La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). X parte

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Hans Holbein il giovane. Scontro tra lanzichenecchi e mercenari svizzeri Hans Holbein il giovane

La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). X parte

La Condizione interna a Venezia

La condizione interna di Venezia non dava alcun segno di distretta, anzi il lusso, i piaceri, la sontuosità delle feste, i baccanali delle sagre, non che fossero smessi, sembravano ricevere aumento dalle pubbliche sciagure, sembravano volere con lo stordimento e con la sfrenatezza della gioia far dimenticare il dolore dei sinistri eventi.

Il carnovale del 1510 fu festeggiato, scrive il Priuli contemporaneo, (e le sue narrazioni sono confermate dal Sanudo), con tanta allegria, tante maschere, tanti balli e suoni come se si trovasse la Repubblica nei suoi più bei tempi. La notte precedente al San Giovanni fu vegliata dal popolo in bagordi e fuochi artifiziali, danze, canti e suoni per terra e per acqua. Alle nozze di Francesco Foscari di Nicolò nella figlia di Giovanni Venier capo dei Dieci, fu dato sontuosissimo pranzo al quale intervennero gli ambasciatori del papa, di Spagna, d’Ungheria, i figli del doge Leonardo Loredano, e si contarono fino a novantasei delle principali gentildonne della città, né bastando l’ampia sala al numero grande dei convitati che sommavano a quattrocentoventi, si banchettava anche nelle stanze attigue. Finito il pasto, il luogo si cambiò come d’incanto in un teatro con palco scenico e gallerie tutto intorno per le donne. Recitava la compagnia degli Eterni, della cui rappresentazione daremo qualche cenno a saggio del gusto d’allora. Sedeva il re su magnifico trono, era vestito d’argento con casacca d’oro alla greca, e cappello in testa; aveva ai lati due consiglieri, con un interprete e un cancelliere e tutto indicava esser egli per ricevere le congratulazioni e gli omaggi dei vari principi. Primo infatti ad avanzarsi fu il legato papale, vestito color di rosa secca, e alla foggia di vescovo, il quale presentato che ebbe un breve e la sua lettera di credenza, tenne ornato discorso, incoronò e benedisse il Re, poi chiese di veder ballare e due dame con due compagni degli Eterni intrecciarono vaghe danze. Finite le quali, il sedicente vescovo domandò licenza che si volesse ascoltare un suo Galeazzo da Valle vicentino che improvvisava versi accompagnandosi colla lira. Poi venne l’ambasciatore dell’ imperatore sponendo la sua missione in lingua tedesca, che era dall’interprete tradotta, e a cui seguirono ballo e musica; succedendo di mano in mano gli ambasciatori di Francia, di Spagna, di Ungheria, sempre chiudendo con balli analoghi alla nazione cui mostravano appartenere, e con una moresca fu festeggiato l’arrivo dell’inviato del sultano. Giunse infine l’oratore dei Pigmei sopra un cavalluccio e con lui erano quattro nani, facendo ridicoli lazzi ai quali aggiunse altresì i propri il buffone Zanipolo, accompagnandoli con salti e giuochi di destrezza. Si introdussero a cantare anche quattro villani e la festa fu prolungata molto oltre nella notte. Ma non tutte le rappresentazioni erano di questo genere capriccioso e burlesco, che spesso sorgevano qua e là teatri privati, nei quali si recitavano regolari commedie, molte volte di Plauto ed altre, ma con tanto poco riguardo al buon costume, che il Consiglio dei Dieci dovette reiteratamente vietarle. Il Miles gloriosus di Plauto fu recitato dagli Immortali con grande invito in palazzo Pesaro a San Benedetto, ove la corte fu coperta per modo a figurare il firmamento stellato, e negli intramezzi degli atti il Zanipolo vestito da negromante, fingendo scendere all’Inferno, faceva comparire questo con fuochi e diavoli e intrecciava balli ridicoli, poi ad un tratto si udiva una deliziosa musica di ninfe che si vedevano per correre la scena in un carro trionfale cantando una canzone d’ amore accompagnata dal batter di martelli dei Ciclopi che mostravano batter un cuore, e lo spettacolo si chiudeva coll’ azione mitologica del pomo di Paride”.

Alla splendidezza degli spettacoli corrispondeva, copie è facile immaginare, quella del vestito, e le stoffe di seta più preziose, i velluti, i drappi d’oro, i ricami più squisiti, gli ornamenti d’ oro e di gemme erano adoperati a dispetto delle leggi proibitive, con tanta profusione da dare una idea meravigliosa delle ricchezze veneziane ad onta delle spese enormi che seco portava la guerra, della perdita delle provincie, e dello scemamento dei commerci, onde frequenti erano i fallimenti e l’incertezza delle cose; i pericoli di nemici e di pirati, che infestavano i mari, avevano fatto salire i premi delle assicurazioni per le galee di Fiandra fino a quindici e più per cento, quando prima era una gara tra gli assicuratori per ottenere il quattro e mezzo; l’assicurazione per le galee di Barbaria dal due e mezzo andò al cinque.

Ma non c’era verso: il secolo XVI in Italia doveva essere in ogni sua città il secolo del lusso, dei godimenti, della magnificenza.

Intanto la guerra continuava. I Tedeschi perdevano Monselice, si combatteva da per tutto, ma senz’alcun fatto decisivo. Massimiliano sempre prometteva di ritornare e non veniva mai, Luigi privo dell’appoggio del cardinal di Roano, morto il 25 maggio, primo dei cardinali ministri che sì potentemente influirono nei destini della Francia, stanco di tener in piedi un esercito numeroso senza corrispondenti vantaggi, già minacciava a Massimiliano di richiamare il Chaumont, quando accaddero tali avvenimenti che dovevano far precipitare interamente le cose francesi in Italia.

Il carattere di  Giulio II

Animo grande, benché stizzoso e tenace, era quel 1510 di Giulio papa; pieno del suo concetto, formato da quando era stato assunto al pontificato, di ricuperar alla Chiesa tutti i possedimenti o scandalosamente dilapidati dai suoi predecessori, o non vigorosamente difesi contro le usurpazioni, per questo scopo, da lui forse stimato santo e conveniente alla sua dignità, nessun mezzo gli pareva indegno. Quindi abbattere il Valentino, quindi nimicarsi i Veneziani e, perché non pronti a restituire le domandate terre, scomunicarli, muover contro di loro tutta l’Europa; ma ottenuto quanto voleva, conseguita quella umiliazione che egli pensava doversi verso la sede apostolica, eccolo farsi inesorabile con quanti avversavano i suoi amici e protetti, e dichiarare di voler ricacciare dall’Italia quegli stranieri, che egli stesso vi aveva chiamati, scomunicare il duca di Ferrara e proclamarlo decaduto, perché si atteneva ai Francesi; maneggiare con Ferdinando il Cattolico, con Luigi XII, con Massimiliano sperando che dal conflitto di tanti differenti interessi avesse infine a riuscire la libertà d’ Italia. Era, convien confessare, uno strano liberatore!

Le vicende delle armi veneziane

Non dimentico di nessun diritto, di nessuna prerogativa della romana sede, si faceva a domandare a Ferdinando il Cattolico il sussidio di quattrocento delle lance in cambio di Spagna promettendogli in cambio l’investitura  del regno di Napoli. 

Della qual venuta di Spagnoli giustamente insospettita la Repubblica, scriveva al suo oratore a Roma, facesse attento il papa che non si volgessero poi ai danni di lei, mentre già mostravano avviarsi verso Verona per congiungersi con gli Imperiali, e perciò si adoperasse a far si che sotto il duca di Termoli, movessero piuttosto in soccorso delle genti veneziane contro Ferrara, dal che avverrebbe che i Francesi si metterebbero in sospetto degli Spagnoli, e Massimiliano, mancatogli l’appoggio di Francia, più facilmente acconsentirebbe alla pace.

Già i diecimila Svizzeri assoldati dai Veneziani erano penetrati nel Milanese, e benché la squadra veneziana presentatasi davanti Genova non pervenisse ad eccitarvi una rivolta, progredivano però le armi alleate nel Ferrarese, ove Giovanni Moro capitano generale riportava grande vittoria sul Po e cancellava la macchia della sconfitta del Trevisano; nella Terraferma altresì riacquistavano i Veneziani, Bassano, Cittadella, Asolo, Marostica, Belluno, rientravano in Vicenza e si presentavano, capitanati da Lucio Malvezzi, sotto Verona.

Gli Svizzeri intanto da Bellinzona, impadronitisi del ponte della Tresa, si volsero a Varese, poi per i deliziosi monti della Brianza si  inoltrarono fino a Como, ma quando i Francesi già impauriti si attendevano che fossero per passare l’Adda sopra zattere ove questo fiume esce dal lago di Lecco, eccoli ad un tratto tornarsene addietro alla Tresa e ridursi di nuovo alle loro montagne. Della quale improvvisa risoluzione variamente si cercarono i motivi, chi attribuendoli alla difficoltà dei paesi, chi alla mancanza di cavalleria; ma il più probabile si è che i danari del Chaumont non mancassero d’effetto sopra una truppa vendereccia, e che nelle guerre che intraprendeva per conto altrui, altra mira non aveva se non di arricchire.

Tuttavia se il capitano veneziano Lucio Malvezzi fosse stato più sollecito e più coraggioso nell’assalire i Francesi mentre erano in più parli divisi, e dalla calata degli Svizzeri sbigottiti, avrebbe assai probabilmente riportata piena vittoria, e riassicurate le cose della Repubblica nella terra ferma. Ma né egli, né il marchese di Mantova, liberato alle istanze del papa e rimesso alla testa dell’ esercito, fecero quanto avrebbero dovuto; ed è pur singolare come i Veneziani dopo le esperienze avute, e non potendo ignorare che se il marchese si fosse apertamente dichiarato contro i Francesi, i suoi Stati nel Mantovano restavano esposti alla vendetta loro, potessero nuovamente indursi ad affidargli le loro truppe. Difatti poco stettero ad insorgere i sospetti, e a questi seguì la certezza, che egli aveva accomodate le cose sue con Francia.

Sollecitava il Senato la presa di Verona alla cui difesa stava il duca di Termini o Termoli succeduto al morto principe Rodolfo d’Anhalt, con truppe spagnole, tedesche, francesi ed italiane. Tuttavia i Veneziani, benché inferiori di numero, avevano preso a battere con le artiglierie le mura della fortezza di San Felice sulla sinistra dell’Adige, e in capo a pochi giorni erano pervenuti ad aprire larghe brecce e si disponevano all’assalto, quando una vigorosa sortita notturna degli assediati scompigliò ogni cosa, e il Malvezzi, veduto il domani i suoi, caduti dell’animo, prese il partito di tornare agli alloggiamenti di San Martino a cinque miglia dal la citta.

Avevano però avuto i Veneziani a deplorare varie perdite, tra le quali principalmente quella del Lattanzio percosso dalle artiglierie in una coscia, e che portato a Padova poco dopo si mori, e del Gitolo da Perugia che alla sortita del nemico, uscito dal padiglione com’ era senza celata, con pochi dei suoi, correndo e gettandosi tra le file ostili, ne rimase ferito nel capo e gettato a terra, trafitto e morto.

Luigi XII raccoglie un concilio a Tours contro il papa

Luigi XII intanto altamente sdegnato contro il papa, ma volendo in pari tempo acquietare la propria coscienza, raccoglieva il ii settembre a Tours un concilio della Chiesa gallicana, il quale riprovando il contegno di Giulio, di chiarava poter il re legittimamente muovergli guerra, ed lo esortava a portare innanzi ad un concilio ecumenico da raccogliersi d’accordo con l’imperatore, le sue lagnanze contro il capo della Chiesa.

L’imperatore manda al sultano per farlo muovere contro i Veneziani

Ad armi di genere affatto diverso ricorreva dal canto suo l’imperatore: tanto erano confuse le idee, tanto violente le passioni. Egli mandava il conte Federico di Gorizia alla corte del sultano con lettere in data 1.° giugno da Augusta, con le quali si scusava che le lunghe guerre gli avevano per tanto tempo impedito di mandare suoi ambasciatori alla sublime Porta: non avergli la Repubblica veneta concesso il passo per andarsi ad incoronare a Roma, anzi avere insieme con i Francesi assalite le sue genti e toltegli alcune terre nel Friuli e nell’ Istria; tuttavia aver egli acconsentito ad una tregua; ma i Veneziani avendo riprese le armi, egli si era unito con vari principi contro la Repubblica, la quale aveva perduto la maggior parte dei suoi Stati; ora avere i collegati di nuovo fatta grande provvigione per terra e per mare, allo scopo di deprimerla del tutto: ora sarebbe dunque il tempo opportuno per il Turco d’insignorirsi delle terre marittime dei Veneziani, i quali si erano tanto spesso offerti di dar mano a cacciarlo dalla Grecia in Asia. I Bascià comunicarono la lettera a Ludovico Valdrino secretano del Bailo, mostrando non farne alcun caso, convinti, come dice vano, che erano tutte falsità. Si affrettò quindi la Repubblica a mandare anch’essa a Costantinopoli un oratore che fu Luigi Arimondo con la commissione che assicurar dovesse il Sultano dell’amicizia sua; che egli veniva incaricato di stabilire definitivamente i capitoli dei sussidi; doveva rappresentare i pericoli che minaccerebbero l’impero se i principi collegati riuscissero ad abbattere la Repubblica; proporre per un soccorso di diecimila cavalli pagati, la somma di ducati dodicimila l’anno al sultano sua vita durante, ma i soccorsi venissero prontamente e operassero nel Friuli contro Massimiliano. L’oratore a viemeglio confortare il Turco doveva fargli conoscere che lo stesso papa era contro i nemici dei Veneziani, che questi l’aiuterebbero dal canto loro nelle sue occorrenze, se dubitasse per il ritorno delle sue genti, essi ne farebbero il trasporto per mare. Difatti dalla Valona passavano i Turchi nella Puglia, benché non paia che grandi cose vi facessero, ma bastanti per porgere il destro a re Ferdinando d’Aragona di richiamare il duca di Termini con le quattrocento lance spagnole da Verona e farle rientrare nel regno. (1) … segue

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