Il lusso nel Settecento, poppe posticce e deretani falsi
La mania del lusso nel Settecento era divenuta universale: le mogli e le figlie dei negozianti e dei bottegai volevano imitare le patrizie nello sfoggio e nella bellezza delle vesti, sembrano loro che soltanto vestite alla nuova moda “de la piavola de Franza” potevano aver diritto all’ultrui rispetto e interesse.
Il satirico poeta Dotti aveva sferzato quelle ridicole vanità: “moglie, figlie e nipotine, tutte vestono in mantò, tutte d’or le pettorine, e le cuffie di ponsò. Sulla gonna a falbala, nella fodra un piestè, per sottana un taffetà e le calze bien brodé“, ma senza costrutto, come pure invano minacciavano i provveditori alle pompe punizioni e castighi.
Le leggi però, con inutile persistenza, continuavano a combattere il lusso, comminando pene severe ai merciaioli che vendessero stoffe e guarnizioni proibite, indicando il modo come dovevano essere lavorate e ornate le vesti, ordinando di bruciare nel cortile del Palazzo Ducale le poppe posticce e i deretani falsi che venivano di Francia e vietando gli abiti che non fossero “di sola seda schietta et senza ornamenti di sorta“. Proibiti i manicotti di pelli rare, i drappi d’oro e i veli ricamati in argento, le maniche aperte, lunghe e pendenti, i monili smaltati, la agate, le corniole e gli aghi da tseta di filagrana, i guanti adorni di perle e i ventagli preziosi.
Nel 1781 il Maggior Consiglio sollecitava il Senato a provvedere contro il lusso che dissipava tante ricchezze, poiché “lo spirito di vanità e leggerezza si riproduceva di continuo in aspetti diversi e tanto più nocivi al sistema del nostro governo, quanto più lo sconcerto rende impotenti li patrimoni dei cittadini al servizio della Patria“. Fatica sprecata; il lusso continuava, anzi cresceva e quando si maritò Polissena Contarini con Alvise Mocenigo di San Stae aveva sulla sua persona tremilacinquecento brillanti che pesavano circa grammi millenovecento, quattrocentocinquanta perle e centonovanta rubini.
I gioielli delicati e graziosi del Settecento scintillavano alle orecchie, sulle mani, sulle braccia, sul capo, sul seno e tanta era la vanità e la moda che portavano gioie false quelle donne che non potevano averle buone e si vedevano “de perle anca i manini, ma de pasta de Muran“.
Perfino “li ventolini di vari fogliami adorni” descritti nel Cinquecento da Giacomo Franco si trasformarono nel Settecento in larghi e splendidi ventagli, fregiati di perle e di gemma, coi manichi di tartaruga, d’avorio, di madreperla o d’oro e talvolta con due lenti o due specchietti rinchiusi in bastoncelli tondi o piatti.
Le acconciature poi non conobbero limit, i “tupè” s’innalzavano a piramide, a vascello, a paniere, a ventaglio, a martello e c’erano anche le acconciature sentimentali, “au sentiment“, coi ritratti della madre e dei figli in miniatura, il canarino impagliato, i capelli dell’amico del cuore intrecciati e sostenuti con spilloni d’oro. Quando la nobildonna Ortensia Malipiero passeggiava per il “Liston di San Marco” pareva “un catafalco indian che se movesse” tanta era la pompa e l’esuberanza con cui il “conzateste” l’aveva acconciata. E tra le cittadine, per la loro ricchezza nel vestire alla moda francese, erano dal popolo ammirate Antonia Perazzo, Zanetta Casser, Felicita Colombini e tante altre che con il loro lusso volevano far concorrenza alle lussuose patrizie.
Era una mania che conduceva alla rovina economica e accanto al lusso smodato delle vesti, dei gioielli, della casa, non pochi patrizi consumavano, non solo le loro rendite, ma anche i capitali con il gioco, con i banchetti, con le feste. Le ipoteche intanto gravavano sulgi stabili, dice il Costantini, e i creditori sospiravano i pagamenti. Si ricorreva allora al credito largo e facile dei conventi pagando gli interessi e lasciando agli eredi la cura di soddisfare il debito intero. E fu questa la causa principale della subita rovina di molte case patrizie, poiché caduta la Repubblica e soppresse le confraternite religiose si dovettero vendere palazzi, campagne, gioielli per pagare i crediti dei conventi, che il nuovo governo esigeva senza indugio.
Ben a ragione la musa popolare anonima si scagliava contro il lusso: “Pianzarave da despeto, qualche volta co ghe penso, al gran lusso maledeto, introdotto in sta cità“. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 27 settembre 1929.
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