La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). XII parte

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Ritratto di Andrea Gritti, provveditore generale in campo al tempo della guerra di Cambrai, eletto doge nel 1523

La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). XII parte

Si riprendono le armi

Nella necessità dunque di riprendere le armi, scriveva il provveditor generale Andrea Gritti a Treviso, muovesse al riacquisto del Friuli, occupato in gran parte dagli imperiali. Favoriva là grandemente la parte veneziana Girolamo Savorgnan, che già da alcuni anni addietro, ascritto alla nobiltà veneziana, aveva nel settembre del 1509, con primo esempio, ottenuto di entrare come uno dei sessanta nell’aggiunta del Senato. Poterono per il suo favore i Veneziani ritornare in possesso di quella provincia; i nemici ributtati da Treviso contro al quale avevano fatto un tentativo, passarono sempre inseguiti la Brenta, e venuti anche ad uno scontro presso Soave perdettero monsignor de Rau borgognone capitano cesareo fatto prigione, e poco mancò non restasse preso anche il La Palisse. I Francesi si avviarono quindi verso Brescia e Milano, gli imperiali verso Trento.

In pari tempo l’esercito spagnolo e pontificio si avanzava nella Romagna; Pietro da Navarra, mandato dal viceré Raimondo da Cardona, s’impadroniva delle terre del duca di Ferrara poste al mezzogiorno del Po, solo resistendo ancora la bastita sulla fossa Geniolo, antemurale di Ferrara verso il Po d’Argenta, valorosamente difesa da Vestidello Pagano fino agli estremi. Cadde essa alfine, ma troppo importava al duca riaverla perché non avesse a fare questo scopo ogni possibile sforzo e vendicare in pari tempo il barbaro modo con che il suo valoroso capitano era stato dai vincitori messo a morte. Perciò diede egli stesso l’assalto a Geniolo in quel medesimo giorno, e benché ferito nel capo, vi entrò, e tutta la guarnigione spagnola vi fu trucidata.

Un tentativo del papa per riavere Bologna andò a vuoto, ma questi non erano se non episodi della guerra le cui sorti sembravano dover agitarsi nella Lombardia. Gli Svizzeri colà discesi minacciando Milano, avevano chiamato da quella parte il grosso delle forze francesi. Il 9 dicembre veniva a Venezia un Bernardo Morcceus di Schwilz, e riferiva al doge le cose operate dai suoi a vantaggio degli alleati, come si trovassero a due sole miglia da Milano, come sicura fosse la vittoria, solo chiedeva un rinforzo di quattrocento lance. Ma poi tanto apparato si ridusse a nulla, e gli Svizzeri per la seconda volta o perché mancassero loro le paghe o i soccorsi, o perché comprati dai Francesi, tornarono di là dai monti.

Congiura di Brescia, la città e presa, poi riperduta

Pure grandi speranze erano sorte nelle città di Lombardia di tornare sotto il dominio veneziano, e Brescia in specialità si mostrava impaziente di scuotere l’odiato giogo dei Francesi. Questi a contenerla col rigore avevano fatto decapitare il conte Giovanni Maria Martinengo, avevano mandato in Francia come ostaggi molti altri nobili, vi commettevano violenze e ingiustizie. Perciò il conte Luigi Avogadro che prima aveva parteggiato pei Francesi si prefisse di farsi liberatore della sua patria. E mentre cotali disegni volgeva per la mente l’Avogadro e offriva i suoi servigi alla Repubblica, altri nove gentiluomini bresciani si raccoglievano in sul principio del 1511 nella chiesa di San Domenico giurando sulla pietra santa fratellanza strettissima e perpetua a liberare la patria dal beffardo orgoglio di un esercito straniero. Erano questi: Valerio Paitone, Luigi Valgoglio, Giacomo Filippo Rosa, Francesco Rozzone, Galeazzo Fenarolo, Annibale Lana, Angelo Gandino, Gabriele Lantana, Gian Giacomo Martinengo, i quali mandarono parimenti le loro profferte a Venezia; poi, ad evitar confusione, le due congiure si unirono. Tutto era disposto; nella notte del 18 gennaio 1512 Andrea Gritti provveditore doveva trovarsi alla porta di San Nazzaro con l’esercito veneziano, essi al suo giungere si sarebbero di quella porta impadroniti e gliela avrebbe aperta. La congiura fu scoperta; alcuni dei congiurati, tra i quali l’Avogadro e il Martinengo, poterono salvarsi con la fuga. Per il fallito tentativo non si lasciò cader dell’animo l’Avogadro, anzi recatosi nelle valli Trompia e Sabbia tra i fiumi Mella e Chiese, chiamò alle armi tutti i montanari e gli abitanti del lago di Garda, e il 3 febbraio il Gritti si avanzava di nuovo verso Brescia, e dava l’assalto ad una delle porte. Mentre i Francesi erano colà affaccendati, una torma di contadini, rotta la grata che chiudeva il canale del ruscello Garzetta, ove questo sbocca fuori della città, per quell’apertura entrarono. Primo a lanciarsi nella città fu il valoroso Valerio Paitone. Ben tosto in tutte le contrade si sollevò un grido generale: San Marco!, San Marco!, fu alzata la bandiera veneziana, i Francesi incapaci a far fronte alla sollevazione si ritirarono nella rocca, la città fu liberata. La Repubblica non tardò a mandarvi come provveditore Antonio Giustinian e raccomandava vivamente ai provveditori dell’esercito di ben attendere alla conservazione di quella città e del ponte sull’Adige.

L’esempio di Brescia fu in breve seguito da Bergamo. La Repubblica confermò ad ambedue le città gli antichi privilegi, molto lodò la loro fedeltà, le confortò a continuarvi.

Già altri castelli, altre terre si ribellavano, quando Gastone di Foix ricevette a Bologna la notizia della ruina delle cose francesi in Lombardia; giovane, coraggioso, di un brillante valore, era però uno dei più feroci condottieri d’esercito, inesorabile coi suoi e coi vinti, in nessuno conto teneva la vita dei suoi soldati, pronto a tutto sacrificare per conseguire uno scopo. Così appena seppe della perdita di Brescia, che lasciato sufficiente presidio a Bologna, parti tosto col resto delle sue genti a quella volta, facendole camminare con una velocità fino allora inusitata. Per accorciare la via e giungere più direttamente, attraversò il Mantovano senza neppur attendere la licenza del marchese, penetrò nelle terre veronesi; scontrato il Baglione all’isola della Scala, dopo valorosa resistenza, lo mise in fuga e giunse innanzi Brescia il nono giorno dopo la sua partenza da Bologna. Di tanta iattura accusavano i Veneziani il viceré il quale si era astenuto dal tener dietro ai Francesi, come aveva promesso e come esigeva la ragion della guerra, e gli mandarono Marin Zorzi a sollecitarne le mosse, prevedendo che il nemico si sarebbe volto contro Brescia.

E già il nemico si appresentava infatti a questa, e riuscita vana l’intimazione, si apparecchiava all’assalto. Alle sopraggiunte truppe si congiunsero quelle che si erano ritirate nella rocca, tuttavia non sommavano a più di dodici mila combattenti, ma valorosi ed animati dalle parole e dall’esempio del lor capitano. Era tra i più valorosi il cavalier Bajardo che domandò l’onore di condurre il primo i suoi centocinquanta uomini d’armi all’assalto. Tutti erano smontati da cavallo e una minuta pioggia che cadeva, rendeva sdrucciolevole il terreno e difficile superare il bastione con cui il Gritti aveva circondato la città. Gastone di Foix diede il primo l’esempio di levarsi le scarpe e gli altri tutti l’imitarono, avvezzi come erano a tutti i disagi della guerra. Fumoso fu l’assalto, ostinata la resistenza, gli abitanti e le genti veneziane difendevano a palmo a palmo il terreno: finalmente il Bojardo superò per il primo il bastione, ma rimase malamente ferito in una coscia, e la sua caduta non fece che vieppiù irritare i suoi compagni d’armi, i quali superati i ripari penetrarono nella città. Non perciò sgomentati gli abitanti, ricorrevano ai mezzi estremi di difesa facendo piovere dalle finestre e dai tetti, tegoli, tizzoni accesi ed acqua bollente, e una seconda battaglia fu data sulla piazza del Broletto in cui ambedue le parti combatterono con sommo valore: tuttavia vincitori, i Francesi inseguivano i vinti di contrada in contrada; l’Avogadro ed il Gritti cercarono di salvarsi per la porta di San Giovanni, ma appena avevano fatto abbassare il ponte levatoio che si trovarono assaliti di fronte da Ivone d’Allegre e alle spalle da Gastone di Foix, e costretti ad arrendersi. Ebbero salva la vita; non così i loro soldati che furono tutti passati a fil di spada.

Orribile fu la strage, orribili il sacco, le violenze, le profanazioni che l’accompagnarono. Si tormentavano i cittadini perché palesassero i loro tesori, si tormentavano per capriccio: nessun rispetto a luogo sacro o profano, niuno alle donne di qualunque condizione, nelle case, nei palazzi, nei chiostri stessi. Solo il Bajardo volle salve da ogni insulto la signora che lo aveva accolto in casa e le sue due figlie; gli orrori durarono due giorni. Alfine Gastone di Foix vi pose termine e fece uscire dalla città le truppe, ma ordinò si decapitassero il conte Avogadro e i suoi due figliuoli. Tale fu la compassionevole sorte di Brescia.

Maneggi secreti di Gian Jacopo Trivulzio con Andrea Gritti per la pace

Ma non perciò migliorarono le condizioni di Francia. Si era il novembre 1511 concluso un trattato a Londra tra Ferdinando d’Aragona ed Enrico VIII, il cui scopo era, sotto pretesto di difendere il papa, quello di ricuperare gli Inglesi la Guienna, gli Spagnoli la Navarra. Difatti nel parlamento apertosi a Londra il 4 febbraio 1512 il re espose il suo divisamento di assaltare la Francia, sciogliere il concilio di Pisa e far restituire Bologna alla Chiesa. Ottenne considerabili sussidi, e benché poi la spedizione per gli inganni di Ferdinando, pago della riacquistata Navarra, non conseguisse effetto, tuttavia l’accumulamento di tanti nemici, mosse il Trivulzio a incaricare il Gritti suo prigioniero, di fare proposizioni d’accordo al suo governo. Rispose il Gritti non acconsentirebbe mai la Repubblica ad accomodamento stando le cose come stavano, poiché se avesse voluto cedere anche solo qualche parte del suo dominio, avrebbe potuto combinarsi con l’ imperatore a buone condizioni. A tali parole rimase il Trivulzio alquanto sospeso, e pensieroso gli disse: “Voglio che tu mi intenda, ben sai che di quello possede la Maestà del mio re non è a pensare a restituzione alcuna, ma ben si potrebbe di tutto il resto che la Repubblica ha perduto, non escludendo neppur le terre di Romagna, e son certo che la Maestà del re farà tanto quanto la Signoria saprà domandare”

Ricevuta dal Senato segretissimamente questa comunicazione per mezzo di Pietro Bressan segretario del Gritti, dava parole vaghe, che essendo la Repubblica collegata col papa e con Spagna voleva solo d’accordo con questi procedere. E intanto spingeva col mezzo del papa più che mai il componimento con Massimiliano, col quale infatti conclude va una tregua che durar doveva dall’aprile a tutto gennaio dell’anno susseguente.

Il che saputosi dal re di Francia, raccomandò al suo capitano in Italia, Gastone di Foix, di venire a qualche luminoso fatto prima che l’imperatore richiamasse i Tedeschi che militavano con le truppe di Francia. Dopo la presa di Brescia, era Gastone ritornato nella Romagna, e cercava trarre a battaglia il capitano spagnolo Raimondo di Carli che aveva sotto i suoi ordini mille cinquecento uomini d’arme, mille cavalleggeri, settemila fanti spagnoli e tremila italiani; si aspettavano inoltre seimila Svizzeri che il cardinale di Sion aveva promesso di condurre a comuni spese del papa e dei Veneziani. Ma il Cardona attendendo che l’invasione inglese obbligasse Luigi XII a richiamare le sue genti dall’Italia, metteva ogni impegno nell’evitare di venire a uno scontro decisivo. Allora il Foix si volse all’assedio di Ravenna, certo che il Cardona non avrebbe potuto lasciar prendere questa città sotto ai suoi occhi. E così avvenne per l’appunto. (1) … segue.

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo V. Tipografia di Pietro Naratovich 1856.

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