Chiesa e Monastero di San Pietro Martire di Murano

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Chiesa di San Pietro Martire - Murano

Chiesa e Monastero di San Pietro Martire di Murano. Monastero di Frati Domenicani. Monastero secolarizzato

Storia della chiesa e del monastero

Ad oggetto espresso di giovare a se stesso, e di suffragare le anime dei suoi defunti Marco Michieli patrizio veneto ordinò con suo testamento segnato nell’anno 1348, che dei suoi beni si ergessero in Murano una chiesa ed un monastero sotto l’invocazione di San Giovanni apostolo ed evangelista ad uso ed abitazione di dodici frati domenicani, e ne lasciò commissari esecutori i procuratori di San Marco detti di Citra. Mori egli nell’anno seguente 1349, ma l’adempimento di sua volontà andò protraendosi fino all’anno 1363 e poi intrapresa la fabbrica andò lentamente proseguendosi, sicché non arrivò al suo compimento se non dopo i principi del secolo susseguente. Terminata finalmente nell’anno 1417, i procuratori commissari ne diedero la cura a Niccolò Medici priore in Santi Giovanni e Paolo di Venezia, incaricandolo di introdurvi dodici dei suoi frati secondo la pia intenzione del testatore. Ne prese egli solennemente il possesso coll’assenso dei superiori dell’ordine nel giorno 19 di settembre dell’anno stesso, ed il pontefice Martino V, tre anni dopo ad istanza di Leonardo dei Dati maestro generale dell’ordine ne confermò con apostolico diploma l’investitura.

Quantunque però avesse il benefico fondatore nel suo testamento stabilito che la chiesa avesse ad essere decorata col nome dell’apostolo San Giovanni, contuttociò perché la devozione di alcuni, mentre si andavano dilazionando i principi della fabbrica, aveva ivi eretta una cappella ad onore di San Pietro martire, passò poi comunemente anche alla nuova chiesa dappoi fabbricata il nome del santo martire. Con ambedue questi nomi la chiamò Eugenio IV in una sua bolla segnata nell’anno 1434, con la quale concede indulgenza a quelli, che in certi stabiliti giorni visitassero la chiesa dei Santi Giovanni evangelista, e Pietro Martire posta nell’isola di Murano.

Di poco passato mezzo secolo dalla sua fondazione, per un improvviso incendio insorto nell’anno 1474, tutta divampò la chiesa, al rinnovamento della quale concorsero tosto con caritatevoli offerte i fedeli animati anche dall’apostolica previdenza del pontefice Sisto IV, che liberalmente concesse plenaria Indulgenza a chiunque visitando la chiesa stendesse le mani elemosiniere a promuoverne il rialzamento.

Perché poi nell’occasione della rifabbrica potesse la chiese ridursi a maggior ampiezza, permise lo stesso pontefice nell’anno 1477, che a dilatarne il recinto atterrare si potesse una casa, detta l’Ospitale di Santo Stefano, ove si ricoveravano quattro povere femmine, a condizione però che in altro luogo dovesse il monastero a proprie spese innalzare un ospizio eguale al diroccato.

Si terminò a perfezione la chiesa nell’anno 1509, e fu poi con solennità consacrata nel giorno 10 di agosto dell’anno 1511. (1)

Visita della chiesa (1839)

Allorché venne chiuso nel 1806 perdette eccellenti pezzi di pitture; due tavole, l’una di Bartolammeo e l’altra di Andrea Vivarini, due quadri di Paolo Veronese ed altri assai; ma riapertosi nell’atto che si andava chiudendo la chiesa di San Stefano (anno 1810), nuovi quadri vennero posti in luogo dei primi trasferiti a Venezia e tali che meritano la considerazione.

Nel primo altare è bella la palla con Nostra Donna, San Biagio vescovo in trono, ed i Santi Carlo Borromeo ed Agnese Martire di Jacopo Palma. Il succoso suo dipingere è quivi per verità nella pienezza. Tra questo ed il susseguente altare Gregorio Lazzarini dipinse Sant’Agostino che schiaccia l’eresia, e nella palla del secondo altare Girolamo Santa Croce espresse Maria Vergine col bambino, San Geremia, San Gerolamo ed un angelo che suona il violino. Succede a questo altare la mirabile opera di Giovanni Bellino fatta nel 1488 avente nel mezzo Nostra Donna seduta sopra un trono con due angeli che suonano strumenti ad arco, e da un lato Sant’Ambrogio e dall’altro San Marco che presenta il doge Agostino Barbarigo. Un paesaggio fa campo a tutto il quadro che brilla per una soavità di forme non meno che per una vigoria di dipinto. Perché i veneziani lasciarono, invalsa l’opinione essere la scuola romana unica nel disegno ed aver per ciò essa acquistato un privilegio sopra la nostra scuola? Mirasi questo quadro e tutti quelli che a distruggere tal pregiudizio andremo notando, e poi si conchiuda con quanto di ragione potessero i letterati perpetuare il pregiudizio medesimo?

Dopo il terzo altare vi ha un quadro con San Girolamo nel deserto di Paolo Veronese; opera che molto soffri per la umidità del sito in cui era collocata; ma che però venne incisa dal Le Fevre. Nella cappella a fianco della maggiore alla destra vi ha quinci il busto in marmo del segretario Giambattista Padavino morto nel 1667 all’assedio di Candia e quindi il quadretto con le Sponsalizie di Santa Caterina della scuola di Paolo. La sinistra parte è occupata dalle memorie del gran cancelliere Giambattista Ballerini morto nel 1668 per mano dei Turchi, sostenendo la causa della Repubblica. Nel mezzo vi ha la sua effigie sostenuta da due puttini, mentre altri due inferiormente ne portano l’elogio. Il basso-rilievo a destra esprime il carcere dove dai turchi fu rinchiuso, e quello alla sinistra la sua liberazione per favore divino. L’altare poi con due angeli laterali e con la figura dell’Eterno (opere tutte di una mano) si scolpirono a spese della famiglia Ballerini nel 1681.

Di qui passando all’altar maggiore se ne vedrà la gran tavola col Salvatore staccato dalla Croce, e San Pietro Martire da un lato, una delle migliori opere di Giuseppe Salviati benché molto patita. Bartolomeo Letterini dipinse tutti gli altri quadri esistenti in questa cappella, cominciando da quello grandissimo con le Nozze di Cana e passando al Cieco guarito, al fatto del Centurione, alla Liberazione del sordo-muto, al Risorgimento di Lazzaro, e terminando all’altro gran quadro della Moltiplicazione dei pani, in uno agli angeli posti in finte nicchie tra le finestre.

La tavola di marmo nella seguente cappella del Sacramento è sullo stile de’ Lombardi: alla destra dell’altare vi ha il pregevolissimo quadro di Sant’Agata visitata nella prigione da San Pietro preceduto da un angelo con face accesa. Gran grazia, gran magistero vi ha qui entro! Si varia intorno all’autore di esso giudicandosi da alcuni di Benedetto Caliari, e da altri di Paolo, fondati sull’incisione stata fatta come opera di quel maestro. A che montano i nomi? Dovrebbero ormai gli intelligenti separare il fatto dall’opinione, e conosciuta bella o brutta un’opera troncare ogni dubbiezza sull’autore. Sta a questo quadro di rincontro quello di Sant’Ignazio fondatore dei Gesuiti abbracciato dal Redentore e dipinto colla solita grazia dal Lazzarini. Peccato che cotesto pittore non abbia più degradate le sue tinte! Peccato che alla scelta delle masse nella composizione non abbia più elette le sue forme! Oh! il secolo XVIII avrebbe allora mostrato tal modello da disgradarne gli antichi. Altre due opere preziose sono in questa cappella. È l’una il Cristo di Marc’Angelo dal Moro e l’altra la stupenda tavola di Batolameo Vivarini già appartenente all’altare dei barcaioli nell’isola di San Cristoforo. Offre Nostra Donna con il bambino in trono, San Giorgio con un santo vescovo da un lato ed il Battista con altro santo vescovo dall’altro. Un grazioso angioletto suonando sta sotto il seggiolone e più a basso una piccola figura di San Cristoforo a chiaro-scuro. Sono del medesimo autore anche i quattro quadretti aventi un angelo per ciascheduno e posti ai quattro angoli della chiesa. Quant’aria di paradiso vi ha in essi! E notando noi volentieri simili composizioni pacifiche, simili opere d’una età in cui la grazia, la beatitudine, l’amore inspiravano ogni cosa e ne trasfondevano gli effetti nel dipingere e nello scrivere intendiamo di richiamare l’età nostra a quella pace che è lo scopo più nobile delle arti anziché correre incontro ad ogni truculento, ad ogni barbaro oggetto atto a ridestare forti e dolorose sensazioni.

Passando poi da questa cappella del Sacramento alla seconda ala della chiesa si osservi il vivace dipingere di Leandro Bassano nel quadro sopra la porta che mette in sacrestia, dopo il quale si consideri l’altro bel quadro di Marco Basaiti tra la detta porta ed il primo altare esprimente la Vergine in alto con otto santi al basso. Com’ è corretta questa tavola! quanta forza e quanta armonia non vi scorgi!

E nel procedere innanzi, le tavole dei due altari, sì quella con la gloria di San Stefano di Giambattista Mariotti, si l’altra di Antonio Zanchi con Sant’Antonio, Sant’Agostino e San Filippo Neri possono essere trascurate, ma alcuna considerazione ben meritano e l’intermedio quadro tolto dalla mentovata scuola di San Giambattista esprimente il Battesimo di Nostro Signore, opera di una rara lucentezza di Jacopo Tintoretto, ed i due quadretti rotondi superiormente al battistero, l’uno con la nascita di Nostro Signore, e l’altro della Circoncisione della scuola tizianesca.

La sacrestia di questa chiesa venne adornata con le sculture e con le pitture della ricordata scuola di San Giovanni, e quindi rappresenta fatti che a quella scuola hanno solo attinenza. Si sorpassi però alla tavola dell’altare, comunque derivi dalla scuola tizianesca ed al soffitto di Faustino Moretti, onde riguardare piuttosto al gran quadro di Pietro Malombra col pontefice Clemente VIII che nel 1601 dava le indulgenze richieste dal cardinale Agostino Valier ai fratelli di quella scuola. Bartolameo Latterini nel 1710 fece il quadro sopra il banco, ma nulla può dirsi degli altri quadri che coprono queste pareti stante il cattivo loro stato e lo scarso lume del luogo.

Benchè niuna lapide accenni al triste fine di Antonio Castriotto duca della Ferrandina nel regno di Napoli, pure è certo che quel giovane valoroso venne sepolto in questa chiesa. Condottosi egli immascherato in Murano con alcuni gentiluomini suoi amici, per assistere ad una festa che qui si dava nel carnevale, a cagione di una donna con la quale voleva ballare ebbe questione con Marco Giustiniani. E, sebbene sotto la maschera fosse tutto armato, il servo di quel patrizio nondimeno lo assali in vendetta e lo ferì si gravemente che trasportato nel palazzo di delizie chiamato l’Accademia, morì nello spazio di tre giorni. Della qual morte assai ne ebbe dolore la signoria e volle anzi che a pubbliche spese fosse con solennità trasportato e quivi seppellito, senza però veruna lapide in memoria del caso compassionevole perché non lo avrebbe comportato la sua politica. (2)

Ricevo e volentieri pubblico una rettifica al testo di Ermolao Paoletti da parte Stefano Ballarin Barbarigo:

Sul lato destro del presbiterio si trova la cappella della famiglia Ballarin, dedicata ai santi Giuseppe e Maria, e più conosciuta col nome di “cappella dei Ballarin di Murano“. La cappella venne fatta costruire da Giorgio Ballarin, celebre vetraio che vi fu sepolto nel 1506, per sé, per la sua famiglia e per i suoi discendenti. Nella cappella sono inoltre ospitati il monumento funebre dedicato al Cancellier grande della Repubblica di Venezia, Giovanni Battista Ballarin, morto il 29 settembre del 1666 a Isdin in Macedonia, e la tomba di suo figlio, Domenico Ballarin, anche lui Cancellier grande della Repubblica di Venezia, morto il 2 novembre 1698.

È da notare che nella Cappella Ballarin di Murano si trovava una Pala di Giovanni Bellini di 2 metri x 3 che fu commissionata dai figli di Giorgio, raffigurante il martirio dei Padri Domenicani, in cui da lontano si vede Milano. Ora questa Pala si trova al Museo Nazionale di Londra. (3)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

(3) STEFANO BALLARIN BARBARIGO il 30/04/2019

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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