Chiesa di Santa Maria e Donato di Murano

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Chiesa di Santa Maria e Donato - Isola di Murano

Chiesa di Santa Maria e Donato di Murano

Storia della chiesa

Eguali all’altre isole, di cui abbiamo parlato, furono i principi di Murano, così nominata dagli altinesi in essa rifuggitisi prima per l’irruzioni degli Unni sotto il barbaro Attila nell’anno 451 e poi per il furore dei Longobardi animati da Rotario loro re nell’anno 635. È ragionevole credete, che il vescovo Mauro, che circa il citato anno 635, stabilì il vescovado di Altino in Torcello, e per divina rivelazione sotto l’invocazione di diversi santi eresse molte chiese nei luoghi della sua diocesi, non avrà voluto lasciare senza chiesa, e senza sacerdoti un’isola di sì ampio circuito, quale è Murano, nella quale ricoverati si erano tanti dei suoi cittadini: anzi che siccome in Torcello dedicata aveva la sua Cattedrale alla Madre di Dio sotto il titolo della di lei Assunzione, così avrà voluto, che in Murano la maggiore di tutte le altre isole del suo vescovado si ergesse alla stessa Gran Madre di Dio una chiesa parrocchiale di quel popolo sotto l’invocazione dello stesso mistero. Rigettarsi dunque deve come aperta favola la descrizione dell’origine della chiesa matrice di Murano, che si attribuisce ad Ottone il grande imperatore di Occidente, il quale navigando per l’Adriatico sorpreso da pericolosa burrasca votò ad onore di Maria Vergine una chiesa nel luogo, che ella gli disegnasse. Gli apparve dunque (così segue il favoloso racconto) in visione la Vergine, e dimostratogli un luogo coperto di rossi gigli, (era questi l’Isola di Murano) ivi fu per comando imperiale fabbricata una chiesa molto poco corrispondente alla magnificenza dell’imperatore, che per sì grave causa ne aveva comandata l’erezione. Quantunque però la struttura della chiesa non meritasse un tanto onore, pur volle l’imperatore invitar il romano pontefice Giovanni XII, acciocché la decorasse con l’ecclesiastica consacrazione; ma impedito questi dai negozi della chiesa universale, si destinò il patriarca di Grado, acciocché convocati a decoro della funzione da ogni parte arcivescovi e vescovi, in loro presenza per nome del pontefice la dedicasse, lo che fu eseguito nel giorno 15 di agosto dell’anno 957, presenti due arcivescovi, e venticinque vescovi, molti dei quali si dicono di chiese non per anche allora fondate.

Come però è ignoto l’anno preciso, in cui da Mauro vescovo fu questa chiesa fondata, così ci è occulto cosa in essa seguisse fino all’anno 999, nel quale Michele Monetario eletto piovano della basilica di Santa Maria Plebania di Murano giurò ubbidienza a Valerio vescovo della chiesa altinate, obbligandosi di accompagnarlo secondo l’antica consuetudine, allorché annualmente si portava a Grado, così per la festa di Sant’Ermagora, come per la convocazione del concilio provinciale, che allora annualmente si teneva. Si dichiarò pure tenuto a decorosamente riceverlo e trattarlo a pranzo nella domenica in Albis, nella quale soleva portarsi a celebrare, e conferire la sacra Cresima nella Matrice di Murano, ove pure interveniva annualmente in uno dei giorni detti delle Rogazioni. Da tutto ciò si rileva di quanta considerazione fosse fino dai tempi remoti nella diocesi di Torcello la chiesa matrice di Murano, che per singolare prerogativa possedeva la fonte battesimale in una cappella posta dirimpetto alla chiesa, cosa inusitata in quei secoli fuori delle cattedrali.

A Michiel Monetario successe Michiele Ostiario, ed indi Marino Stitadei, al quale nell’anno 1063 con giuramento promisero il vicario, e parrocchiani di Santo Stefano di osservare e adempire alla chiesa di Santa Maria quell’onore e giustizia, che se le dovevano fin da tempi più antichi, e che erano stati sempre osservati. In pari maniera stabilì Domenico patriarca gradese con gli altri vescovi di sua provincia, nell’anno 1068 che dovesse la chiesa di San Salvatore recentemente eretta riconoscere la preminenza della basilica matrice di tutta l’isola.

Un tal giuramento di non alterare gli ossequi, ed onorificenze dovute alla matrice fu nuovamente nell’anno 1063 confermato dal vicario, e popolo di Santo Stefano ad Aurio piovano di Santa Maria, il di cui successore Auriodono Giorgio Gambasirica costrinse nell’anno 1089 il priore e monaci del monastero di San Cipriano di Murano fondato dodici anni avanti a quella soggezione, a cui verso la matrice erano tenute tutte le chiese dell’isola. Fabbricò poi questo buon piovano, o più tosto rinnovò la chiesa di Sant’Erasmo posta sul lido per comodo dei circonvicini abitanti, stabilendo però che fosse perpetuamente soggetta alla sua chiesa matrice.

Circa questi tempi il doge Domenico Michieli avendo con le forze dell’armata veneta espugnato Tiro, ed altre città dell’impero orientale occupò anche l’Isola della Cefalonia, e ne trasse il corpo di San Donato illustre vescovo d’Euorea in Epiro, di cui poi ritornato che fu nell’anno 1125 in patria arricchì la chiesa di Santa Maria di Murano diocesi di Torcello, che d’indi in poi cominciò a chiamarsi con raddoppiato titolo chiesa di Santa Maria, e di San Donato di Murano.

Fanno menzione di questo santo gli ecclesiastici storici sì latini che greci, ed i cronologi veneti, fra i quali il Dandolo racconta che Donato vescovo di Cusia in Epiro, fatto il segno della croce contro di un mostruoso dragone, che distruggeva gli uomini, e gli animali della sua diocesi l’uccise, e con l’orazione fece sorgere un fonte, appresso il quale fu sepolto il suo corpo in un oratorio dedicato al suo nome. Il romano martirologio però apportandone la memoria nel giorno 30 di aprile lo dice vescovo d’Euorea in Epiro, dalla qual provincia infetta dai barbari ne trasse il sacro corpo di San Donato, e lo trasportò in Cassopo castello dell’isola di Corfù Giovanni vescovo di Euorea ivi collocando la sua fede, finché restituita la quiete a quei paesi potesse ritornare alla sua residenza. Tali notizie rilevate nelle lettere del pontefice San Gregorio il Grande dal cardinale Baronio, fecero che egli nel giorno 29 di ottobre segnasse la memoria di San Donato, del quale scrive San Gregorio Papa come d’un santo diverso dal vescovo d’Euorea. Nell’espugnazione di Cefalonia, (scrive il Dandolo) alcuni avuto indizio dove riposasse il corpo di San Donato, entrarono in un oratorio, ed ivi ritrovarono contrassegnato da una iscrizione il sacro corpo, da cui sortiva un soavissimo odore. Questo è quel Donato (segue nella sua Cronaca il doge Dandolo) che uccise con lo sputo un orribile dragone, liberò la figlia dell’imperatore Teodosio invasa dal demonio, e fece altri miracoli descritti dagli storici greci; ed il venerabile di lui cadavere trasportato a Murano nella chiesa di Santa Maria fu illustrato da Dio con continuati miracoli. Si celebra dal clero torcellano la festa di questa seconda traslazione con solenne officio nel giorno 7 di agosto, quando il prezioso deposito fu collocato in un’arca di marmo alla destra della cappella maggiore, ove riposò finché nel giorno 7 di agosto dell’anno 1656.il vescovo Marc’Antonio Martinengo solennemente lo depositò sull’altare della cappella a man destra dell’altare maggiore, nel la quale si venera pure una prodigiosa immagine di Maria Vergine. In un atrio contiguo alla chiesa pendono da una trave alcune ossa di un enorme grandezza, le quali corre popolar tradizione, essere del gran dragone ucciso in Epiro dal santo vescovo, quivi trasportate insieme col sacro di lui corpo dal doge Michieli. Intanto il vicario ed i chierici di Santo Stefano ad onta dei replicati giuramenti, e dell’inveterata consuetudine ricusarono di continuar in quegli ossequi, che dovevano alla lor matrice. Perciò Angelo Molino successo ad Aurioduno nel piovanato, espose le sue doglianze ad Eugenio papa III che ne rimise il giudizio al patriarca di Grado Enrico Dandolo, uomo, in cui la giustizia, e la dottrina spiccavano in sommo grado. Esaminò egli in un concilio provinciale con diligenza i testimoni, e ritrovate inconcusse le ragioni della matrice decretò con finale sentenza nell’anno 1152, che continuar dovessero il vicario e clero di San Stefano nella giusta soggezione di quegli ossequi coi quali avevano sempre i loro maggiori riconosciuta la loro chiesa matrice; al che pure disse parimente obbligate le altre chiese tutte dell’Isola di Murano. Confermò altresì a castigo degli inobbedienti la pena dell’interdetto già stabilita da Domenico patriarca suo antecessore, aggiungendo al di lui decreto nuovo vigore con l’autorità di delegato apostolico. Perché poi ferma restasse anche nei tempi avvenire l’esecuzione dell’emanata sentenza, concesse ad Angelo piovano, ed ai di lui successori libera facoltà d’interdire con autorità apostolica, e sospendere dai divini uffici così i piovani, come i chierici delle chiese filiali, allorché si ritirassero da quell’ubbidienza e rispetto, che dovevano alla lor matrice. Fu poi Angelo piovano innalzato al vescovado di Torcello, nel qual posto ricordevole dell’amore, che portato aveva alla primiera sua sposa, le donò in perpetuo possedimento alcune rendite di sua ragione particolare.

Soffrirono frattanto con dolore il vicario e clero di San Stefano per qualche tempo i pesi giustissimi di loro soggezione; ma passati non per anche venti anni dalla sentenza del patriarca per sgravarsi dalla soggezione di essi ricorsero ad Alessandro Papa III per di cui commissione Domenico vescovo di Caorle, riconosciuta nuovamente la tanto agitata causa, confermò nell’anno 1172 come Commissario apostolico il giudizio di Enrico patriarca. Usò a difesa di sue ragioni la facoltà impartita da Eugenio III papa, e dal patriarca Dandolo ai piovani di Santa Maria, il piovano Buono Balbi nell’anno 1189 sospendendo con interdetto dai sacri ministeri il vicario, ed i chierici di San Stefano per essersi ritirati dagli ossequi con tante sentenze stabiliti. Fu poi la causa di tale interdetto rimessa da Clemente III al vescovo di Torcello, ed al primicerio ducale, che discordi fra sé d’opinione, niente giudicarono sul proposito, dopo di che il piovano Balbi restò eletto successore di Leonardo Quirini nel vescovado di Torcello.

Con nuovi tentativi procurò poi il vicario, che si chiamava piovano di San Stefano, esimersi nell’anno 1248 dalla soggezione degli ossequi; ma resistendovi con costanza Pantaleone Giustiniano, che due anni prima era stato eletto piovano di Santa Maria, furono da ambe le chiese rimesse le lor controversie al giudizio del vescovo torcellano Stefano Natali, che come giudice arbitro, ed amichevole compositore decise a pieno favore della chiesa matrice, confermandone la sentenza Leonardo Quirini patriarca di Grado. Fu poi il Giustiniani traslatato alla chiesa parrocchiale di San Paolo di Venezia, e poco dopo assunto al trono patriarcale di Costantinopoli.

Diede poi nuovi motivi di litigio alle due sempre discordi chiese l’elezione di un piovano di San Stefano chiamato Andrea, il quale eletto nell’anno 1294, ricusò al piovano della matrice l’antica prerogativa di presentarlo al vescovo. Perciò pretese il clero di Santa Maria, che incorso egli fosse nell’interdetto comminato nella sentenza di Enrico Patriarca gradese.

Con maggior soavità si diportò nell’anno 1314 il cardinale Morosini, allora piovano di Santa Maria di Murano, il quale si consentì di correggere con pubblica ammonizione alcuni del clero di San Stefano difettivi negli atti di loro ubbidienza. Resse altri diciotto anni la sua chiesa parrocchiale il Morosini, e fu poi nell’anno 1332, da Giovanni Papa XXII per il merito di sua dottrina dichiarato patriarca di Costantinopoli, e fu a lui sostituito nella cura parrocchiale Francesco Bon, esso pure nobile veneto, uomo di molto maneggio, e che dal veneto senato fu destinato suo procuratore e sindico presso la curia romana, che allora risiedeva in Avignone, ove morì nell’ anno 1357.

Fu questo il sesto dei piovani di Santa Maria tratto dalla veneta nobiltà, quale anche sorti Antonio Contarini, il quale essendo piovano di questa chiesa nell’anno 1384, fu dal pontefice promosso alla sede vescovile di Adria, ed ottenne poi il suo piovanato Leonardo Pisani pur esso patrizio veneto. Visse questi al governo della sua chiesa tre anni, e in di lui luogo successe Francesco Vendramini cittadino trevisano, e segretario di Bonifacio Papa IX, che nell’anno 1400 rinnovò la scrittura dell’annuo censo dovuto alla chiesa matrice dal Monastero di San Michele di Murano. Nell’anno stesso la comunità dell’isola scelse, e stabilì per primario suo protettore il vescovo San Donato, il di cui corpo glorioso per frequenti miracoli si venerava (come si è detto) nella matrice. A questo nobilissimo tesoro se ne aggiunse nell’anno stesso 1400, un altro di niente minor pregio, cioè il venerabile corpo di San Gerardo Sagredo nobile veneto, prima monaco di San Benedetto, poi vescovo cannadiense, e martire, che da Alba Reale città dell’Ungheria fu tradotto a questa chiesa, ed in essa nel giorno 23 di febbraio onorevolmente collocato. Fu la vita di questo santo registrata da molti scrittori ecclesiastici, e principalmente benedettini, il sacro ordine dei quali onorò egli con la santità della vita, e con la gloria del suo martirio. Eccone un epilogo.

Dalla nobile famiglia Sagredo trasse i suoi natali San Gerardo in Venezia, e fino dalla sua infanzia diede manifesti indizi di sua santità. Nella prima sua adolescenza abbracciò l’istituto di San Benedetto nel Monastero di San Giorgio Maggiore, ove per il merito di sua matura virtù benché giovane d’anni fu eletto il terzo abbate di quel monastero. Mentre dunque con vigilanza attendeva a santificare i suoi monaci, Iddio che lo destinava a cose maggiori gli inspirò nell’animo di portarsi a venerare i sacri luoghi di Palestina. Partitosi dunque dalla patria per intraprendere il devoto pellegrinaggio, si portò di passaggio all’Ungheria, ove visitò il santo re Stefano, da cui ben presto conosciuta l’eminente virtù del religioso pellegrino, con vive preghiere l’obbligò ad accomiatarsi dai suoi compagni, e fermarsi nel regno, che recentemente convertito alla fede, necessità aveva d’illustri esempi di santità per confermarsi nell’abbracciata vera religione. Ricevette Gerardo come un segno della volontà divina i desideri dell’ottimo re, e si ritirò con un monaco di santa vita chiamato Mauro in una deserta solitudine, ivi visse sette anni a Dio, ed alla penitenza. Accrebbe intanto il re Stefano i confini del regno suo con le sconfitte dei barbari circonvicini; onde credette opportuno trare dall’eremo il santo solitario per istituirlo vescovo della città. Si soggettò al grave peso l’umilissimo santo, ma nulla variando nella nuova sua dignità dell’antico rigore di vivere, altro non usò di vescovo che lo zelo, e l’utile esempio della religiosa sua condotta. Si aumentò perciò di molto il numero dei fedeli, al vantaggio dei quali eresse non lungi dalla sponda del fiume una magnifica chiesa, che memore del luogo, ove intrapresa aveva la regolare sua carriera, volle dedicata al martire San Giorgio, e che poi dal piissimo re Stefano fu dotata di riguardevoli rendite. Come però una tenerissima devozione verso la grande Madre di Dio formava il principale suo carattere, così a di lei onore nella fondata cattedrale eresse un sontuoso altare, ordinando che avanti la di lei sacra immagine fumassero sempre in un gran turibolo di argento scelto incenso, e preziosi balsami. Avanti a questo altare soleva il santo vescovo due volte al giorno offrire alla divina madre in fervorose preci il suo cuore, né vi fu alcuno, che da lui a nome di Maria grazie chiedesse, che non ne partisse esaudito e contento, solito dire, che riconosceva anche i suoi nemici per figli qualora con fervorosa devozione riconoscessero la Santa Madre di Dio.

Né la pastorale sollecitudine, con la quale vigilava assiduo al vantaggio della sua greggia, diminuiva punto le primiere sue austerità, vestito sempre d’ispido cilicio sotto gli abiti vescovili, e sempre desideroso di solitudine; onde soleva per l’ordinario passar le notti in un’angusta cella per la maggior parte del tempo meditando ed orando.

Passò frattanto dal terreno al celeste regno il santo re Stefano, ed il di lui successore Pietro contaminò i principi del suo governo con l’ingiusta morte di alcuni dei principali suoi consiglieri. Si accese di santo sdegno il buon vescovo Gerardo per tal barbara esecuzione; che però pubblicamente ne riprese il re, e dimostrando l’ardente brama, che egli aveva del martirio, li presagì il breve corso, e l’infelice fine del suo dominio. L’infausta morte del re Pietro fece conoscere essere stato il santo vescovo dotato di profetica previdenza, che pur anche dimostrò allora, che cenando coi suoi domestici in Alba Reale, li avvisò, che egli nel giorno seguente data avrebbe la vita per Cristo. Allo spuntare dunque del giorno seguente si preparò con la celebrazione della messa alla preparata battaglia, e quasi per ultimo donativo all’afflitta sua famiglia dispensò loro di propria mano il pane di vita, e poi si incamminò al martirio.

Giunto dunque che ei fu alle rive del Danubio, ivi gli si fece incontro una turba di popolo infedele, che tumultuando contra il santo prelato cominciò a scagliargli addosso una tempesta di sassi, ripulsati da lui col solo segno di croce, onde non gli recarono veruno nocumento. Vie più infieriti a tal prodigio i barbari balzano il santo a viva forza fuori del carro, e mentre egli orava per i suoi persecutori, la precipitano capovolto giù di una rupe, ed accorrendo dappoi ove era caduto, trovatolo ancor semivivo, con una lancia fieramente trafittolo lo coronano martire. Furono seco lui trucidati altri due santi vescovi, ed un numero grande di cattolici, e si stese poi la persecuzione per tutto il regno; onde ottennero moltissimi fedeli la palma del martirio. Il corpo del santo martire fu nel giorno susseguente sepolto nella chiesa della Beata Vergine, e dimostrò subito Iddio qual fosse la gloria del suo martire illustrandolo con manifesti miracoli, e l’Ungheria poi fatta quieta nella professione della fede di Cristo l’onorò poi come suo apostolo e protettore, celebrandone solennemente la festa. Consumò il santo martire la sua passione nell’anno 1169 ed il di lui corpo trasportato più di due secoli dopo nella chiesa matrice di Murano ivi riposò chiuso sotto la mensa di un altare, da cui poi fu tratto nell’anno 1701 e riposto sull’altare della Beata Vergine del Carmine in un’urna di marmo decente sì, ma di troppo inferiore al merito di un santo tanto glorioso, che vanta tre corone d’apostolo, di martire, e di vergine.

Questi due corpi, dei quali Iddio volle arricchita questa chiesa, le formano i più preziosi ornamenti, e ne accrescono anco il decoro altre reliquie ivi onorevolmente deposte, fra le quali le più riguardevoli sono porzione del legno della Santissima Croce della lunghezza e larghezza d’un dito, donata l’anno 1527 da Giovanni Trevisano allora podestà di Murano. Il dito indice della destra mano di San Lorenzo Giustiniano, dono venerabile del vescovo Marco Giustiniano, che ad onore di questo santo eresse nella chiesa matrice un magnifico altare, ed istituì una nobile confraternita di sacerdoti. Del sangue di San Stefano protomartire, e delle viscere di Sant’Erasmo vescovo e martire. Un osso di Santa Maria Maddalena, ed altro di San Giacomo apostolo, e porzione pure di un osso di San Giovanni Battista.

È memorabile pure un antico vaso di legno detto volgarmente il Botazzo di Sant’Abano, che nell’anno 1453, fu affisso a muri interiori di questa chiesa, ed assicurato con due ferri incrociati d’ordine pubblico. Molte favole affatto incredibili si raccontano di questa antichità, di cui l’origine, la storia, e le circostanze sono affatto ignote.

Frattanto andavano di tratto in tratto mancando ai loro doveri il piovano, ed i titolari di San Stefano, onde per ben tre volte negli anni 1547, 1550 e 1563 furono dichiarati rei d’inobbedienza, ed incorsi nell’interdetto minacciato dalla celebre sentenza di Enrico patriarca gradese delegato apostolico. Tradotte finalmente l’incessanti contese delle due chiese, e dei rispettivi capitoli al giudizio del pieno collegio della Dominante fu con solenne sentenza decretato, che debbano immancabilmente, e invariabilmente dalla chiesa, e dal clero di San Stefano osservarsi tutti quegli ossequi dovuti alla matrice, che già erano stati stabiliti nella sopra lodata sentenza del patriarca Dandolo, e confermati con tanti altri giudizi dei delegati apostolici. (1)

Visita della chiesa (1839)

Questa magnifica chiesa a tre navi è opera del secolo XII, come si riconosce pur anche dalla epigrafe seguente che vi si legge nel mezzo del pavimento, lavorato tutto di mosaico a vari disegni, e in qualche tratto conservatissimo: In nomine Domini nostri Jesus Christi anno Domini MCXL primo mensis Septembris indictione V. Si alza questo tempio sopra nobili colonne di fino marmo; ed è cosa di dolore, che alcune ne debbano restare chiuse e inosservabili tra le pareti laterali del coro. Troppo deve questa diocesi alla buona memoria del suo vescovo Marco Giustinian che ne era stato un suo salvatore per tante utili e generose istituzioni, perché si abbia ad inquietarne le ceneri, se con suo ordine stabilì che si dovesse ristorare questo magnifico tempio di maniera, che avesse a perdere la prima sua forma, sì utile alla storia dell’arte.

Trascurati i quadri con la Circoncisione, l’Annunziata, la Disputa, la Nascita, l’Adorazione dei magi e la Fuga in Egitto, che ben sarebbe il toglierne, siccome pur la maggior parte di quelli che mal coprono le pareti di questo tempio; si osserverà nel primo altare la tavola con Nostra Dona assunta al cielo, opera eseguita l’anno 1798 da Carlo Bevilacqua, come vi sta scritto. Ben meriterebbe ed altro sito ed utile riparo ad ornamento di questa chiesa la mezza-luna sopra la porta laterale, dove si vede seduta Maria che offre il bambino ad un devoto presentatole da un santo vescovo, e all’altra parte San Giambattista che avanza verso il trono di lei, appoggiando. la sinistra sopra le spalle di due angioletti. L’opera è chiusa alla estremità da due angeli, l’uno dei quali suona una chitarra, l’altro una viola. Tutti si restrinsero sin qui a dire, che essa è della buona maniera vivarinesca, ma vi si legge: Opus Lazari Sebastiani MCCCCLXXXIIII.

Dopo la porta vi è il quadro con San Rocco, di Leonardo Corona, in gran disordine, e quindi altro quadro con il Salvatore legato alla colonna e un ritratto, opera meschina di Filippo Abbiati.

Di Bartolommeo Scaligero è la tavola del vicino grandioso altare con Nostra Donna del Carmine tra San Gherardo e il beato Simeone Stoch. Fu ristorata da Bartolommeo Letterini, del qual pittore sono le due figure laterali dei profeti Eliseo ed Elia a chiaro-scuro, e la Vergine con un santo e gruppo di angioletti, intorno all’altare nell’alto, e i martiri di San Gherardo Sagredo e del Beato Simeone Stoch alle pareti, e forse le due figure troppo deboli degli evangelisti Marco e Matteo verso la navata di mezzo. Il quadretto Sull’altare con San Vincenzo Ferreri è opera eseguita l’anno 1813 dal nominato Carlo Bevilacqua.

Nella cappella laterale alla maggiore di Sant’ Antonio di Padova, si trascuri ogni pittura, e non vi si badi che a quella pregevole custodia di bei pezzi di cristallo di monte, qui trasferita dalla atterrata chiesa delle monache di San Martino.

Di qua conviene passare nella seconda sacrestia. Nel mezzo sorge una gran vasca che prima si chiudeva nel battistero, il quale stava fuori della chiesa, e che con mal prudente consiglio fu demolito, all’ oggetto di venderne i marmi per ristorarne del ritratto danaro, siccome dicemmo, la chiesa. Ciò vi è indicato dalla seguente iscrizione; ex antiquissimo demolito Baptisterio corruente quod in faciem hujus ccclesiae baptismalis erat huc deportatum fuit an. 171 9 ut antiquitatis auctoritatisque monumentum servetur.

Questa vasca posa sopra pietre antiche. Vi è poi d infaccia alla porta una ancona del tempo di Lorenzo, e forse di un qualche suo discepolo, ma di minar merito. Ha sette comparti, sei dei quali con altrettante figure di santi chiudono quello di mezzo col transito di Nostra Dona. Gli servono di basamento tredici piccoli comparti, ciascuno con mezza figura.

Trasferendoci nella cappella maggiore, troviamo da prima l’uno a destra, e l’altro a sinistra, due quadretti di Bartolommeo Letterini, che offrono San Lorenzo Giustiniani.

Di Andrea Celesti è il gran quadro alla destra dell’altare, dove stà espressa la messa che in questo tempio si celebrava solennemente dal vescovo Marco Zustiniani che lo fece eseguire; e il gran quadro all’altra parte con la strage degli innocenti è un lavoro tristissimo.

Dietro all’altare sta un’ancona che forse è l’opera più antica, che con epoca precisa si riconosca dalla nostra scuola. Vi si legge infatti lateralmente. Correndo MCCCX. indicion VIII. in tempo de lo Nobele Homo mister Donato Memo honorando podestà de Muran facta fo questa ancona de Misier S. Donado. Nel mezzo vi è dipinta la figura del santo vescovo in basso-rilievo in campo d’oro, e ai lati le stanno due piccole figure dipinte sullo stile di quella età. Facile è che una di esse rappresenti il podestà Memo, l’altra la moglie di lui; e queste due figure meritano osservazione per gli abiti di quel tempo. Giammaria Sasso fece incidere questa tavola per la Venezia Pittrice; e comunque sia quella patita e tarlata, è a desiderarsi, che la si tenga in migliore conto, siccome opera delle più importanti per la nostra storia della pittura.

Sopra questa tavola vi sono e una gran tavola in marmo, ove è scolpita Nostra Donna assunta ai cieli, e le così dette coste d’un drago che si narra ucciso dal santo, e quattro quadri, di maniera incerta e triste, con quattro sacre storie, i quali seguono il giro del coro.

Fortunatamente si conservò nella mezzaluna sopra l’altare quella immagine di Nostra Donna a mosaico, dei primi lavori che in questo genere teniamo, contemporaneo all’edificio del tempio. Vi si leggono questi due versi :

Quos Eva contrivit pia Virgo Maria redemìt
Hanc cuncti laudent viri Christi munere laeti ( sic ).

Altri emistichi che mal vi si possono discernere perché rovinati dal tempo, fan fede ancora, come anche il resto vi era lavorato a figure di mosaico.

Lasciata la cappella laterale alla maggiore, dove si custodisce il sacramento, si trova all’altra parte della chiesa il magnifico e ricchissimo altare consacrato a San Lorenzo Giustiniani, a spese del vescovo Marco Zustinian che più volte ricordammo. Bartolommeo Letterini vi dipinse e la tavola dell’altare con il santo nell’atto di celebrare la messa, e i tre quadri nell’alto con la morte di lui, la sua salita al cielo, e la sua presentazione al Padre Eterno, e forse i due evangelisti che corrispondono a quelli dell’altra parte.

Non si deve far conto dei tre quadri che seguono, due con fatti di San Rocco, l’altro con San Lorenzo Giustiniani innanzi a Nostra Donna.

Di Bartolommeo Letterini che vi pose il suo nome, è la tavola dell’ultimo altare con San Giuseppe che vezzeggia il bambino nell’alto, e i Santi Rocco e Giovanni dalla Croce al piano. Il quadro sull’ altare con l’appostolo Sant’Andrea è di Bartolommeo Bussi.

I due quadri laterali all’organo, l’uno con la visione della scala avutasi da Giacobbe, l’altro con Mosè al roveto, gli sono di Bartolommeo Letterini.

Nostra Donna assunta al cielo nella coperta dell’organo è della scuola palmesca.

Presso a questa scuola vi ha un oratorio, chiamato di San Filippo Neri. Qui vi è una buona fattura di Marco di Tiziano con la discesa dello Spirito Santo. Vi si legge: In tempo de Gasparo Roseto et Augustin Fornari et compagni et fratelli dell’Oratorio della Madonna.

Meritano una particolare osservazione, siccome singolari veramente, gli archi esterni alla cappella maggiore. Gli sono un bizzarro composto di architettura greco-barbara con l’arabica; del qual tempo e stile riconosceremo nel giro del Canal-Grande e il fondaco dei turchi, e il palazzo chiamato la Cà d’oro.

Qui sotto si legge incastrata nel muro la lapide seguente: Jacobus Surianus Michaelis Muriani Pretor in Sili contra hostes fluvio correptus aegritudine pro patria occubuit Augustino fratre suffecto. Vixit a. XXVI. obiit MVXI.

Presso la porta maggiore ai pilastri di pietra si formarono le basi di alcun pezzo antico di marmo lavorato, che era nell’atterrato battistero, di cui dicemmo più sopra.

È ammirabile la mole del campanile di questa chiesa. In una di sue campane si legge: Anno D. MDCCV. Opus Gregorii et Antonii Zambelli: le altre due sono: Opus Haeredum de Polis, l’una dell’anno 1783, l’altra dell’anno 1791. (2)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

 

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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