Leonardo Donato o Donà un doge impopolare

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Sala dello Scrutinio. Pietro Bellotti (attribuzione). Ritratto di Leonardo Donato

Leonardo Donato o Donà un doge impopolare

Alla morte del doge Marino Grimani venne eletto il 10 gennaio 1606 Leonardo Donato, cavaliere e procuratore di San Marco. Di alto ingegno e di dottrina profonda, era l’uomo più adatto per cercare di comporre le vertenze che allora correvano tra la Repubblica e la corte di Roma.

Religioso ma non bigotto, assiduo compagno di Andrea Morosini nel “mezzato” della cui casa a San Luca sul Canal Grande, vicino al palazzo Farsetti, si raccoglievano fraternamente a discutere Galileo, il Sarpi con il fido fra Fulgenzio Micanzio, Giordano Bruno e Santoro Santorio, egli era un alacre sostenitore dei diritti della Serenissima. Alla sua elezione il Senato e quasi tutti i patrizi provarono grandissimo contento, ma il popolo no: lo si diceva avaro perché era avverso alle feste, perché non amava le usanze fastose e le inutili spese e difatti per la sua nomina non volle nessuna solenne cerimonia: sobrietà meravigliosa e meravigliosa modestia in quel secolo spendereccio e lussuoso.

Quando Leonardo Donato uscì dalla chiesa di San Marco dopo ascoltata la messa e montò nel “pozzetto” per il solito giro intorno la Piazza, la folla era grandissima in attesa che il nuovo doge gettasse i denari tradizionali ad ogni elezione.

Il pozzetto “sotenuto da huomeni della Maestranza de l’Arsenal” avanzava preceduto da altri arsenalotti armati dei famosi bastoni rossi che facevano largo tra la folla e sul pozzetto accanto al doge sventolava il gonfalone caudato di San Marco, ma solo all’altezza della chiesa di San Geminiano il Serenissimo gettò una manata di “piccioli dinari” e poi mentre il corteo faceva il giro ritornando verso il Palazzo Ducale, più nulla.

Cominciò qualche fischio e “principiarono i putti a gettar della neve, della quale in quei giorni ne cade in gran copia et dalla neve vennero i sassi” con alte grida, imprecazioni e contumelie. I bastoni degli Arsenalotti picchiarono sodo, ma il popolo sempre più s’inaspriva e tumultuava “onde nel tumulto della baruffa nell’entrare nella porta del Palazzo, dalla calca si ruppe l’asta che sul pozzetto sosteneva lo stendardo della Repubblica et le Maestranze li camminarono sopra non vedendolo nella baruffa“. Dall’alto della scala dei Giganti comparve Missier grande con la sua veste paonazza e la lunga scimitarra al fianco, seguito da alcuni fanti del Consiglio dei Dieci e la folla a quella vista continuò a gridare ma si disperse sebbene lentamente; venne fatto qualche arresto e ritornò una certa quiete, se non proprio la calma, poiché gli animi adesso erano turbati per la caduta del gonfalone “et correva tra il vulgo voci che predicevano grandi sciagure“.

Il popolo non perdonò mai a Leonardo Donato quel tumulto da lui provocato: quell’anno vi fu gran carestia per le tempeste dell’estate che levarono nello Stato della Repubblica un terzo delle biade, il popolo mormorava: “L’è colpa del Dose!“; a Spalato, soggetto alla Serenissima, scoppiò la peste “la quale crebbe di maniera che stinse la maggior parte degli habitanti” e il popolo ripeteva sempre: “L’è colpa del Dose!“; e quando nel principio del 1608, il freddo “fu così insolito che superò le memorie degli huomeni e cadé così gran copia di nevi che non si poteva andar per le strade né uscir dalle case” il popolo continuava nella sua solita antifona: “L’è colpa del Dose!“.

La sua condotta severa, irremovibile, ispirata ad un altissimo amore di patria, contro il famoso interdetto proclamato da Paolo V ai danni di Venezia non fu compresa dal popolo che aumentò il suo rancore, sobillato dal partito gesuitico che teneva per la curia di Roma. E quando qualche anno più tardi il principe Leonardo si recò il 2 febbraio a visitare solennemente la chiesa di santa Maria Formosa, il popolo, anziché festeggiarlo, cominciò a strepitare e a ricordargli i meriti del suo predecessore gridando: “Viva il doge Grimani padre dei poveri!“.

Per tale fatto il doge si accorò e non volle più partecipare a cerimonie, tanto che il popolo non avendolo veduto nella visita del Redentore si mormorò per tutta la città che “verrà un giorno in cui vorrà andar in chiesa et non potrà“.

Leonardo Donato morì dopo sei anni, sei mesi, sei giorni di dogado e corse tra il popolo la voce che nella stanza dove egli agonizzava si udissero strane urla e grida e si vedessero fantasmi paurosi. Egli fu sepolto la notte del 17 luglio 1612 nella chiesa di San Giorgio Maggiore e le solite cerimonie si fecero tre giorni dopo, recando un cataletto contenente il simulacro di stucco del doge defunto. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 13 dicembre 1929

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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