Chiesa e Monastero di Santa Maria delle Vergini vulgo de le Verzene

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Rio de le Vergini. Luogo dove si ergeva la Chiesa di Santa Maria delle Vergini

Chiesa di Santa Maria delle Vergini vulgo de le Verzene. Monastero di Monache Cistercensi. Chiesa e Monastero demoliti

Storia della chiesa e del monastero

Intimorito Onorio papa III dalle gravi perturbazioni d’Italia, commosse dall’imperatore Federigo Il, nemico dichiarato della chiesa romana, e fiero persecutore del suo capo visibile, mandò il cardinal Ugolino vescovo di Ostia (che fu poi papa col nome di Gregorio IX) suo legato a Venezia, acciocché eccitasse lo zelo della Repubblica a soccorrerlo, e formasse seco lega a difesa della religione, e della giustizia. Mentre dunque si maturava affare sì grave, si sentì ispirato il cardinale di persuadere al doge Pietro Ziani, che in una parte remota della città, dove si vedeva una piccola chiesa dedicata ai Santi martiri Giovanni e Paolo, sopra una palude poco distante dalla cattedrale, fondar volesse una chiesa, la quale in memoria della basilica dedicata a Maria Vergine in Gerusalemme, e poco avanti miseramente occupata dai Saraceni, chiamar si dovesse Santa Maria Nuova in Gerusalemme. Accolse il pio doge quanto gli suggeri il legato, ed eretta la chiesa, vi aggiunse un monastero di monache, che da lui dorato restò poi in perpetuo juspatronato dei suoi successori. Anche il cardinal legato non so se prima, o dopo della di lui assunzione al sommo pontificato, contribuire volle al mantenimento delle sacre vergini nel nuovo monastero adunate, e sborsò tanto soldo, quanto bastar potesse per comprar tredici mansi, ossia possessioni, nel territorio padovano, che poi fatto papa esentò da ogni aggravio di decime con una sua bolla, data dal Palazzo Lateranense nel dì 4 di gennaio dell’anno XIII del suo pontificato, che fu di Cristo l’anno 1234. L’esser dunque questo monastero istituzione di un doge di casa Ziani, eretto a persuasione di uno, che sedette nel soglio di San Pietro, nei tempi di un imperatore Federigo di nome, diede occasione all’equivoco, ed alla volgare, ma falsa tradizione, che fosse stato egli fondato da Sebastian Ziani doge, padre del soprallodato Pietro, ad eccitamento di Alessandro papa III, allorché a conchiudere la pace si era a Venezia portato Federigo imperatore primo di tal nome.

E di fatti con molti autentici documenti conservati nell’archivio patriarcale si prova, che sino all’anno 1182, cioè sette anni dopo la venuta di papa Alessandro III, nel sito paludoso, dove fu fondata dappoi la chiesa di Santa Maria in Jerusalem, vi era una chiesa sotto il titolo dei Santi Giovanni e Paolo, che si rovinò nel fondare il nuovo monastero.

Fondato il nuovo monastero, ed accoltevi alquante vergini, tutte di sangue patrizio è fu loro a norma di ciò che si usava nel monastero di Gerusalemme, assegnato l’abito, detto di San Marco, e la regola di Sant’Agostino per professare: e poiché nelle costituzioni del loro ordine avessero chi le istruisse, furono stabiliti a dirigerle ed assisterle alcuni canonici regolari della congregazione di San Marco di Mantova; ai quali diretti da un priore assegnarono abitazione contigua al monastero.

Fu frattanto nel terzo anno dopo la fondazione del monastero il cardinal Ugolino dichiarato supremo capo della chiesa col nome di Gregorio IX, il quale anche nell’apice del sommo apostolato continuò a stringere (così si espresse nei suoi diplomi) il monastero con le braccia di speciali prerogative, ed assicurarne la conservazione con mano sollecita. Che però con replicati diplomi liberò i beni temporali di esso monastero da ogni pagamento di decime, e confermò l’esenzioni concessegli dal podestà, e magistrati di Padova. Né provvide solamente la di lui apostolica attenzione al corporale mantenimento, ma vie più sollecito dei spirituali vantaggi, destinò visitatori apostolici per togliere qualunque disordine, e commise ai priori della congregazione già mentovata, che, intrapresa per autorità apostolica la cura delle monache, dovessero d’indi esserne e visitatori, e direttori nelle cose spirituali, e nell’amministrazione dei sacramenti.

Come però il monastero nella prima sua fondazione era stato fra troppo ristretti confini fabbricato, così s’interposero il doge Pietro Ziani, e lo stesso pontefice Gregorio IX, acciocché Pietro Pino, allora vescovo castellano, concedesse una palude di ragion del suo vescovado a rendere più comoda l’abitazione delle monache e dei canonici, che le assistevano.

Imitarono il benefico esempio di Gregorio IX i pontefici suoi successori. Poiché Innocenzo IV nell’anno 1252 confermò tutti i privilegi di già concessi, ed Alessandro IV non solo li approvò nell’anno 1253, ma esentate volle con replicati diplomi degli anni 1259 e 1260, da ogni aggravio di decime tutte le terre, e possessioni del monastero. Alcune di queste però essendo nel territorio di Trevigi, e sorto papa Clemente IV nell’anno 1266, quel comune, che ad esempio dei padovani sollevar volesse da ogni aggravio le rendite nel loro trasporto. Succeduto poi nell’apostolica sede Gregorio X, die de nuova forza ai privilegi del monastero, ampliamente confermandoli nell’anno 1270 e poi nell’anno 1274 stabilì, che l’elezione del priore di Santa Maria delle Vergini dovesse rendersi valida coll’assenso dell’abbadessa, e dell’altre monache; (lo che ad istanza del doge avevano per l’avanti concesso i canonici della congregazione nel loro generale capitolo) e che le rendite del monastero dalle sole monache venissero amministrate. Né di ciò contento il santo pontefice, nello stesso giorno 9 di aprile, in cui segnato si era il riferito diploma, scrisse anche al priore, e capitolo generale un’apostolica lettera, ingiungendo, che a spiritual assistenza di questo monastero, fondato già, e al loro ordine da Gregorio IX, assoggettato, mandar dovessero un discreto numero di savi religiosi, onde il monastero non ne risentisse soverchio aggravio.

Da tali apostoliche provvidenze ben si argomenta, che già fosse cominciato ad intepidirsi quel fervore di carità, con la quale dovevano i canonici assistere alle religiose loro commesse: dal che nascendone scandali, e discordie nel monastero, ordinò papa Bonifacio VIII a Leonardo Falier, piovano allora della chiesa di San Bartolammeo, poi patriarca di Costantinopoli, che preso diligente esame del vivere e della condotta dei canonici, se ritrovasse deviare essi dal loro dovere, con tal forza rimuovere li dovesse dal monastero, che più ritornarvi non potessero; e assegnando alle monache un idoneo sacerdote per confessore, stabilisse libera ad esse l’elezione dell’abbadessa, che per la prima volta dovesse da esso d’apostolica autorità essere confermata e benedetta, ricevendone il giuramento di fedeltà dovuta alla chiesa romana. Conobbe nei processi fatti il savio piovano, essere purtroppo vera la mala direzione dei canonici: perciò con formale sentenza li scacciò perpetuamente dal monastero, e non molto dopo Matteo Veniero, Primicerio di San Marco, avutane commissione dallo stesso pontefice, assegnò i canonici abitanti in Santa Maria delle Vergini ad altri luoghi della loro congregazione.

Quantunque però i canonici dell’Ordine di San Marco fossero stati rimossi dalla personale assistenza del Monastero delle Vergini, contuttociò perseverarono per alquanto tempo le monache sotto l’obbedienza dello stesso ordine, assoggettandosi alle visite pastorali, finché affatto sciolte da tal soggezione si elessero di vivere militando sotto la regola del vescovo Sant’Agostino.

All’inquietezze, che disturbavano l’animo delle religiose, si aggiunse una non men grave disgrazia nell’anno 1365, perché accesosi casualmente fuoco nel giorno 11 d’agosto divorò, e distrusse in poche ore la maggior parte del monastero; e quantunque la carità di Andrea Contarini doge ne procurasse il rinnovamento sollecito, pure in quei tempi assai angustiosi per i veneziani, occupati nella guerra dei genovesi, procedeva assai lentamente l’opera; sicché papa Urbano V commiserando le angustie e le ristrettezze delle nobili vergini, eccitò al loro soccorso la pietà dei fedeli, concedendo nell’anno 1369 cento giorni d’indulgenza a chi concorresse a soccorrerle. Nell’anno poi 1398, Bonifacio papa IX, rese partecipi dell’indulgenze di Santa Maria della Porziuncola tutti quei fedeli, che visitando nel giorno primo, e secondo di maggio la Chiesa di Santa Maria delle Vergini, stendessero alla di lei riparazione la mano benefica. Degno di memoria è il fervoroso amore, che dimostrarono ai loro chiostri le religiose; perché quantunque nate e nutrite fra gli agi di nobilissime case, pure giunsero (come si rileva da pubblici documenti) a privarsi interamente dell’uso del vino, acciocché risorgesse più pronto dalle sue rovine l’incendiato loro monastero. Né tanto bastò a risarcire nell’intero i patiti danni; onde convenne nell’anno 1408, avutane prima facoltà dal doge Michiele Steno, vendere una non piccola parte delle case, e possessioni del monastero, per proseguire gli intrapresi lavori, ed alimentare le religiose. Rese note però le loro angustie ad Alessandro V, circa quei giorni dichiarato pontefice in Pisa, unì egli nell’anno susseguente 1409 al monastero di Santa Maria delle Vergini, con lettere dirette a Francesco Bembo vescovo castellano, il priorato Benedettino di Santa Maria di Polverara, della diocesi padovana, del quale ne dovessero ottener il possesso al caso della morte del vivente priore Donato di Verona. Frattanto mentre si andava dilazionando il godimento dell’ottenuta grazia, Eugenio IV ignorando la donazione di Alessandro V, assegnò quel priorato, allorché vacante, alla Chiesa di San Giovanni decollato di Padova dei Canonici Secolari di San Giorgio in Alga; ma risaputo quanto a favore dell’afflitto monastero si era prima stabilito, confermò con autorità apostolica nell’anno 1441 la decretata unione, e Donato di Verona, priore ancor vivente, rinunziò con spontanea cessione il suo beneficio, acciocché subito il monastero ne ricevesse l’investitura, e il possesso. Continuavano intanto i pontefici a favorire e proteggere il monastero, avendo Giovanni XXIII, nell’ anno 1411 riconfermata ogni di lui prerogativa, e Martino V nell’anno 1419 beneficato avendolo con ampia plenaria indulgenza. Eugenio IV confermò con positivi decreti la elezione dell’abbadessa eletta nel suo pontificato, e commise a San Lorenzo Giustiniani, allora vescovo di Castello, il benedirla: e Niccolò V, finalmente nell’anno 1448, vietò al santo vescovo qualunque ingerenza nel monastero, perché sino dalla sua fondazione alla sede apostolica immediatamente soggetto.

Andavano intanto proseguendo felicemente le cose, ed a poco a poco si venivano compensando i gravissimi patiti danni: allorché nell’anno 1487 un casuale incendio, suscitatosi nella notte precedente l giorno 19 di novembre, distrusse la maggior parte del riedificato monastero. Che però Agostino Barbarigo doge, conoscendo la totale impotenza delle religiose, impetrò dal senato, che a pubbliche spese se ne risarcissero perfettamente i pregiudizi.

Non così agevolmente però lo spirituale del monastero rilevarsi dai gravi detrimenti, nei quali era incorso per il lungo scorrere degli anni, e per la smoderata libertà delle monache, che tali solo di nome e di vestito vivevano, senza legame dei voti, e senza obbligo di clausura: onde uscire a loro agio ne potevano, e contrare anche sponsali per liberarsi affatto da quell’apparenza di stato monastico, che dimostravano nell’esteriore. Per accorrere a questi, e ad altri simili disordini, che avevano presa alta radice anco in molti altri monasteri della città, Antonio Contarini, piissimo patriarca di Venezia, ne rese avvertita l’apostolica provvidenza di papa Leone X che, lodato lo zelo del savio prelato, diede allo stesso ampia autorità di correggere e riformare gli sconcertati monasteri, e fra questi nominatamente quello di Santa Maria delle Vergini.

Adoperò il discreto patriarca primieramente tutti i più soavi mezzi di esortazione, e consigli: ma reso vano qualunque tentativo, deliberò di dividere le abitazioni del chiostro; e quantunque disturbato ne fosse da appellazioni, ed altri coraggiosi tentativi delle monache; pure, superati con l’assistenza pontificia, e col beneplacito del dominio tutti gli ostacoli, introdusse in una porzione del monastero alquante monache tratte dall’esemplare monastero di Santa Giustina, che erano del numero di quelle, che si chiamavano osservanti, per l’osservanza appunto, con cui adempivano le loro regole , a differenza dell’altre, che conventuali si dicevano, per aver poco altro di regolare fuor dell’esteriore abito, e del convento comune. Con la divisione delle stanze restarono pur partite le entrate in tal maniera, che assegnatane l’intera amministrazione alle osservanti, come vere padrone del luogo, una competente porzione se ne assegnasse alle conventuali giusta il loro numero, finché o si riducessero a professare l’osservanza, o dalla morte fossero ridotte a dovere. Per eseguire però e in questo, e in altri monasteri, con equità, e proporzione un tal assegnamento di rendite, comandò il Consiglio di Dieci, a cui esposte avevano le osservanti dei riformati monasteri le loro querele, che col patriarca si unissero tre de primari senatori, da lui eletti nel giorno 17 di settembre dell’anno 1521 e seco lui con discretezza e giustizia adempissero la divisione decretata.

Si eseguì concordemente, secondo i progetti del prudente patriarca, la partizione; del che dolenti le monache conventuali appellarono a papa Adriano VI, che rimise nell’anno 1523 la consumazione dell’affare a Tommaso Campeggio vescovo di Feltre, allora apostolico legato in Venezia.

Cessò pochi giorni dopo di vivere Chiara Donado abbadessa delle Monache Conventuali: perloché il patriarca Contarini, che aveva già ottenuto dalla suprema pontificia potestà, il doversi nei casi di vacanza eleggere le abbadesse dal numero dell’osservanti, le congregò a pieno capitolo nel monastero, e presedette all’elezione, che cadde in Marina Barbaro, monaca osservante, da lui poi a nome del pontefice confermata nel giorno 22 di dicembre. Nello stesso anno 1523. Per sconcertare la felicità, con cui andavano progredendo gli spirituali vantaggi del monastero, sparse il comune nemico contese e discordie, dalle quali restarono commosse e sconcertate anche alcune delle monache stesse osservanti: onde acciocché si togliesse anche questo non leggero impedimento della riforma, prescrisse Clemente VII alle preghiere del doge Andrea Gritti, che le più contenziose fra le monache dell’osservanza dovessero ritornare a quei monasteri, ed ordine, d’onde erano partite.

Non bastavano però tutte le diligenze praticate ad introdurre una piena riforma nel monastero. Perciò le conventuali o traendo da altri monasteri di rilassata osservanza altre a loro consimili, o aggregando al lor collegio fanciulle secolari, non minoravano molto di numero. Che perciò ricusando il patriarca Girolamo Querini d’ingerirsi in tal fatto, fu istituito Giacomo Pesaro, vescovo di Passo, dal lodato pontefice Clemente VII, nell’anno 1529. Riformatore apostolico del monastero, il quale prese in esame con diligenza le cose, comandò nell’anno 1531 alle monache conventuali, che sotto pena di scomunica non dovessero in avvenire accettar fra i loro chiostri né monache d’altri monasteri, né secolari fanciulle.

Così fu nel breve giro di sei anni ridotto il numero delle conventuali a sole quattro; tre delle quali si determinarono ad abbracciar l’osservanza, e fu il monastero secondo le apostoliche costituzioni ridotto, e reintegrato in un solo corpo, essendosi le osservanti, tratte dal monastero di Santa Giustina, determinate di cambiar l’antico loro abito grigio nelle candide vesti usate in Santa Maria delle Vergini. Questa stessa qualità di abito bianco era allora indifferentemente adoperato sì dalle monache coriste, che dalle sorelle serventi; le quali da tal parità di vestito prendendo stimoli d’alterigia, contaminavano con azioni men prudenti il buon nome acquistato dal monastero. Che però il cardinal penitenziere, d’ordine pontificio, nell’anno 1541 alle preghiere delle vergini coriste decretò, che in avvenire dovessero le sorelle vestirsi d’abito nero, come usar solevano avanti la riforma; esempio che sarebbe utilissimo, se si imitasse, anco in molti altri monasteri, ove l’uguaglianza nell’abito alle nobili coriste somministra alle sorelle occasione di fasto, e ne seguono poi dissensioni, e inquietezze. Riconfermò al riformato monastero tutti i suoi privilegi Paolo III, nell’anno 1548. E Giulio papa III, a maggior sussidio, e decoro del monastero stesso unì ad esso nell’anno 1551 la chiesa parrocchiale di Sant’Odorico di Musestre, situata nei confini della diocesi trevigiana.

Atteso dunque il decoro di sua origine, e le replicare prerogative, con le quali fu egli in tutti i tempi favorito così dalla liberalità apostolica, come dalla munificenza del dominio, stabili il senato nel giorno 23 d’aprile dell’anno 1613 che la chiesa del monastero di Santa Maria delle Vergini dovesse ogni anno esser solennemente visitata dal principe, e dal senato nel giorno primo di maggio, come quello che era il primo dei due, nei quali aveva Bonifacio IX concessa l’indulgenza di Santa Maria della Porziuncola, e che pochi anni avanti, cioè nell’ anno 1605 era stata da Paolo papa V, confermata e dichiarata plenaria, e perpetua.

Tale fu la fondazione, tale la serie delle vicende di questo monastero, dichiarato perpetuo juspatronato dei dogi di Venezia dal fondatore Pietro Ziani doge, la di cui beneficenza imitando uno dei suoi posteri, nominato Zilio, donò a questa chiesa una devota, e miracolosa immagine, la quale, come si deriva da antica tradizione, era prima venerata in Gerusalemme nel tempio dedicato al nome di Maria Vergine. Danno maggiore decoro a questa chiesa, che fu consacrata nel giorno 20 di giugno, anche molte, ed insigni reliquie, cioè un piede di San Giovanni Calibita, una mano di San Teodoro di Eraclea martire, un osso di San Giacomo Interciso pur martire, e tre corpi Santi dei Martiri tratti dai cimiteri di Roma, che coi nomi imposti di Magno, Pio, ed Onorato furono collocati negli altari a pubblica venerazione. Nove sono in numero gli altari; ma tre si distinguono in qualità, cioè l’altar maggiore, dove in un magnifico tabernacolo di scelti e preziosi marmi si conserva l’adorabile sacramento, ed altri due situati alla metà della vasta chiesa, dedicati l’uno al Redentor Crocifisso, e l’altro alla Vergine Santissima sotto il titolo del Rosario.(1)

Visita della chiesa (1733)

Entrando in chiesa nella prima tavola a mano sinistra vi è in aria Dio Padre i Santi Agostino, Marco, e Margherita, di mano d’Antonio Aliense. Più avanti vi è la tavola di San Sebastiano, e di sotto in un ovadino l’Annunziata, opere delle buone d’Antonio Aliense quando studiava da Paolo; altare di Cà Querini. Nella cappella alla destra della maggiore vi è la tavola della risurrezione opera del suddetto Aliense. Il tabernacolo dell’altar maggiore con quattro facce; nell’una la cena, di mano del Mera, nell’altra Cristo all’orto, di Pietro Vecchia; nella terza un simbolo dell’Evangelio di Matteo Ponzone, e nella quarta un simbolo pure di mano del Cav. Ridolfi. Nella cappella alla sinistra dell’altar maggiore vi è la tavola dell’Annunziata delle prime di Gregorio Lazarini, e dai lati vi è San Pietro, che piange e San Francesco; opere di Matteo Ponzone, che erano nella vecchia palla. Nell’alto dell’organo vi è il Re Davide di Antonio Zanchi. Segue passata la sagrestia la tavola del Cristo morto con le Marie; opera di Girolamo Gambarato ; sopra il coro delle Madri vi è rappresentata in gran tela la fondazione di questo nobilissimo monastero da Antonio Molinari della sua più eccellente maniera.(2)

Eventi più recenti

Per decreto 29 novembre 1800, si assegnarono alle truppe di Marina, che ne presero possesso il 13 marzo 1807. Poi nel 1 febbraio 1809 si ridussero a bagno dei forzati, facendosi corpo di guardia la prossima chiesetta della Visitazione, fabbricata nel 1399, e ristaurata nel 1581. Ora sono completamente demoliti, e l’area, compresa nella cerchia dell’Arsenale, serve a bacino di carenaggio, incominciatosi a scavare nel 1869. (3)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ANTONIO MARIA ZANETTI. Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia ossia Rinnovazione delle Ricche Miniere di Marco Boschini (Pietro Bassaglia al segno di Salamandra – Venezia 1733)

(3) GIUSEPPE TASSINI. Edifici di Venezia. Distrutti o volti ad uso diverso da quello a cui furono in origine destinati. (Reale Tipografia Giovanni Cecchini. Venezia 1885).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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