Basilica di San Marco – Facciata principale

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Basilica di San Marco,

Basilica di San Marco – Facciata principale

Sembra che l’architetto, inventore della pianta, sia affatto diverso da quello che la facciata dispose, e che, come narrano gli storici, aveva assunto di erigerla per sì fatta maniera da vincere in magnificenza tulle le altre esistenti, in premio di che dicono chiedesse al veneto senato l’onore della statua. Ma, compiuto il lavoro, espresse aversi frapposti alcuni ostacoli, che impedirono potesse condurlo con maggior nobiltà di quello che egli volgeva in pensiero; per la qual cosa la repubblica gli negò il simulacro, e volle in scambio che, nell’angolo destro del maggior arco sopra la porta principale, venisse scolpito in basso rilievo nell’atto di mordersi un dito, come ad esprimere al viatore il di lui pentimento per la pronunziata parola. Codesto racconto forse è tratto da vecchie tradizioni, molte volte fallaci, giacché nessuno storico sincrono ciò riferisce.

E venendo alla fronte principale del sacrato edificio, compartito in due ordini, diremo, che la ricchezza e sontuosità dei marmi, delle sculture e dei mosaici; i trafori, gli ornamenti e le statue che coronano i cinque pinacoli, nei quali è diviso, e le tante preziosità ivi raccolte, Io rendono uno dei più cospicui monumenti non solo di Venezia, ma di tutta Italia. Chi poi si trasportasse col pensiero al secolo del suo innalzamento, e si figurasse tutti quei molti intagli, quei tabernacoli e quelle aguglie messe ad oro, come allora si vedevano, e come lo attesta il dipinto di Gentile Bellini, esprimente la processione della Croce santissima intorno alla piazza, oltre che farsi un’idea alquanto più splendida della nostra basilica, avrebbe con che argomentare sulla ricchezza dei Veneziani in quel secolo, quale fosse la loro pietà e quanta la loro magnificenza.

L’ordine superiore porta, nei cinque comparti, quattro mosaici, e quello di mezzo è aperto da un’immensa finestra, che spande il lume principale entro il tempio. Codesti mosaici furono lavorati coi cartoni di Maffeo Verona, scolare e genero di Alvise dal Friso, ed imitatore spiritoso del gran Paolo, forse troppo libero, morto nel 1612. Figurano la deposizione della Croce, la discesa del Redentore al limbo; la sua Resurrezione e l’Ascensione di lui al cielo. Secondo lo Zanetti, si lavorarono da quel maestro Gajetanus, che lasciò il proprio nome e l’anno 1617 sulla estremità del sepolcro di Cristo; e da questa epoca si rileva, che all’artista costarono almeno sei anni di lavoro, supposto che il Verona abbia compiuti i cartoni negli estremi mesi di vita. Sotto all’ultimo indicato mosaico, e precisamente ove negli altri archi si apre una finestra, si vede invece la figura del vescovo San Nicolao, condotta pure a mosaico, e recante il nome dell’artefice Ettore Locatelli. I sei tabernacoli, che dividono gli archi, sorretti sono da quattro colonne isolate, e per entro ad essi si ergono le statue degli Evangelisti, della Vergine e dell’Angelo che la annunzia madre di Dio. L’arco massimo sopra la finestra porta nel mezzo a un campo azzurro, seminato di stelle, un leone di bronzo, alcuni anni or sono lavorato dal vivente scultore Gaetano Ferrari.

Sporge dal descritto l’ordine sottoposto, e regge una loggia atta ad accogliere numeroso popolo all’occasione di qualche festa solennizzata nella gran piazza, che si stende dinanzi. E’ bello vedere, appunto in siffatte festività, questa mole maestosa dar luogo al fiore dei cittadini; e il vivo degli atti, e lo splendore delle tinte dei panni, far contrasto colle sculte immagini e coi mosaici splendidissimi: scena atta ad accendere l’estro del pittor vedutista.

Le molle e ricche colonne di porfido, di verde antico, di cipollino, di pario, sovrapposte le une alle altre, e di cui si adorna quest’ordine, reggono cinque archivolti, ognuno dei quali porta un mosaico. Il primo, alla sinistra dell’osservatore, mostra il prospetto di questo medesimo tempio, ed è il solo esterno di antico lavoro, vedendosi dipinto nella menzionata tela del Bellini; il secondo offre il corpo di san Marco, a cui s’inchinano i veneti magistrati, lavoro insigne del tedesco Leopoldo dal Pozzo, condotto sui cartoni di Sebastiano Rizzi bellunese; il terzo presenta il supremo di delle sentenze, opera recente di Liborio Salandri, ora defunto, condotta sui cartoni di Lattanzio Querena. Esprimono gli altri due Buono e Rustico, che trasportano furtivamente la sacra salma dell’Evangelista dalla chiesa di Alessandria alla propria nave, e la festiva accoglienza fatta dai Veneziani a quelle venerande reliquie. Chi volesse descrivere le copiose sculture di cui si adorna questo prospetto, non finirebbe sì tosto. Da esse il critico avrebbe argomento a provare che tra noi fioriva la scultura nel medesimo secolo, come dicono Temanza, G. Zanetti, il Meschini ed altri. È vero che alcune vennero recate da lidi lontani, e qua poste quali monumenti di vittoria, ma la maggior parte sono contemporanee alla progressiva costruzione di questo tempio. Quindi si vedono gli eroi della religione e quelli del gentilesimo misti in strana comunanza, da taluno con ingegnoso ragionamento supposti allegorie; come le imprese del favoloso figliuolo d’Alemena, che qui si vedono, da altri furono credule emblemi allusivi alla forza della repubblica; ed altre sculture altre allegorie. Ma ben dice il Cicognara, nella sua Storia della scultura, che codeste opere furono unicamente qui collocate per interrompere il nudo muro della facciata, acciocché splendessero dovunque l’arte e la magnificenza. Era santo costume in quella età raccogliere ogni cosa per lavoro prezioso, e disporla, affinché non perisse, ove il decoro dei nuovi monumenti poteva garantirne la conservazione; e così vediamo operato sovra la porta prima, entrando a sinistra nel tempio, ove alcune sculture sono distribuite sull’architrave, le quali avevano appartenuto ad altri edifici, e ricordano lo stile delle quattro colonne del presbiterio, il che non si scorge sull’ingresso alla destra decorato in diversa maniera. Anche l’interno in più luoghi presta argomento alla medesima osservazione. Ma tra gli ornamenti più preziosi e nel medesimo tempo i più storici, che offre questo principale prospetto, si notano i quattro cavalli di bronzo spediti alla patria, nel 1206, da Marino Zeno, e già procurati dal gran Dandolo nella presa di Costantinopoli. Molli chiari intelletti si applicarono ad illustrarli, ma rimangono ancora assai dubbiezze intorno il tempo in cui vennero fusi. Taluni opinano siano dessi un voto del popolo romano in occasione di una vittoria riportata sui Parti, sotto l’impero di Nerone, e vogliono che fossero aggiogali alla quadriga del sole. Cicognara però crede che codesta opinione possa essere invalsa per tradizione egualmente che per congiuntura, e, confondendosi l’un motivo coll’altro, si sia ricevuta come la più comune. Si riporta nell’opera del Bellorio, Veteres arcus Augustorum, una medaglia, ove si vedono sovrapposti quattro cavalli ad un arco di trionfo, alleggiati nella precisa maniera di quelli che furono trasportati a Venezia; e così altra simile medaglia pubblicò, come da lui posseduta, lo Zanetti, in fronte all’illustrazione di questi cavalli, nella sua opera delle antiche statue greche e romane, nell’antisala della biblioteca di San Marco. Presenta la prima, intorno alla testa dell’imperatore, questa iscrizione: Nero Claudius Caes..Aug. Germ. P. M. Tr. P. Imp. P. P., e nell’esergo l’arco di Nerone posto per una vittoria riportata da Corbulone sui Parti. La seconda, intorno al capo del medesimo imperatore, ha scritto: Nem Claudius Caesar Aug. Ger. P. M. Tr. P. Imp. P. P., e nell’ esergo si vede un arco che ha molta somiglianza al precedente, ma che, per qualche varietà nelle parli, può credersi alterato dall’arbitrio dell’incisore. Se si osservano poi i cavalli, facilmente si scorge che i getti riuscirono imperfetti, per cui convenne che l’artefice li restaurasse con tasselli evidentissimi e numerosi; cosa che conferma il supposto, essersi essi lavorati sotto l’impero di Nerone, giacché sembra abbisognasse in Roma l’arte del fondere di singolar protezione, avendo egli chiamato dall’Alvernia il famoso Zenodoro acciocché fondesse la sua statua colossale in bronzo per la casa aurea. Non è meraviglia dunque se tornavano imperfetti gli altri getti operati in quel tempo per mano di artisti inferiori. L’essere poi questi cavalli di tutto rame e coperti d’oro, sembra certamente più proprio di quell’età e di quel fasto, che di qualunque altro tempo; e particolarmente dovendosi erigere un monumento a Nerone che aveva nel suo palazzo appartamenti su perni mobili volgentisi a diversi punti del sole, e irrorati da fontane d’acque odorose, non poteva ciò farsi abbastanza degnamente che con simulacri i quali sembrassero d’oro. Se poi si prenda ad esaminare le forme e le usanze, vi si riscontrano appunto quelle che allora furono espresse in altri monumenti; il che dalle medaglie può chiarirsi, e specialmente dalla particolarità non omessa allora dei crini tagliati. In fine, Svetonio e Plinio ci assicurano della propensione di Nerone pei bronzi, non sapendo egli rinunciare al piacere di aver sempre seco il bronzo d’una Amazzone di cui mollo si dilettava. Egli è certo che ove le tradizioni non danno argomenti invincibili, è d’uopo tenersi alle congetture e perciò, sulla scorta del Cicognara, abbiamo esposte tutte quelle che possono avvalorare opinione siffatta. I cavalli erano nell’Ippodromo, forse posti colà fino dal tempo che venne trasferita in Oriente la sede imperiale, e questi medesimi poi, sempre frutto della vittoria, furono mossi più d’una volta per l’ingrandimento delle nazioni. Così vennero recati a Venezia alla caduta del greco impero; così abbandonarono la città nostra allorquando ebbe fine tanto gloriosa repubblica, e così rividero di nuovo questo patrio cielo al volgersi della Napoleonica sorte. È vero che per seguire il carro della vittoria era mestieri posassero il piede sull’Istro; ma la giustizia del grande Francesco, seguendo l’impulso del suo cuore, amò meglio rendersi immortale con un atto magnanimo, piuttosto che passare alla memoria dei posteri per una impresa luminosa, ma che meno avrebbe provvisto alla vera sua gloria. (1)

(1) ANTONIO QUADRI. Venezia e le sue lagune Vol II. (VENEZIA, 1847 Sabilimento Antonelli).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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