Chiesa e Monastero di Santa Maria dell’Orto o di San Cristoforo vulgo Madonna dell’Orto

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Chiesa della Madonna dell'Orto - Cannaregio

Chiesa di Santa Maria dell’Orto o di San Cristoforo vulgo Madonna dell’Orto. Monastero di monaci Cistercensi. Monastero demolito

Storia della chiesa e del monastero

La prima religiosa famiglia, che abitasse nel monastero, ora volgarmente chiamato la Madonna dell’Orto, fu l’ordine dei monaci Umiliati, istituito da San Giovanni Meda in Milano. Marco Tiberio da Parma, generale di questa congregazione, con le elemosine raccolte dal popolo veneziano fondò la chiesa, ed il monastero circa la metà del secolo XIV, col titolo del martire San Cristoforo. Al sollecito compimento delle fabbriche mentre egli con ogni diligenza attendeva cessò di vivere nell’anno 1371, uomo illustre per meriti e per virtù, e fu decorosamente riposto in una particolare sepoltura di questa chiesa non per anche interamente finita. Perché però con celerità potesse ella ridursi a perfezione, concesse il Consiglio di Dieci nel giorno 8 di aprile dell’anno 1377, che sotto l’invocazione del santo martire titolare, instituirsi potesse una devota compagnia, affinchè con le pie elemosine dei confratelli si terminasse interamente. Mentre dunque va incamminandosi al suo fine il lavoro, accadde, che nello scavarsi la terra in un orto contiguo al monastero, fu ritrovata una devota immagine di marmo rozzamente formata, rappresentante Nostra Signora col Divino Figlio fra le braccia, la quale acquistata tosto dai confratelli della scuola suddetta fu collocata nell’oratorio ad onore di San Cristoforo da essi recentemente eretto.

Conviene credere, che la chiesa, ed il monastero dal sopra lodato Marco Tiberio fabbricati fossero con assai debole struttura. Poiché, come consta da un autentico documento segnato nel giorno 8 di settembre dell’anno 1377, il governatore, e compagni della scuola di San Cristoforo assentirono, che la sacra immagine si traducesse nella Chiesa di San Cristoforo, perché dell’elemosine offerte per essa acquistate costruire si potesse di nuovo la chiesa e il monastero. Più forte prova di ciò ne dà un decreto del Maggior Consiglio emanato nel giorno 11 di novembre dell’anno 1399, col quale si assegnano dal pubblico erario duecento ducati d’ oro per il restauro della chiesa di San Cristoforo di Venezia, che per la maggior parte cadeva.

Si tradusse dunque il venerabile simolacro nella Chiesa di San Cristoforo, ove risplendendo con grandi, ed evidenti miracoli, diede occasione che la prima denominazione si cambiasse in quella della Madonna dell’Orto, con cui poi prosegui ad essere comunemente chiamata. Vaghi di così specioso titolo i confratelli impetrarono dal Consiglio di Dieci nel giorno 5 di giugno dell’anno 1420, che per il merito di avere essi acquistata, e donata alla chiesa la prodigiosa immagine, dovesse per l’avvenire chiamarsi la loro Scuola di Santa Maria dell’Orto, titolo che per nuova permissione dello stesso consiglio accordato sette giorni dopo, fu cambiato in quello di Santa Maria Odorifera.

Da tali mutazioni di nome nacquero dei dissensi fra i confratelli. Poiché alcuni di essi per la divozione, che conservavano viva verso il santo martire titolare, separatisi dagli altri stabilirono la loro compagnia sotto il doppio titolo di Santa Maria dell’Orto e di San Cristoforo. Accresciuti poi fra le due divise confraternite i motivi delle discordie, passò quella di Santa Maria Odorifera ad unirsi nella Chiesa di San Marziale con altra antica scuola fondata già nell’anno 1296, sotto il titolo di Santa Maria di Grazia. Di tal unione stabilì il permesso l’autorità del Consiglio di Dieci nell’anno 1424 che confermò alla Scuola detta dei Mercanti il nome di Santa Maria dell’Orto e di San Cristoforo. A questa poi si unì altra antica confraternita stabilita fin dall’anno 1261, appresso la Chiesa di Santa Maria Gloriosa dei frati minori, volgarmente detti i Frari, sotto il titolo di Santa Maria dei Mercanti, e sotto la protezione del serafico San Francesco d’Assisi; onde la denominazione della Scuola di San Cristoforo si dilatò al triplice nome di Santa Maria dell’Orto, di San Cristoforo, e di San Francesco.

Non stette però molto tempo il virgineo simolacro in custodia degli Umiliati. Poiché essendosi quei miserabili religiosi talmente rilassati nel loro costume, si ché divenuti erano un pubblico scandalo alla città, ed insoffribile essendo, che nell’universale contaminazione della famiglia il più lordo dai vizi fosse il superiore, stabilì il Consiglio di Dieci di formar esatto processo contro quei monaci, che tali divenuti erano solo di nome.

Rilevata dunque legalmente la verità degli abominevoli e detestabili delitti per i quali la casa di orazione divenuta era spelonca di tutti i vizi ed iniquità, indirizzò il suddetto Consiglio fortissime istanze in sua lettera segnata nell’anno 1461 al Pontefice Pio II, tutta esattamente descrivendogli la gravità degli eccessi, e fervorosamente pregandolo, che conceder volesse facoltà all’ottimo patriarca di Venezia Andrea Bondumiero di riformare lo scorretto monastero, introducendovi virtuosi regolari, che servissero con zelo a Dio, e compensassero i pravi esempi degli Umiliati.

Ammise il Pontefice le giuste premure della Repubblica, e con vigoroso diploma commise al patriarca la riforma del monastero, e la punizione dei rei. Portatosi però il prelato al monastero per dar col castigo degli scandalosi monaci una qualche soddisfazione alla città irritata contro di essi, trovò che tutti atterriti dal rimorso di loro colpe, si avevano con la fuga sottratto alla certezza dell’imminente pena, avendo lasciato alla custodia del sacro luogo due frati francescani apostati dell’Ordine, nei quali andava del pari la malizia con l’ignoranza. Perché però un luogo così illustre, e per i prodigi della virginale immagine tanto frequentato dal popolo, non restasse negletto, ed il divino culto insieme con la regolare osservanza rifiorisse fra quei chiostri, tradusse in essi dal Monastero di San Giorgio in Alga il saggio patriarca alcuni di quei canonici secolari con sommo compiacimento del Consiglio di Dieci, il quale spedì toso a Roma Niccolò Sagondino suo segretario per ottenere prestamente dal pontefice la conferma di quanto aveva operato il Patriarca.

Frattanto mentre si va disponendo il diploma dell’approvazione, il generale degli Umiliati, a cui non era sortito ottener dal Consiglio di Dieci la restituzione del luogo, operò con tal efficacia appreso il pontefice, che variando pensiero commise al suo nunzio dimorante in Venezia di dover ritornar gli Umiliati nel possesso del monastero, escludendone perciò gli introdotti canonici. Turbò tal notizia gli animi di quei senatori, onde con replicate lettere comandarono aI Sagondino, che dovesse tutti per l’intero manifestare al pontefice i gravi misfatti di quegli scorretti monaci, implorandone la provvidenza all’oggetto del divino servizio, e nello stesso tempo avvertisse il generale, che non desistendo egli d’opporsi al pubblico volere vedrebbe ben presto i suoi religiosi cacciati da tutti i monasteri, che essi possedevano nel dominio della Repubblica.

Mosso però dalle gravissime cose ad esso esposte, il pontefice approvò l’espulsione degli Umiliati dal veneto monastero, a condizione però, che o nella metropoli, o nello stato dei veneziani fosse loro assegnato un altro domicilio, quantunque allora quella congregazione possedesse 14 monasteri dentro i confini del dominio veneziano.

Così stabilite quasi a maniera di compensazione le cose, finalmente determinò con apostolico diploma il sopra lodato Pio II, che nel Monastero di Santa Maria dell’Orto restare dovesse soppresso l’Ordine degli Umiliati, in di cui luogo subentrasse al possesso la Congregazione dei Canonici Secolari di San Giorgio in Alga, illustre allora per la qualità dei soggetti, e per l’esemplarità dei costumi.

Perché però quei canonici, che ivi destinati erano al divino servizio, non avevano rendite sufficienti al loro sostentamento, Antonio dei Lauri piovano della Chiesa di San Martino di Venezia, rassegnò nell’anno 1477, a lor favore, il priorato di San Michele di Mirano, diocesi di Padova, da lui ottenuto in commenda, e che in vigore di sua rinunzia dal pontefice Sisto IV nel giorno 14 di maggio fu unito al Monastero di Santa Maria dell’Orto. Ad ornamento di questo sacro luogo, ed a profitto dei canonici ivi abitanti, il cardinale Girolamo Aleandro uomo celebre per l’esimia dottrina, e protettore della congregazione, lasciò in legato la cospicua sua libreria, la quale trasportata poi al Monastero di San Giorgio in Alga, ivi perì per un fatalissimo incendio.

Per due secoli in circa si conservò la congregazione dei Canonici Secolari in possesso del sacro luogo, finché avendo Clemente IX nel giorno 6 di dicembre dell’anno 1668 estinta l’intera congregazione furono i di lei monasteri con le rendite destinati a sussidio dell’asprissima guerra, che sosteneva la Repubblica veneziana contro dei turchi per la difesa di Candia.

Opportuna fu una tale occasione per i monaci Cistercensi, i quali con grave incomodo di lor salute per l’insalubrità dell’aria abitavano nell’antico e rovinoso Monastero di San Tommaso di Torcello. Avevano già destinato questi religiosi di trasferire la loro residenza in Venezia, ed a tale oggetto acquistata avevano una vasta casa nella Parrocchia di Santa Margherita con permissione del Senato, e con l’autorità del pontefice Clemente VIII che ne confermò le condizioni dell’acquisto con apostolico diploma segnato nel giorno 24 di agosto dell’anno 1594, ma insorte poi alcune differenze si sciolse il trattato, e continuarono i monaci nella tolleranza della loro squallida abitazione. Esposto però fra gli altri in pubblica vendita il Monastero di Santa Maria dell’Orto fu dalla Congregazione dei Monaci Cistercensi, detta di Lombardia, liberamente acquistato nel giorno 5 di settembre dell’anno 1669, sottoscrivendone l’istrumento di vendita Lorenzo Trotti, Arcivescovo di Cartagine, Nunzio Pontificio in Venezia.

Riguardevole in questa chiesa è il simolacro gigantesco del santo martire titolare formato fu la proporzione anatomica di alcune sue reliquie che si conservano in diversi santuari della città, fra le quali una porzione d’osso della gamba trasportato già dall’Inghilterra a Venezia nell’anno 1470, e donato a questa chiesa; in cui pure si conservano alcune ossa dei Santi Fanciulli trucidati in Betlemme, ed alcune reliquie di San Maurizio martire, e di San Liberale confessore.

L’anniversario della consacrazione di questa chiesa si celebra per immemorabile consuetudine nel giorno 5 di settembre. (1)

Visita della chiesa (1839)

Licenziati dopo la metà dello scorso secolo i cisterciensi, passò la chiesa sotto il pubblico juspatronato, ponendosi ad ufficiarla un rettore ed alcuni sacerdoti. Avvenuto il restringimento delle parrocchie nel 1810, fu fatta oratorio della parrocchia di San Marziale, ed il suo annesso monastero fu ridotto a magazzino privato.

La facciata di questa chiesa sembra la stessa che si eresse da Tiberio di Parma, poiché tiene la semplicità e lo stile di quel secolo. Belle si riconosceranno, sulla sommità della porta, le tre statue di Bartolommeo Buono, esprimenti San Cristoforo, Nostra Signora e San Giuseppe, e belli in dodici nicchi, divisi in due parti, si troveranno gli apostoli, comunque paiano di altra mano. Né i restanti fregi che adornano la porta a nostro avviso andranno inosservati.

Entrando nell’interno, sopra il primo quadro alla destra si vedrà la magica tela di Jacopo Tintoretto colla Presentazione di Nostra Signora al tempio. Quella gradinata che si stacca per la grande figura posta in ombra al dinanzi; l’intero partito; le mosse e la grandiosità nei caratteri addomandano una particolare osservazione, né mai si sazieranno forse appieno.

Nell’altare sottoposto vi era un’altra meraviglia dell’arte. Giambattista Cima da Conegliano vi espresse il Battista nel mezzo: da un lato i Santi Paolo e Girolamo, e dall’altro i Santi Pietro e Marco. Stanno queste figure sotto una volta di fini marmi che segue l’architettura dell’ornatissimo altare. Ma qual precisione! quanto è bella la generale intonazione delle tinte! Lo stile è bensì di quella età ricercatrice di una pace celeste nelle opere dell’arte, ed uniformemente intesa per tutta Italia a produrre delicate immagini, riposate movenze, tinte leggere; e quindi campo aperto, contrapposti naturali, verità sola; tuttavolta vi è in quest’opera un carattere peculiare che sorge dal delicato sentimento di Cima: il delicatissimo tra gli altri pittori coetanei.

Tra i due altari seguenti è appesa al muro una tavola di Jacopo Palma il seniore. Oltre San Lorenzo martire con Sant’Elena e San Lorenzo Giustiniani da un lato e dall’altro San Gregorio papa e San Domenico. Stile veramente grandioso è in essa innovata però dal restauro si è per sopra più abbandonata al mezzo il restauro stesso.

Il veneto patrizio Girolamo Cavazza eresse vivente per sé stesso nel 1657 il ricco deposito che tosto si presenta. Giuseppe Sardi ne diede il disegno, e Giusto Fiammingo, e Francesco Caroiolo ne operarono le statue: tutto presenta il goffo di quell’età.

Ma bella soprammodo è la pala del vicino altare col martirio di San Lorenzo, dipinta da Daniele Wandich: c’è un gusto per entro che, sebbene altri non lo debba imitare, pure assai giova che sia osservato.

Nel buon altare della cappella a fianco della maggiore di scelto stile si scorge la tavola con Nostra Signora e San Benedetto nell’ alto ed i Santi Giuseppe e Romualdo al basso. Il quadretto del l’altarino sotto l’organo con la Beata Vergine, opera del Giambellino, è un vero gioiello. Se non che, egli è nella cappella maggiore dove ogni immaginazione si desta al vedere i due sterminati quadri laterali di Jacopo Tintoretto esprimenti i fatti che precederanno il giudizio finale in quello alla destra, e l’adorazione del vitello d’oro in quello alla sinistra. Il pittore, ardente dal desio di comparire grande, colse l’occasione di due tele si vaste per sfogare appieno l’inesauribile sua fantasia e la dottrina sua immensa nel disegno e nel colorito. Si noti pure di confusione la tela del Giudizio; ma a parte a parte se ne considerino i pensamenti: le montagne che si sciolgono, i fiumi che a rotta corrono a livellarsi col mare, il mare ed i monti vomitanti le creature; l’ansia in tutte; il cielo aperto, insomma tutto si consideri, e si vedrà come l’immaginativa di Tintoretto, sublimemente colpita da tanti effetti, si esprimesse con pari felicità, seppure di soverchio li accalcasse. Nell’opposto quadro ecco altro pittore tu vedi: ecco gaiezza, precisione. L’artifizio d’introdurre il Sinai, dove Mose riceve la legge, è diretto ad empiere la parte superiore del quadro. Alla prima discesa di quel monte vedi porzione di popolo che, sotto alcune tende, fa contrapposto a gran lume di cielo e procura al quadro un ampio spazio dove il pittore schierava Israele in mille guise atteggiato. Qual magistero non è posto in tutte quelle macchiette. Il gruppo più copioso poi delle figure, che nel cupo fondo della valle recano processionalmente il Vitello, è disegnato con tanta grazia, è dipinto con sé sì bello impasto che nessun’altra mano, per tali doti celebrata, l’avrebbe forse vinto. Si pensi a ciò che sarà stato un di questo quadro, se ne sottraggano le sofferenze del tempo, e poi si dica quale maestro fosse Tintoretto.

Degni di osservazione sono anche tutti i quadri disposti intorno all’altar maggiore del Tintoretto medesimo. I cinque superiori rappresentano la Fortezza, la Prudenza, la Religione, la Giustizia e la Speranza, ed i due ai fianchi dell’altare il martirio di San Cristoforo nell’uno, e San Pietro, che in abito pontificale osserva la Croce sostenuta da quattro angeli, nell’altro. Quegli angeli specialmente sbalordiscono lo spettatore per la bellezza della composizione, per la grazia e la leggerezza.

Ai piedi di questa cappella maggiore, presso l’organo, sta la tomba di Marco dei Vescovi dove pur sono le ossa di Jacopo Tintoretto ad una con quelle di Marietta e di Domenico suoi figli. Veduta la qual tomba si trascuri la cappella alla sinistra della maggiore, e condottisi ad osservare piuttosto tutti gli altari del lato sinistro della chiesa, diremo che nel primo stava la pala di San Lorenzo Giustiniani esistente ora nell’ Accademia di belle Arti, e che le due graziose nicchie di marmo a fianchi di questo altare dovevano capire forse i busti di Luigi Renier morto nel 1660, e del senatore Federico Renier morto nel 1662, poiché stanno sotto di esse incise le iscrizioni a loro onore.

Nell’altare seguente è bella opera di Matteo Ponzoni la tavola con Cristo flagellato; ma egli è nella contigua cappella di casa Contarini dove si vedrà la rara tavola di Jacopo Tintoretto col martirio di Sant’Agnese. Noi non sapremmo se in essa vinca il disegno sul colorito o questo su quello: la composizione è certo cosa eccellente e fa conoscere come nulla mancasse a quel grande ingegno. I muri laterali di questa cappella sono coperti da due moderni depositi in marmo magnifici, con sei busti di altrettanti personaggi della famiglia Contarini. Il primo è di Tommaso, morto nel 1617; il secondo, eseguito da Alessandro Vittoria, è di altro Tommaso, morto nel 1573; il terzo è del cavaliere Alvise, morto nel 1654; il quarto è del cavalier Carlo, morto nel 1688, il quinto che supera ogni altro in bellezza, fu eseguito dal detto Vittoria ed esprime il cardinale Gaspare morto nel 1542; il sesto finalmente è di Luigi cavaliere, morto nel 1579, nipote al detto cardinale.

Domenico Tintoretto dipinse la tavola colla nascita di Nostro Signore nella susseguente cappella; nella penultima cappella Pietro Mera fece quella con San Francesco d’Assisi, e nell’ ultima, condotta sulla maniera dei Lombardi, non vi è cosa che meriti considerazione.

Era altre volte mirabile il soffitto di questa chiesa per le belle opere di architettura dipinte sulla tavola da Cristoforo e Stefano Rosa; ma il tempo le distrusse. Il soffitto mezzo è diviso in sei comparti, in ognuno dei quali vi avevano quattro medaglioni ove erano espressi dei fatti cavati dalla Sacra Scrittura; ora tutto è perduto. Non si deve dimenticare essere sepolta in questa chiesa la famiglia dei Ramusi che diede individui distinti nei maneggi politici e nelle lettere.

È ammirabile per la grandiosità e per la solidità, non meno che per l’elegante forma con chi è condotta, la gran torre di questa chiesa, presso la quale sussiste ancora il locale della già scuola dei mercatanti, fabbricato nel 1570. Quella scuola s’intitolava da prima a San Cristoforo; ma come la chiesa si chiamò a Santa Maria dell’Orto all’atto della menzionata invenzione del simulacro della Vergine, tale mutazione di nome produsse dissensioni tra confratelli, si ché altri passarono ad instituire nuovo sodalizio a San Marziale, ed altri quivi rimasero, aggiungendosi ad essi un’antica confraternita, sotto il nome di Santa Maria dei Mercanti, stabilita sino dal 1261 presso la chiesa dei Frari; onde la denominazione di questa scuola divenne dei Mercanti. Non però era la sola confraternita addetta a questa chiesa dell’Orto, giacché vi era quella dei fornai, instituita nel 1447, ed avente il proprio locale a piedi del ponte nella calle che conduce al Campo dei Mori. Al cadere della repubblica era quell’arte legata a 60 posti, 46 dei quali erano soltanto aperti. C’era inoltre in questa chiesa la scuola di San Michele eretta nel 1452, ed un sovvegno detto di Sant’Antonio composto di varie arti. (2)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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