La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). VI parte

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Pierre-Jules Jollivet. La Battaglia di Agnadello (particolare). Versailles, chateaux de Versailles et de Trianon

La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). VI parte

Operazioni di guerra

Francesi avevano già cominciato le ostilità in Lombardia, e d’accordo con loro operavano Francesco Gonzaga marchese di Mantova, entrato anch’egli nella lega, e Francesco Maria della Rovere nipote e capitano delle genti del papa in Romagna. Le genti veneziane, comandate dal conte di Pitigliano con il titolo di capitano generale e da Bartolomeo d’Alviano con quello di governatore generale, si trovavano raccolte a Pontevico, luogo posto sull’Oglio a sette leghe di Brescia, e dal campo si scriveva la sera del 29 aprile come l’esercito si trovava ben disposto ed eccellentemente animato, come il capitano e il governatore erano stati tutto quel dì a consulta, e avevano deliberato di passare sul territorio nemico, solo varie essere ancora le opinioni in ciò, che alcuni pensavano doversi gettar sul Mantovano, altri passando l’Adda sul Milanese.

Diversità di opinioni tra i due comandanti veneziani Bartolomeo d’Alviano e il conte di Pitigliano

L’Alviano, d’animo ardito e intraprendente, voleva andare adirittura alla volta di Lodi e passar l’Adda, tenendo per fermo che i Francesi non sarebbero in grado di resistergli poiché non ancora raccolti e non presente il re; molto potersi ottenere da rapide mosse che ogni loro consiglio sventassero. E sebbene il Pitigliano, uomo cauto, stimasse che sarebbe un arrischiare troppo ad un colpo e che meglio valesse attendere alla difesa dei propri confini e riacquistare quei luoghi che di qua dall’Adda erano venuti nelle mani del nemico, tra i quali principalmente Treviglio, dopo lunga discussione fu vinto il partito dell’Alviano.

Tuttavia scrittone al Senato, anche in questo diverse erano le opinioni, propendendo Andrea Venier e Giorgio Emo non si dovesse passar l’Adda se non con grande vantaggio, mentre invece Andrea Tron e Paolo Pisani volevano si scrivesse ai provveditori Giorgio Corner e Andrea Gritti rimettendo in loro, che erano sopra luogo e meglio conoscevano la vera condizione delle cose, la decisione; e questo partito fu vinto con centocinquantadue voti contro trentatré.

Dopo di che Alvise Mocenigo savio di terraferma propose che passando l’Adda, le truppe veneziane avessero a gridare Italia e libertà e portassero uno stendardo con le parole Defensio Italiae acciò i popoli Milanesi e di altre terre si persuadessero non essere l’intenzione dei Veneziani volta ad alcuna conquista, ma solo a liberare Milano e cacciare i Francesi dall’Italia. Ma la proposizione, qualunque ne fosse il motivo, tuttavia non Italia fu neppur libertà ballottata.

Tuttavia Italia e libertà erano le grida fra le quali le genti veneziane respingevano un corpo di Francesi che si era attentato di passar l’Adda, poi si volgevano al riacquisto di Treviglio, che veniva presa e data al sacco; tutta la guarnigione francese fu spogliata delle arni e rimandata con giuramento, molti distinti capitani furono spediti prigioni a Venezia. Il Senato scrisse lettere al campo molto lodando la buona riuscita di quell’impresa e bene augurandosene per l’avvenire.

Imprudenza di quello e sconfitta alla Ghiaradadda

Ma fu speranza illusoria. Il bottino di Treviglio disordinò le truppe, molti di quei soldati poco avvezzi alla disciplina se ne andarono a vendere gli oggetti predati nelle città vicine; gli stradioti ed altre genti che si attendevano, tardavano. Del che profittarono i Francesi per passare l’Adda a Cassano, luogo acconcio per la sua postura elevata, circondato da un canale del fiume che facendone un’isola il rafforza, piantato allora d’alberi opportunissimi a coprire le guerresche operazioni e alle imboscate. Dal qual luogo, il re venuto intanto egli stesso all’esercito, mosse contro Rivolta, posta pure sulle ripe dell’Adda, che non poté a lungo difendersi, poi verso Pandino nella speranza di presto avere Cremona. Il qual pensiero gli sarebbe assai probabilmente andato fallito, se l’esercito veneziano tenendosi nella sua vantaggiosa posizione avesse evitata la battaglia, costringendo il re a ritirarsi per la mancanza dei viveri, cosa temuta dal suo vecchio capitano Gian Giacopo Trivulzio che il passaggio dell’Adda aveva sconsigliato. Ma non seppe contenersi l’Alviano e il suo ordine di combattere, ogni cosa guastò. Lasciato il forte alloggiamento per far fronte ai Francesi comandati dal d’Amboise, s’era avanzato verso di essi: collocati i suoi fanti con l’artiglieria sopra un argine elevato lungo un torrente allora asciutto, assalì impetuosamente la cavalleria nemica sopra un suolo coperto di vigneti che le impediva il libero movimento e la respinse.

Intanto però arrivava il re con il grosso dell’esercito, mentre invece quello del Pitigliano si rimaneva ancora addietro; una dirotta pioggia sopravvenuta aveva reso sdrucciolevole il terreno; tuttavia il valore del generale si era trasfuso nelle sue genti le quali sostennero per ben tre ore con ammirabile intrepidezza il terribile urto: la fanteria italiana dei Briseghella, distinta per le sue casacche bianche e rosse, si mostrò degna della sua riputazione e del suo capitano Naldo da Briseghella da cui prendeva il nome. Ma alfine le truppe della Repubblica accerchiale, incalzate, non sostenute a tempo dal Pitigliano, furono messe in rotta, l’Alviano stesso ferito in volto fu preso, grande fu il numero dei feriti e dei morti, intanto l’esercito del Pitigliano rimasto salvo poté tranquillamente ritirarsi per attendere i nuovi eventi.

Relazione della battaglia dello stesso Alviano

Tale fu l’esito della battaglia di Vailate o di Agnadello nella Ghiaradadda, combattuta il 14 maggio 1509 e che apriva la serie di quelle sciagure che condur dovevano la Repubblica agli estremi.

Abbiamo una relazione della battaglia esposta dallo stesso Alviano in Collegio al suo ritorno dalla prigionia di Francia. “Ordinato l’esercito istruttissimo di duemila lance e ventimila fanti e andato in campo, fu consultato quello che si aveva a fare. Io che era ultimo a dir l’opinione mia perché voleva udir mio padre conte di Pitigliano, et acciò li condottieri aderissero alla mia opinione, dissi: era mia opinione andar su quel del nemico avanti giungesse il re a Milano e era gran ben metter in fuga gl’ inimici e dar cuor ai nostri. Il conte non fu di opinione, dicendo: non par di principiare, e così ser Giorgio Corner e ser Andrea Gritti provveditore si lasciarono intender che questo era il voler del senato. Onde visto non poter far quello era il ben dell’impresa, dissi andiamo verso ponte Molin per aver quel passo, e li feci fare un bastione. In questo mezzo ebbesi avviso che i nemici francesi i quali non erano ottocento lance e diecimila fanti erano venuti a Cassano, e io pur desiderando spingermi avanti feci tanto che venimmo verso Brescia e fu scritto a Vostra Sublimità le opinioni nostre e massime la mia di andar contro i nemici e ne fu rescritto in campo (che) tra noi si consultasse il meglio. In questo mezzo si ebbe la nuova che i nemici avevano preso Trevi, onde dissi al conte non era più d’aspettare. E così venimmo col campo più avanti e giunse la Maestà del re in campo, che valse assai la sua venuta, ed io pur volendo passar, mai non furono della mia opinione; che Dio volesse si avesse ciò fatto. Di comune accordo si andò a ricuperar Trevi onde usai ogni sforzo che non fosse saccheggiato per non invilir l’esercito, ed ebbi in questo grandissima fatica. E voleva fortificar e munir Brescia e il castello di Cremona che del nemico poco mi curava avendo tanto esercito quanto avevamo. E ridotto il campo nostro presso all’Adda (dove si diceva il re a Cassan voleva passar di qua e (io) sapeva non si poter tenere un esercito (che) non passi una fiumara lunga), et ordinato li colonelli, tutti stavano preparati; e perché sapeva di ora in ora li andamenti de’nemici (e in questo spendeva assai e val molto ad un capitano ) onde intesi adì . . . maggio come là notte i francesi passavano di qua e andai dal sig. conte e gli dissi se volesse andare ad obstarli, rispose esser notte e s’indugiasse alla mattina, che poi si consulteria. E io mi disperava; se era solo gli andava all’incontro e li rompe va certo. E pensava dove volessero andare. Se andavano a Cremona noi li eravamo alle spalle; a Crema no, perché era fortissima, ed essendo il re passato di qua d’Adda con l’esercito, io per inanimar li nostri li faceva scaramucciar insieme ogni giorno, inanimandoli che questo voleva perché coll’esercito avevamo, sperava indubitata vittoria. E intesi per spie, che d’ora in ora sapeva quello facevano i nemici, che volevano andar a prender l’alloggiamento di Pandin che è sito fortissimo e star li e ne avrebbero tolto la via delle vittuarie perchè se venivano a Charazo (Caravagio?) over a quelli lochi, io era di opinion passar Adda e andar a Milan ch’è poco forte e si avrebbe avuto. Ed in questo m. Giorgio Corner era amalato e io lo confortai si partisse di campo perché non era bisogno di uomini inutili. Et cosi adi . . . maggio fatto consulto col capitano conte di Piligliano, che lo teneva per mio padre, e cogli altri, e con m. Andrea Gritti fu concluso levarsi anche noi e per un’altra strada di qua di loro, qual era segura ed in mezzo di uno fosso, andar prima di loro a torre detto alloggiamento di Pandin e con questo presupposto se i nemici torneranno sono mezzi rotti, se vorranno venir a giornata etiam saranno rotti pel grande esercito avevamo e sull’ avvantaggio noi all’alto e loro alla bassa e convenivano venir per tre vie sicché ad ogni modo sperava certa vittoria. E cosi col nome di Dio quella mattina del giorno Infortunato si levamo anche noi e loro. Cavalcavamo in ordinanza tutti e come fu l’ ora . . . sentii l’artiglieria trarre e mi fu detto che i nostri s’erano appiccati (col nemico) cioè le fanterie della compagnia di Jacopo da Spoleto qual era antiguardia. E perché la compagnia era disordinata sonammo alto per ridurla. Ma i nemici fatto alto, mandai a dire ni capitano che stesse in ordine e facesse metter li elmetti in testa agli uomini d’ arme perché s’ era appiccata ( la zuffa) ed io andai avanti ad ordinar il fatto d’ arme. Il sig. Conte mandò, premergli che gli andassi a parlar; dissi non era tempo ed era un miglio lontano che tanto teneva il campo nostro e più. Onde convenne venir per me m. Andrea Gritti e mi fu forza lasciar il dato buou ordine al combattere e sopra un cavallino andar da detto capitano il qual era molto impaurito, e il conobbi alla ciera; li feci (coraggio?) dicendo li prometteva indubitata vittoria e attendesse a far l’ufficio di buon capitano che l’onor era suo (di) aver rotto un re di Francia. Sicché inteso questo e che eravamo appiccati, disse me ne ho tolto la peliccia, atta buona ora. E io tornai al loco mio ed avea dei mici nel mio colonello settecento uomini d’arme, ma di questi quattrocento soli fecero fatti, come dirò. In questo mezzo venne un grosso squadrone di Francesi di lande ottocento e già il primo loro squadrone era stato rotto dai nostri perché il re avea tre squadroni e nui quattro e eravamo da ottomila delle ordinanze in una. E vedendo io questo squadron venire a queste povere fanterie per non le abbandonar, andai contro coi miei uomini d’arme da quattrocento, e il sig. Pietro Dal Monte qual disse: M. Bartolomeo è da far fatti e non stimar la morte per aver vittoria. E combattemmo tanto che li rompemmo. E passai le loro artiglierie e mandai a dire al conte mi mandasse un squadrone. E mi riportò che fuggivano. E in questo mezzo Gian Francesco Gambara e Francesco Gambara e Giacomo Secco condottieri nostri estraordinarii andarono in campo di Francia e Antonio de’ Pii si mise a fuggir. E visto questo sinistro fu forza tornar di nuovo alla battaglia vedendo i nostri fuggir. E m. Vicenzo Falier provveditore di stradioti, mi era appresso e fu scavalcato, lo feci rimontar a cavallo e dissi : salvatevi, messere, e così fece. Io poteva fuggir ma non volsi e fu morto il sig. Piero dal Monte e gli altri da valenti uomini, maxime Jacopo da Spoleto e mi sopravenne addosso …. uomini d’ arme francesi che mi scavalcarono; io con lo stocco combattendo ne atterrai alcuno e mai potei rimontar a cavallo e sempre una mia lanciaspezzata mai mi abbandonò qual non so che sia di lui. Et mi venne addosso alcuni …. e volendomi ammazzar, sento una voce credo fusse la lanciaspezzata: non far, l’è il signor Bartolomeo. E così tre di loro mi si buttarono addosso perché non fossi morto e per avermi prigione. Tutti mi volevano, mi dierono alcune ferite e sulla faccia e altrove, sicché ho avuto ferite … E preso che fui, fui portato al re perché io diceva dov’è il re? E voglio dir questo, S.mo Principe, mi affrontai prima col gran maestro di Milano e li detti tante bastonate collo stocco che ancora fugge …”. Disse poi come era stato ben trattato dal re e condotto a Milano, poi nel castello di Loches in Francia; fece lodi e biasimi dei condottieri, concludendo: “Dio avesse voluto fossi stato capo solo.”

Spavento in Venezia

In Venezia intanto si aveva avuto notizia della grande battaglia imminente e se ne attendeva con la massima ansietà il risultamento. Narra il Sanudo, come mentre il giorno 15 maggio i Savi si trovavano raccolti a consulta, e che egli con ser Angelo da Pesaro, Alvise Cappello e altri senatori stavano davanti alla carta geografica dell’Italia dipinta sulle pareti della sala del Senato, giunse a ore 22 il corriere con le lettere portanti il funestissimo annunzio. Scritte queste in fretta e sulle prime notizie da Sebastiano Giustiniano e Marco Dandolo rettori di Brescia portavano la rotta totale  del campo, la fuga del capitano generale a Bergamo, del provveditor Gritti a Crema, essere Giovanni Diedo e Vincenzo Falier feriti nella testa, l’Alviano stesso ferito, o morto, o prigioniero, le artiglierie tutte dal nemico, essere però ancor salve le genti d’arme. Alle quali nuove tutti rimasero tramortiti, e del doloroso caso della patria lacrimavano: tuttavia intervenuto anche il doge e ripreso alquanto d’animo, si volse il pensiero ai necessari provvedimenti “fu deliberato di chiamare intanto subito, benché l’ora fosse tarda, il Pregadi, e fu mandato per i procuratori, e per i senatori“. Volevasi per alquanto tenere segreto il fatto, ma non fu possibile e già per le strade si vociferava della rotta del campo e in poco spazio tutta la corte di palazzo fu piena di gentiluomini e del popolo chiedenti notizie, e tutti si dolevano molto dell’avversa fortuna che un si bell’esercito fosse stato rotto così miseramente, e biasimavano l’Alviano, ma più ancora il capitano generale e, come al solito, si sparlava del governo e a lui si faceva carico d’aver perduto un sì eccellentissimo Stato, onde fu necessario al Consiglio dei Dieci intervenire; e parecchi furono come detrattori della Repubblica arrestati e processati.

Deliberazioni del Senato e apparecchi di difesa

Si raccoglieva il Senato. Paolo Barbo vecchio procuratore, uomo savio e molto esercitato negli affari della Repubblica, che da parecchi anni però non interveniva ai Consigli, alla notizia della rotta di Ghiaradadda, cominciò a lacrimare e disse alla moglie: dame la vesta che voio andar in Pregadi e dir quattro parole e poi morir. Sebbene egli disse le cose per disperate, pure propose vari provvedimenti a farsi per la salvezza principalmente della Repubblica. Alvise Priuli esortò si dovessero fare immediatamente due nuovi provveditori e mandarli al campo, ma gli eletti non accettarono fu pessima cosa, come osserva il Sanudo, il quale dal canto suo dichiara francamente che quanto a sé avrebbe subito spiccato due oratori al Turco per averne soccorso, la qual cosa mai è sta voluta far, e mandato il doge stesso verso Verona a rinfrancare le genti. Fu deliberato fare nuove raccolte di truppe e di danaro, scrivere ai rettori di Brescia, al capitano generale e al provveditor Gritti che il governo della Repubblica non si era punto smarrito dell’animo e che anzi far voleva magnanimamente ogni provvisione, e giacché le genti d’armi erano salve si riducessero in luogo sicuro; scriveva egualmente e nello stesso senso agli oratori alle varie corti, ma ai cardinali Grimadi e Corner a Roma molto sommessamente, rinnovando le profferte di restituzione delie terre del papa, pensasse questi alla mina onde era tutta Italia minacciata, volesse riaccogliere i Veneziani in conto di buoni e devoti figliuoli. (1) … segue

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo V. Tipografia di Pietro Naratovich 1856.

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