, nelle quali erano custoditi, e per primo come protettore si leggeva: Nella Chiesa di San Marco il Corpo del Beato Evangelista, e si esprimeva poi il sito preciso, ove egli giaceva; che però dallo storico vien passato sotto silenzio. Non però volle tacerlo il Cardinal Baronio, a cui note essendo o tutte, o parte di tali congetture, non dubitò di francamente asserire nel Tomo X dei suoi Annali, essere stato il corpo del beato evangelista con rito solenne collocato sotto l’altare primario.

Amministrò dopo la morte di Vitale Faliero per cinque anni la Repubblica il Doge Vitale Michieli, ed indi sul trono ducale, fu cui seduto aveva il padre, salì Ordelaffo Faliero, che nell’anno IV di suo principato, e di nostra salute 1106, ripulì, e con nuovo accrescimento di molte gemme arricchì l’aurea palla donata già dal santo doge Pietro Orseolo, e da lui all’altare maggior collocata. Fu però ciò non ostante funesto alla chiesa quell’anno, perché in una sua notabile porzione risentì i danni del secondo incendio, che uscito fuor dall’Isole Gemine presso Castello, si distese ad avvampare una gran parte della città, restandone incenerite molte chiese, e gravemente danneggiata la Basilica, ed il Palazzo Ducale: Nel frattempo però, che si andavano rimettendo i discapiti del sacro edificio, il doge Domenico Michieli, che con una potente armata portato si era a soccorso di Terra Santa, acquistò in Tiro una gran parte di quella pietra, su cui vi è tradizione aver seduto Gesù Cristo, e in dono poi la portò alla Ducale sua Cappella. Passato indi il vittorioso doge a Rodi, e poi a Scio, mentre svernava nell’Isola da sé acquistata, un chierico veneziano, di nome Cerbano, si determinò di toglier il prezioso corpo del celebre martire Sant’Isidoro. Invitati dunque in aiuto dell’impresa alcuni suoi concittadini, entrò con essi nel sotterraneo, e fatta orazione ne schiusero a gran fatica un sepolcro, nel quale ritrovarono tre corpi di santi martiri senza, il ricercato di Sant’Isidoro. Posti perciò in maggior attenzione di esaminar il luogo, si avvidero di una piccola fessura, da cui poi sentendo uscire una mirabile fragranza, rinvennero il desiderato corpo, del santo martire, benché Senza testa, additato anche dalla di lui immagine, e da un’inscrizione in argento postagli accanto. Ne arrivò del fatto notizia al doge, che lodato il pio attentato, stabili d’arricchirne con esso la Ducale Basilica di San Marco. Arrivato dunque a Venezia il corpo del santo martire, fu secondo lo stile di quei tempi deposto in un secreto e nascosto luogo, ove giacque finché scoperto poi sotto il dogado d’Andrea Dandolo, fu in una nobile arca di marmo rinchiuso, e collocato in decente cappella, che il pio doge comandò eretta fosse a di lui onore; ove con lavori di mosaico rappresentati si vedono il martirio, ed il trasporto del prodigioso martire.

Viene ogni anno essa cappella solennemente visitata dal principe prima e dal Senato, e poi da ambi i cleri e dalle Scuole maggiori della città, nel giorno 16 di aprile in memoria della scoperta congiura di Marino Faliero doge, allorché nell’anno 1354, macchinò crudelmente contro la vita dei cittadini, e la libertà della patria. Giace nel suo sepolcro il venerando corpo senza la testa, che, come dissi, non fu trasportata col rimanente delle sacre reliquie. Ma disponendo Iddio, che Venezia intero possedesse questo tesoro, fece che un greco dell’isola, nominato Pantalon Risegali, nell’anno 1627 lo conducesse a Venezia, ove offerto al dominio fu in ricco vaso riposto, e nel giorno della celebre sua traslazione 16 di aprile esposto alla devozione del popolo, e venerato con votiva pompa dal senato.

Mancava frattanto all’augusta basilica il suo campanile: che però il doge Domenico Morosini eletto nell’anno 1148, nei primi esordi del suo principato ne sollecitò la fabbrica indispensabile agli usi ecclesiastici, ed al comodo delle pubbliche riduzioni. Che a Dio fosse grata quest’opera la dimostrò un prodigioso fatto. Poiché uno degli artefici, che lavorava nella sommità dell’edificio, cadde improvvisamente, ed invocato nell’aria il protettore San Marco, poté attaccarsi cadendo ad un legno; onde poi con l’aiuto di una fune si pose in salvo.

E’ fama, che ad agevolare l’impresa di questa fabbrica cooperasse un certo artefice di cognome Barettiero, che inventando alcune casse di legno attaccate a funi con queste facilmente traesse in alto la calce, le pietre, e gli altri materiali inservienti al grande edificio. Merito di quest’uomo si dice essere pure l’alzamento delle due gran colonne, che si vedono erette nella pubblica piazza, e la prima erezione del ponte di Rialto costruito di legno. A queste popolari tradizioni altra se ne aggiunge; che egli in premio di sue ingegnose fatiche chiedesse, che fosse lecito a chiunque impunemente giuocare sulle basi delle colonne da sé erette; il che insieme con altre remunerazioni egli ottenne dalla munificenza del Dominio.

Non pochi furono i danni, che risentì questa sacra torre nello scorrere dei tempi. Poiché rinnovata in parte dall’architetto Montagnana nell’anno 1329, fu gravemente pregiudicata nell’anno 1400 da un incendio, causato dai fuochi di gioia per l’elezione del doge Michele Steno; ed appena restaurata, fu poi colpita da un fulmine nell’anno 1417, per cui si consumò tutta la sommità sino al luogo delle campane.

Perché però difesa fosse da eguale pericolo, ne fu rifabbricata di marmo la cima, e coperta di rame dorato. Non bastò però tale precauzione per preservarla. Poiché nell’anno 1490, scoppiato un orrendo fulmine ne fu precipitata: ma poi restituita fu in nobilissima forma, e vi fu ad ornamento e difesa soprapposto un simulacro di legno coperto di rame dorato rappresentante un angelo in atto di benedire, il quale mirabilmente si muove agli impulsi di ogni vento, che lo diriga. Patì poi danni, benché non gravi, causatigli da altri fulmini negli anni 1547, 1565, 1657, ed ai nostri giorni nell’anno 1745. Nel giorno 23 di aprile, in cui un fulmine radendo ne distrusse quasi intero un angolo, al di cui risarcimento furono usate quelle stesse casse pensili, che si adoperarono nella primiera erezione di esso. Scriveva il Sansovino nella sua Venezia, essere stati dal doge Pietro Tribuno sino dall’anno 885, disposti i fondamenti di questa gran torre. Ma comunque sia ciò, certo è, che l’intero merito ne vien attribuito al doge Domenico Morosini, sotto la di cui immagine posta nella Sala del Maggior Consiglio si legge scritto: sotto di me fu construtta l’opera mirabile del Campanile di San Marco, e furono rinnovati i tributi di tutta l’Istria.

Anche questi tributi, dei quali parla l’iscrizione, fecero un aumento alle rendite della Ducale Cappella. Poiché il valoroso doge si portò alla conquista dell’Istria nell’anno terzo di suo dogado, e di nostra redenzione 1151, ne rese le città per patto tributarie alla chiesa, ed alla fabbrica di San Marco. Pola fu obbligata all’annua offerta di due mila libbre d’olio, Rovigno alla contribuzione di una stabilita somma di soldo, Parenzo a venti arieti da consegnarsi al doge, e 15 libbre d’olio alla sua cappella, Umago ad una certa quantità di danaro, ed Emonia, altrimenti detta Cittanova, a quaranta libbre d’olio per le lampade di San Marco. Tanto si ha da pubblici documenti, dai quali pur si rileva, aver nell’anno 1117, Ponzio Conte di Tripoli donata una casa, posta in Tripoli presso il mare, acciò i procuratori di San Marco a nome della loro chiesa perpetuamente la possedessero. Così pure la comunità di Fano, avendo nell’anno 1141 giurata fedeltà a San Marco, ed al doge di Venezia Pietro Polani, promise di contribuire per l’illuminazione della chiesa del Beatissimo Marco Evangelista mille libbre d’olio ogni anno.

Né le rendite sole, ma anche il decoro di questa basilica venne accresciuto in quei felici tempi, nei quali l’armi vittoriose della Repubblica sostennero le sacre conquiste fatte dai principi confederati nella Palestina. Poiché Baldovino, di questo nome primo re di Gerusalemme, orato agli aiuti dei veneziani, fra le altre prerogative concesse loro sue chiese, l’una in Tiro, e l’altra in Accone, ambe dedicate a San Marco, e le unì perpetuamente alla di lui chiesa in Venezia; donativo, che fu poi confermato insieme con altri nell’anno 1166 da Alessandro III, con diploma dato nel giorno 13 di maggio a Leonardo Fradello procurator di San Marco. Anziché essendo poi insorte contra il ius dei veneti varie pretese dell’arcivescovo, e canonici di Tiro, Clemente, Celestino, e Innocenzo, tutti e tre sommi pontefici terzi di tali nomi, con iterate bolle confermarono il possesso dei veneti, e le prerogative delle chiese ad essi assegnate. Perché però la veneta giurisdizione fu quelle chiese fosse anche più ferma e cautelata, Papa Innocenzio IV, nell’anno 1247 le soggettò immediatamente alla sede apostolica, stabilendo un censo di due bisanti, ossia monete d’ oro, da pagarsi alla camera apostolica nella solennità d’Ognissanti.

Frattanto nell’anno 1177, giunse in Venezia Alessandro III sommo Pontefice per stabilire con l’imperatore Federigo Barbarossa la pace, ed accolto con venerazione ed allegrezza, dopo aver decorata la Basilica di San Marco con ampie indulgenze, celebrò in essa un concilio, ove si conchiuse la pace fra la Chiesa, e l’impero, ed i rispettivi loro collegati. Fra Padri, che intervennero al concilio, vi fu anche Hermanno vescovo di Bamberga, che poco dopo essendo passato all’altra vita nella stessa Ducale Basilica ebbe la sepoltura.

Nuovo ornamento aggiunse nell’anno 1211 Angelo Faliero, solo procurator di San Marco, alla ricca palla dell’altare maggiore, arricchendola di molte perle, e gemme preziose per comando del doge Pietro Ziani; di cui pure fu merito l’erezione della cappella nel Palazzo Ducale dedicata al prodigioso San Niccolò, che fu poi decorata da Urbano V, nell’anno 1313 di spirituali Indulgenze a favore di chi visitandola somministrasse elemosine in soccorso dei carcerati custoditi nel Palazzo Ducale.

Patì poi i danni del terzo incendio la ducale chiesa di San Marco nell’anno 1230, sotto il dogado di Giacomo Tiepolo, successore del Ziani, allorché nel giorno susseguente all’Epifania accesosi casualmente il fuoco nel santuario, ove si conservavano con le sacre suppellettili anche gli antichi diplomi dei privilegi ducali, e le venerabili reliquie, tutto in breve ora miseramente consumò liquefacendo i metalli, e tutto il rimanente riducendo in cenere e carboni; poiché nulla valse industria umana ad estinguerlo, finché poterono le cose contenute nel luogo somministrare alimento alle fiamme. Nulla dunque più restando da consumarsi, mentre si compiangeva la grave perdita, fu veduta fra carboni ancora fumanti la Croce Santissima del segno del Signore con suoi ornamenti mirabilmente illesa, e poco dopo fu ritrovata anche l’ampolla dove vi era il vero sangue del signore con la sua cartolina legata al collo, ove era scritto, Sanguis Chisti: il tutto prodigiosamente preservato, quantunque molte ampolle, ed altri vasi di cristallo si fossero tutte consumate e distrutte.

Si rinvenne indi fra gli stessi carboni una cassa di legno, in cui si conteneva parte del cranio del precursore San Giovanni Battista, tutta all’intorno abbruciata, eccetto che nei luoghi, ove toccava la sacra reliquia, involta in un panno di seta, lavorato alla greca. Miracolo sì manifesto servì di consolazione nel grave dolore di veder perduto in un momento e consunto un sì pregevole tesoro di reliquie sacre, e di documenti. Levate dunque tosto le preservate reliquie furono d’ordine pubblico in luogo più sicuro decentemente riposte. Innalzato poi alla suprema dignità della patria nell’anno 1342 Andrea Dandolo procurator di San Marco, essendosi nell’anno in circa XII del suo principato scoperto il corpo del martire Sant’Isidoro, che in luogo occulto (come dicemmo) riposava, comandò, che a di lui onore eretta fosse una decente cappella; ed altra pure costruire ne fece al principio dell’atrio accanto del Palazzo Ducale, ove era riposto il battistero, nella quale anco, come egli destinò, gli fu eretto il sepolcro. I lavori a mosaico fatti ad ornamento di questa cappella, fra quali vi è pure l’immagine di San Pietro Orseolo, vestito d’abito monastico bianco e nero, diedero intero compimento nella chiesa, e nell’atrio agli ornamenti di tal genere, che poi accresciuti furono, allorché nell’anno 1330, sotto il governo del doge Francesco Foscari fu eretta presso la cappella di Sant’Isidoro un’altra Cappella dedicata alla Gran Madre di Dio, la di cui soffitta travagliata a mosaico fu lodevole opera di Michele Zamboni, che vi rappresentò eccellentemente la vita di Maria Vergine.

Vien denominata comunemente questa cappella della Madonna dei Mascoli, perché in una confraternita, ivi al di lei culto annessa, non è permesso d’aggregarsi, che ai soli uomini, restar dovendone escluse sempre le femmine. Fu instituita questa pia radunanza nell’anno 1211 nel sotterraneo della chiesa, che si chiamava Confession di San Marco, ed indi, per essersi reso dall’umidità impraticabile il luogo, fu trasportata all’altare della Beata Vergine, e finalmente per concessione del doge Antonio Priuli assegnata all’altare di questa cappella. Questa fabbrica diede il totale compimento alla fabbrica della chiesa, la quale al giorno d’oggi si ammira, e solo nei suoi lavori a mosaico venne di tratto in tratto o ristorata, o abbellita. Così fu ella rinnovata nei mosaici delle cupole rovinate per un incendio, che nell’anno 1419 attaccarono maliziosamente al Palazzo Ducale alcuni scellerati; fu ristorata poi nell’anno 1429 per altro incendio casualmente accesosi nella soffitta della chiesa.

Come però la struttura di questa chiesa, i diversi lavori, le iscrizioni sono in più di un libro esattamente esposte, ed il nuovamente produrle servirebbe più al tedio, che all’erudizione, così per non deviare notabilmente dal mio oggetto di scriver solo la storia delle chiese, mi sia lecito darne un breve ragguaglio, massimamente trattandosi di una basilica, che se ben (come nota il patriarca Daniel Barbaro nei suoi commentari sopra Vitruvio) non affatto pregevole per la sua architettura, pure è sopra ogni altra stimabile per la sceltezza dei marmi orientali, e per la ricchezza dei suoi abbellimenti. E‘ tradizione riferita da alcuni dei recenti scrittori, che dopo il funesto incendio eccitato dal popolo furioso contro il doge Pietro Candiani IV fosse decretato dal Dominio, che ad onore del loro protettore San Marco fabbricare si dovesse un tempio il più bello, che fosse al mondo.

Ne assunse à l’impegno un certo architetto storpio di tutte e due le gambe, e promise di far un’opera di tutta perfezione e magnificenza, della quale non si potesse trovar la più augusta; a condizione però, che nel luogo più cospicuo della basilica gli fosse innalzato un simolacro di marmo. Promise a nome pubblico il doge; ma mentre andava osservando la fabbrica pressoché a compimento ridotta, espresse l’incauto architetto, che sarebbe ella stata anche più magnifica, se intervenute non vi fossero alcune cose a lui troppo moleste. E bene, soggiunse il doge, e noi pure resteremo liberi dal patto della promessa, che vi abbiam fatto. In memoria di ciò, si dice, essere stato ordinato, che in uno degli archi di marmo, che attorniano la cima della porta maggiore, fosse espresso l’architetto, appoggiato con le sue ascelle sopra due legni, in atto di porsi il dito alla bocca, quasi dolendosi di sua garrulità. Fu ristorata poi questa maestosa porta nell’anno 1344.

Nell’anno dunque 977 sotto i fortunati auspici di San Pietro Orseolo doge, fu cominciata la rinnovazione della chiesa, opera grande, che richiese al suo compimento il lavoro di quasi un secolo, essendosi a perfezione ridotta sotto Domenico Contarini doge nell’anno 1071. La facciata esteriore della chiesa ordinata con architettura diversa dall’interno apre cinque maestose porte, ad ogni una delle quali si vedono soprapposti lavori di mosaico esprimenti per la maggior parte la traslazione del corpo del titolare San Marco. Si erge questo prospetto sopra 148 colonne di scelti marmi, ed oltre seicento se ne numerano nell’interno della chiesa, alle quali aggiungersi devono trecento in circa, che nel basso dei fondamenti sostengono il pavimento. Nel più alto della facciata sopra la maggior porta si vedono eretti quattro cavalli di metallo dorato tanto lodati dal Petrarca, dei quali è controversia fra gli scrittori delle cose greche, se fossero da Costantino tolti in Roma, ove adornavano l’arco trionfate di Nerone, o pure da Teodosio il Grande trasportati da Scio, e disposti a, decoramento dell’imperiale palazzo in Costantinopoli.

Sette porte danno l’adito all’atrio, ed otto all’interiore della chiesa, le di cui pareti si dentro che fuori tutte si vedono coperte di antico marmo greco, sparso di ben disposte vene, fra le quali attesta Alberto Magno aver veduto la testa di un re coronato e con lunga barba così espressa dalla natura. Si vedono nell’atrio quattro sepolcri, in tre dei quali giacciono Vitale Faliero, Marino Morosini, e Bartolommeo Gradenigo doge, e nel quarto è sepolta Felizia moglie di Vital Micheli doge, lodatissima principessa. Otto colonne di marmo antico nero e bianco orientale si vedono disposte a solo ornamento della porta maggiore interna dell’atrio, delle quali corre voce, che prima dall’antico tempio di Gerusalemme a Costantinopoli, e poi da essa imperiale città a Venezia fossero trasportate.

Dall’atrio a man manca vi è passaggio alla chiesa, il quale a man diritta vien interrotto da una cappella, ivi formata per la sepoltura del cardinale Giovanni Battista Zeno, il di cui deposito maestoso di bronzo scorgersi situato avanti l’altare. Su questo disposti si vedono i simulacri di Maria Vergine e dei Santi Giovanni Battista e Pietro, tutti e tre di bronzo formati, dei quali quello della Vergine tenendo uno dei piedi coperto dal sandalo, o sia scarpa alquanto fuori della base diede causa al nome della cappella chiamata volgarmente della Madonna della Scarpa. Accanto all’altare a man sinistra vi è un’immagine della Santissima Vergine scolpita in marmo di mezzo rilevo, e vicina vi si vede riposta una tavola di marmo con tre forami, e con un’iscrizione greca, che così suona: L’acqua che mirabilmente fu prodotta da una pietra per l’Orazione del Profeta Mosè, ora esce per cura di Michele Imperadore di Costantinopoli, quale con la sua consorte Irene sia conservato da te, o Cristo. Tali parole diedero ansa all’errore popolare, che questa sia la pietra, onde Mosè ne trasse le acque al popolo sitibondo nel deserto.

Nella prossima cappella del Battistero, in cui son sepolti i dogi Giovanni Soranzo, Andrea Dandolo, vi è sull’ altare un’antica cattedra di marmo, la quale, prima che nella chiesa si disponesse l’altare del Santissimo Sacramento, era situata dietro all’altare sotto la tribuna della cappella maggiore. Questa asserisce il Dandolo esser la sede del Beatissimo Marco Evangelista, che Eraclio imperatore tolta aveva da Alessandria, e mandata poi in dono a primigenio patriarca di Grado. Se in quei tempi della primitiva chiesa povera e perseguitata sedessero gli apostoli in maestose sedi ne lascio agli eruditi critici il giudizio; tanto più che in essa cattedra si vedono scolpiti i quattro animali geroglifici degli evangelisti, uno dei quali, cioè San Giovanni, scrisse il suo vangelo dopo il martirio del nostro evangelista San Marco. Nell’interiore della mensa riposano molte ossa dei Santi Fanciulli fatti trucidare da Erode, e alla destra parte si vede infisso nel muro un marmo quadrato asperso di macchie sanguigne, fu cui si dice aver per comando d’Erode il giovine depositato il sacro suo capo il precursore di Cristo.

Entrando poi per la porta del Battistero nella chiesa vi è vicina la porta del Santuario, sopra la quale sono ad opera di mosaico formate le immagini dei Santi Domenico e Francesco, che popolar tradizione vuole fossero comandare per istinto profetico dall’abbate Gioachino nel XII secolo, del che eruditamente ne trattano gli Scrittori Bollandisi al Tomo VII di maggio, ed al I di agosto. Di altre figure pose nel pavimento pur si dice, essere state ordinate dal detto abbate, come i due leoni, l’uno pingue nell’acqua, l’altro dimagrato in terra, significanti i diversi stati della Repubblica, ed i due galli che portano una volpe legata al palo, con che si crede significato Lodovico Sforza astutissimo duca di Milano, cacciato dal suo dominio dagli eserciti di Carlo VIII e di Lodovico XII re di Francia.

Il primo altar che s’incontra passato il santuario, è dedicato alla Santissima Croce, di cui una riguardevole porzione vi si conserva in decoroso reliquiario, e si dice esser quella che seco portava nelle battaglie Enrico fecondo degli imperatori latini, che dominarono in Costantinopoli. Prima che nell’anno 1618 fosse posta in questo altare l’adorabile reliquia della croce, da cui poi si denominò, dedicato era a San Leonardo, a cui onore fu instituita sotto il doge Andrea Dandolo una confraternita di devoti, che indi passò a piantarsi nella chiesa di San Salvatore, segue poco lontano un piccolo altare di marmo con la statua di San Giacomo apostolo eretto dal doge Cristoforo Moro, ed indi ascesi pochi scalini, una cappella, detta di San Clemente papa, nella di cui mensa si conservano, oltre alcune del martire titolare, varie e preziose reliquie.

Sotto la gran cupola della cappella maggiore si erge il sacro altare, sotto cui, come probabilmente si è congetturato, riposa il Beatissimo Evangelista titolare della Basilica e protettore della Repubblica, e dietro di esso altare sotto piccola cupola dorata, sostenuta da quattro colonne d’alabastro, si conserva l’adorabile sacramento dell’eucaristia in piccolo, ma elegante altare.

La vicina cappella a man diritta è dedicata al principe degli apostoli San Pietro, di cui si conservano nella mensa alcune reliquie unitamente con altre di alcuni apostoli. Indi scesi pochi scalini, vi è l’altare con la statua di San Paolo apostolo, fabbricato anche questo dalla pietà del doge Cristoforo Moro. Nell’altare poi, che dopo questo si vede, dedicato alla gran Madre di Dio, si conserva una di lei prodigiosa immagine, che come dipinta da San Luca si venerava già famosa per miracoli nell’imperiale città di Costantinopoli. Non lungi da questo altare è situata la cappella di Sant’Isidoro, ed indi quella della Madonna dei Mascoli, che dicemmo essere stata innalzata nel tempo del doge Francesco Foscari.

Altro altare eretto in angusta tribuna, sostenuta da otto colonne, anticamente era situato sulla pubblica piazza, ora si vede appoggiato alla base del pilastro maggiore, che a parte destra sostenta il tempio, ed in esso si venera un’antica immagine di Gesù crocifisso, della quale si conosce per tradizione, che trafitta da uno scellerato col pugnale spargesse sangue.

Quantunque però, secondo la consuetudine delle cose umane, quel primo fervore di devozione al santissimo evangelista si fosse per il corso degli anni assai intepidito, contuttociò viveva ancora appresso le nazioni estere la certezza del nostro possesso, e la fama degli illustri miracoli operati a gloria del santo. Che però Lodovico XI re di Francia volle dare un manifesto segno di sua venerazione, facendo offrire sull’altare del santo trecento scudi d’oro per mano dei suoi ambasciatori.

Alcuni anche dei sommi pontefici accrebbero con tesori d’indulgenze il decoro di questa basilica, ai di cui temporali vantaggi assegnò Innocenzio VIII, nell’anno 1487, il priorato benedettino di San Giacomo di Pontida diocesi di Bergamo, la di cui unione fu poi confermata da Papa Clemente VI nell’anno 1525. Leone X altresì unì a questa basilica nell’anno 1519 il monastero di San Pietro in Valle, posto nella diocesi d’Arbe; e nell’anno 1521 alcune chiese della diocesi d’Adria, la concessione delle quali fu poi confermata da Adriano VI nell’anno 1522. Finalmente Giulio III nell’anno 1551 dichiarò unita alla Basilica Ducale di San Marco la chiesa parrocchiale di Santa Maria di Nanto, situata nella diocesi vicentina.

Esposta fino qui la storia di quest’illustre tempio, altro non resta, che numerare i più pregevoli dei suoi tesori, cioè le sacre reliquie, e poi in cronologica serie disporre i nomi dei primiceri, che le spirituali cose di essa basilica amministrarono.

Fra tutte le venerabili reliquie quella deve prima nominarsi, che è la più preziosa, cioè l’ampolla, che contiene alcune poche gocce del sangue prezioso, il quale fu dal doge Enrico Dandolo insieme con una porzione della Santissima Croce, con parte del cranio di San Giovanni Battista, ed un osso del braccio di San Giorgio martire, acquistata nella felice espugnazione di Costantinopoli, e mandata in dono alla Ducale sua Cappella. Come tre di queste reliquie si conservassero prodigiosamente illese dal fuoco, lo scrisse in varie sue lettere l’anno 1265. Il doge Reniero Zeno, che per mezzo di alcuni regolari ne volle avvisati il papa, ed altri riguardevoli soggetti ecclesiastici. Il vaso di cristallo è di forma rotonda, e d’altezza quanto il pollice d’una mano per lunghezza con il coperto d’oro, nella di cui parte superiore si vede scolpita in un diaspro orientale la figura di Gesù sulla Croce, e negli angoli si legge scritto in lettere greche Gesù Cristo re della gloria. Così pure all’intorno vi sono scolpire greche parole che suonano: Haime Cristo che portò il sangue della mia carne. Si chiude la venerabile ampolla in altro vaso di puro oro.

Alcune altre poche gocce del divino sangue si chiudono in una piccola teca d’oro posta in un reliquiario d’argento dorato, e di forma quadrata, in cui si conserva una riguardevole porzione della Santissima Croce, ivi riposta da Maria imperatrice d’Oriente, che dal Tiepolo nel suo trattato delle Reliquie vien creduta Maria Armeniaca, moglie di Andronico I di questo nome, imperatore di Costantinopoli nel 1183 e dal celebre Montsocon si dice moglie di Niceforo Botoniate, imperatore nel 1078. Che questa fosse la croce mirabilmente preservata nell’incendio dell’anno 1230 lo attesta un’iscrizione incisa nel rovescio dello stesso reliquiario.

Altra croce d’insigne grandezza formata del vivifico legno si venera nel sacrario, la quale (come dalla greca inscrizione situata negli estremi angoli del reliquiario si dimostra) fu della pia imperatrice Irene, che dopo la morte dell’imperatore Alessio Comneno suo marito, fu da Giovanni suo figlio succeduto nell’impero aspramente trattata, e rinchiusa in un monastero, ove vedendosi vicina al suo fine, lasciò per estremo attestato di sua religiosa pietà questa croce, nobilmente legata in argento dorato, alla chiesa patriarcale di Costantinopoli.

Una terza reliquia del legno della Santisima Croce dell’altezza di un palmo, e della larghezza di due terzi di palmo, si vede chiusa in una teca d’argento quadrata con iscrizione greca, da cui si rileva essere stata questa venerabile reliquia posseduta già da Costantino patrizio prefetto delle galere imperiali, per di cui cura fu adornata con ornamenti d’oro e di perle. Ella ha nei quattro angoli in lamine d’argento rappresentati i Santi Arcangeli Michele, e Gabriele, e i Santi imperatori Costantino, ed Elena di lui madre.

Di non dissimile figura vi è pure altra teca, a cui si vede legato uno dei chiodi, che confissero il redentore sulla croce. Queste due antichissime tavole, nelle quali si conservano pegni così preziosi di nostra redenzione stettero per tre secoli in circa nascoste in luogo oscuro del santuario, finché scoperte nell’anno 1468, furono prima con solenne pompa esposte alla pubblica adorazione del popolo nella festa dell’Esaltazione di Santa Croce, ed indi collocate sopra l’altare del santuario. Furono anche nella stessa occasione ritrovati tre sassi, strumenti del martirio di Santo Stefano, ed altre ossa dei santi, i nomi dei quali riporteremo a suo luogo.

Molti altri frammenti del vivifico Legno disposti in ornatissimi reliquiari si conservano nel santuario, fra i quali è notabile uno, che chiuso in argentea teca, fu cui si vedeva inciso lo stemma di un papa di casa Medici, fu mandato dal sangiacco di Bossina in dono al doge Andrea Gritti, e da esso per consiglio del patriarca Girolamo Querini fu collocato nel Santuario.

Le altre poi insigni reliquie nello stesso santuario conservate sono queste: Quattro spine della corona del signore donate già alla Repubblica da San Luigi IX  re di Francia, allorché ricuperò le reliquie impegnate ai veneziani da Balduino II imperatore di Costantinopoli.

Due frammenti della colonna, a cui fu legato Gesù Cristo nella sua flagellazione. Un’ampolla del sangue miracoloso, che scaturì dalla celebre immagine di Gesù Cristo trafitta dai Giudei nella città di Berito. Un coltello con cui (come vien detto) San Pietro tagliò l’orecchio a Malco. Si narra, che questo coltello fosse acquistato in Costantinopoli nell’anno 1447 da Paolo Foscari, vescovo di Patrasso, da cui fu mandato in dono a Polidoro Foscari, vescovo di Bergamo, suo nipote, e che poi da uno dei suoi eredi consegnato ai padri Cappuccini fosse da questi consegnato alla custodia del ducale santuario. Alcune reliquie degli strumenti, che servirono alla Passione del Redentore, cioè croce, colonna, spine, e sponga, i quali, disposti in una ben ornata cassetta, furono acquistati nella battaglia che diedero vicino al fiume Taro i principi confederati all’esercito di Carlo VIII re di Francia, come scrive l’Argentone nel libro VIII della sua Storia. Una porzione delle fasce di Gesù Bambino, ed alcuni frammenti della porpora, della cintura, e della Sacra Sindone, che lo copri nel Sepolcro. Alcune reliquie spettanti alla Santissima Vergine, cioè dei capelli, del velo, della veste, e della cintura, ed un’ampollina, in cui si dice esservi del di lei latte.

Un calice di agata in cui si conserva porzione del cranio del precursore, parte delle ceneri del quale si conservano in una cassetta d’argento. Due teste dei santi Innocenti trucidati per comando d’Erode. Tre interi ossi di San Pantaleone, ed una teca di argento, in cui si conserva del sangue dello stesso beatissimo martire. Il dito pollice di San Marco Evangelista, coperto di carne incorrotta, con l’intera sua unghia, posto in reliquiario d’argento, ed un dente dello stesso collocato in altro decente reliquiario di forma antica. Due ossi interi di San Giorgio martire, ed altri due ossi pur interi di San Magno vescovo di Eraclea e protettore della città. Una cassa d’argento, in cui sono riposte le reliquie di alcuni Santi martirizzati in Trabisonda. Due articoli delle dita di San Cristoforo martire, che con la sua grandezza denotano la statura gigantesca del santo martire. Un articolo di un dito di Santa Marta vergine, ed un dito intero ed incorrotto della santa di lei sorella Maria Maddalena.

La sacra testa di San Tito primo vescovo di Candia, la quale nel giorno terzo di gennaio, in cui si celebra la di lui festa, vien esposta alla pubblica venerazione. La sacra testa del martire Sant’Isidoro, che nel giorno festivo di sua traslazione 16 aprile, collocata sull’altar maggior della chiesa, vien per decreto pubblico visitata dal Dominio, e da ambi i cleri. Una coscia di San Sabba abbate; ed un intero osso di San Luca Evangelista. Due ossi interi dei Santi martiri Sergio e Bacco; ed una gamba di San Teodoro martire. Una costa di Santo Stefano protomartire, ed alcune reliquie dell’ossa dei Santi Bartolommeo apostolo, Gregorio il Grande papa, e Pigmenio vescovo di Gortina in Candia. Ventiquattro riguardevoli reliquie, possedute prima dal cardinal Francesco Commenduno, e poi da Clemente VIII donate a Giovanni Delfino, allora ambasciatore in Roma per la Repubblica, ed indi cardinale di santa chiesa.

Si espongono queste annualmente all’altar maggiore della chiesa nel giorno della Natività di San Giovanni Battista: la reliquia del di cui cranio è collocata nel mezzo di queste, che sono: Un osso intero, una costa, ed alcuni frammenti di ossa di San Matteo apostolo. Un osso intero, una cosa, ed un altro piccolo osso di San Filippo apostolo. Due ossi, ed un pezzo di mascella con quattro denti di San Biagio vescovo e martire. Un osso intero della schiena di Santa Severa vergine. Una parte di osso di San Paolo apostolo. Una parte di osso di Santo Stefano protomartire. Una parte di osso di Sant’Anastasio vescovo. Dell’ossa dei Santi Bartolommeo, e Matteo apostoli, di San Tommaso Cantuariense vescovo e martire, di Agrizio vescovo, e di Lucia vergine e martire. Delle ossa dei Santi Andrea, Giacomo Maggiore, Giacomo Minore, e Simone apostoli, di Lorenzo Martire, e Martin vescovo.

Delle ossa dei Santi Cleto papa, Dionisio, Ignazio, e Policarpo martiri, di Girolamo dottore, e di Brigida vedova. Dei Capelli della Beata Vergine Maria. Porzione di una costa di San Pietro Apostolo. Dell’osso del dito di Santa Lucia vergine e martire. Della veste di San Giovanni Evangelista. Del coltello, col quale furono trucidati Santi Martiri Tebei. Un dente di Santa Agnese. Della veste bianca di nostro signor Gesù Cristo. Delle ossa dei Santi Daniele Profeta, e Lazaro vescovo. Del cranio di San Basilio il Grande dottore. Del Legno della Santissima Croce. Una parte di osso di Sant’Antonio Abbate. Dell’osso del braccio di Sant’Anna. Della pietra del sepolcro di nostro signor Gesù Cristo. Del panno intinto del sangue di nostro signor Gesù Cristo. Si conervano altresì nel tesoro quattro Rose d’ oro, doni dei sommi pontefici, la prima di Sisto IV al doge Andrea Vendramino; la seconda di Alessandro VI al doge Agostino Barbarigo; la terza di Gregorio XIII al doge Sebastiano Veniero; e la quarta finalmente di Clemente VIII a Morosina Morosini, moglie del Doge Marino Grimani.

Dall’altra parte del santuario si vede il luogo, ove si conserva il tesoro della chiesa ricco di gemme, di vasi, di pietre orientali, e di altre preziose suppellettili, con le quali nei giorni più solenni si adorna l’altar maggiore della chiesa. Fra questi vi sono dodici pettorali d’oro, adornati di preziose gemme, e dodici corone pur di egual lavoro, quali (come si ha per tradizione) servivano d’ornamento ad altrettante donzelle di Sant’Elena imperatrice. Disposti in bell’ordine vi si ammirano pure un vaso di smeraldo, ed altri di rarissime gemme orientali, un diamante donato già alla Repubblica da Enrico III, allorché dal Regno di Polonia, che lasciava, portandosi in Francia ad assumerne la corona, passò per Venezia, ove fu accolto con trattamento veramente reale; pendono appesi fra queste gemme due corna di rinoceronti, (come si vuole) terrestri, e varie altre rarità d’ oro e d’argento considerabili anche più per il lavoro, che per la materia, di cui sono formate.

Come la cosa più riguardevole di questo tesoro vi si mostra un antico codice pergameno contenente il Vangelo di San Marco scritto in latino, il quale nei tempi più lontani si conservava nella Metropolitana d’Aquileia, ed essendo invalsa voce, che scritto fosse di mano dello stesso evangelista, Carlo IV imperatore ne ottenne in dono alquanti fogli, da Niccolò patriarca d’Aquileia suo fratello, e li mandò alla Cattedrale di Praga. Gli altri fogli poi, che formavano il più grosso del volume, furono in occasione delle guerre, che turbarono quella provincia, trasportati a Cividale di Friuli, dalla quale città divenuta poi suddita della Repubblica li portò per ordine del senato a Venezia Niccolò Corso, allora pievano di San Barnaba, e dopo primicerio della Ducale Basilica di San Marco.

Pregevole pur anche è il dono trasmesso dal pontefice Niccolò V nell’anno 1449 alla Repubblica di una spada adornata con lavori d’oro, e di argento, e di un elmo benedetto, che fattane vendita al doge Pasquale Malipiero, nè credendosi dal senato, ciò essere di pubblico decoro, comando, che si recuperassero, e sì riponessero nel tesoro, e che la ricca spada benedetta dovesse essere portata in quelle visite ecclesiastiche, nelle quali vi intervengono il doge e il senato.

Narra Bernardo Giustiniano nella sua Storia, che un certo Stamati nativo di Candia, entrato una fiata con la famiglia di un Principe a veder il tesoro, notasse accuratamente tutte le circostanze del sito, ore poi smossi i marmi, e traforate le pareti entrasse furtivamente nel santuario, e per cinque continuate notti lavorando ne rubasse le gemme, ed i più preziosi ornamenti, che nascose poi in sua casa. Scoperto poi per divino volere il furto, ed il reo, fu ricuperato il tesoro, ed il miserabile pagò con la vita sul patibolo la pena di sua temerità.

Detto si è di sopra, esser le cose spirituali di questa basilica dirette da un primicerio, dignità instituita primieramente per la privata Cappella del Ducale Palazzo, ed indi assegnata a decoro della basilica, allorché fu eretta per deporsi il corpo del santo evangelista suo tutelare. (1)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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