Chiesa e Monastero della Santa Croce della Giudecca vulgo della Croce

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Fondamenta de la Croce. Giudecca. Chiesa della Santa Croce

Chiesa e Monastero della Santa Croce della Giudecca vulgo della Croce.

Storia della chiesa e del monastero

Affatto ignoti ci sono i principi, e la fondazione del Monastero di Santa Croce situato nel mezzo dell’Isola della Giudecca, di cui non si ritrova documento alcuno che ne faccia menzione prima dell’anno 1328, nel quale furono concesse per decreto del Maggior Consiglio a diversi privati porzioni delle paludi contigue al Monastero di Santa Croce, per dover renderle abitabili. Una dilatata parte di tali paludi giacente tra il suo monastero, e quello di San Giorgio Maggiore ottenne nell’anno 1330 per pubblica concessione l’abbadessa di Santa Croce Giacomina Paoni a oggetto di render più ampio il circuito del suo monastero, con l’obbligo di dover ogni anno per tale concessione regalare ai dogi un paio di guanti di camozza, e d’alzar dentro lo spazio di tre anni l’impetrata palude.

Ristrette erano in quei primi tempi le rendite del monastero, e bene spesso dovevano le buone monache penuriare il necessario loro alimento; ma pure la stima, in cui erano appresso la città per l’esemplarità di lor virtù, invitava copioso numero di vergini, e in gran parte nobili a professare ivi l’istituto di San Benedetto. Per sollevare dunque in qualche parte le loro indigenze papa Eugenio IV concesse con apostolica liberalità plenaria indulgenza da conseguirsi in caso di morte a chiunque proporzionatamente alle proprie forze le sovvenisse nella grave penuria, dalla quale erano oppresse. Fu segnato il pontificio diploma nell’anno 1435 addì 29 di aprile, e due anni dopo lo stesso papa Eugenio con nuova beneficenza unì a questo monastero l’altro di San Giorgio di Fossano dell’Ordine di San Benedetto della diocesi di Chioggia con tutte le rendite e pertinenze di esso fra le quali vi era l’antica Chiesa di San Cipriano di Sarzana donata già a Pietro abbate di Fossano nell’anno 1151, da Gregorio II vescovo d’Adria.

Queste ed altre, che poi susseguirono, apostoliche grazie ottennero le osservanti monache, come lo attestano le bolle pontificie, per il merito di loro costante virtù, la quale nota essendo ai superiori ecclesiasti gli eccito a valersi dell’opera fruttuosa di religiose cotanto esemplari per far rivivere in alcuni monasteri rilassati e scorretti quella regolare disciplina, che così bene fioriva fra di esse. Erano quei tempi circa i principi del secolo XV, per l’ostinata durazione dello scisma, e per le crudeli guerre, che travagliavano l’Italia, cotanto per perversi e viziosi, che si risentirono non poco della lor malvagità anche i luoghi più religiosi, e fra questi principalmente molti monasteri di monache contrassero una funesta scostumatezza. Avendo dunque fra gli altri declinato non poco dal suo splendore di regolar osservanza l’antico Monastero di San Servolo, il vescovo di Castello San Lorenzo Giustiniano per riformarlo tradusse nell’anno 1434 dal Chiostro di Santa Croce tre monache, e costituì una di esse in abbadessa di San Servolo con esito così felice, che dove ella aveva trovato in quel luogo quattro sole monache inosservanti, ne lasciò al suo morire oltre ottanta di esemplarissima vita.

Non procedette però con egual felicità l’altra riforma del Convento di Sant’Angelo di Contorta, monastero già fondato per ordine del doge Domenico Contarini in austera osservanza della regola di San Benedetto. Si lasciarono le monache già raffreddate nell’antico fervore talmente invadere dalla corruttela di questi funesti tempi, che il loro monastero reo di varie abbominazioni era divenuto uno dei più liberi e di mal esempio. Per ricondurlo dunque alla primiera esattezza di disciplina trasse il sopra lodato santo vescovo circa l’anno 1437, dal Monastero di Santa Croce della Giudecca alcune delle più virtuose vergini, e le collocò in Sant’Angelo di Contorta, affinché con gli esempi di lor pietà, e con caritatevoli istruzioni ritraessero le traviate donne dal sentiero di perdizione per cui correvano. Inutile riuscì ogni sforzo, resistendo ad ogni progetto di riforma quegli animi troppo assuefatti al disordine, cosicché disperando il santo prelato di lor correzione, si credette in obbligo di rappresentare la riprensibile condotta della mal regolata lor vita, ed il dispregio dei suoi salutari consigli al pontefice Eugenio IV, che commosso dalla gravità del disordine con provvidenza apostolica nel giorno 29 di agosto dell’anno 1440, estinse nel Monastero di Sant’Angelo di Contorta la dignità d’abbadessa, e commise al vescovo stesso di trasferirne in altri chiostri dell’istituto benedettino le monache; dopodiché il monastero soppresso dovesse in perpetua unione incorporarsi a quello di Santa Croce della Giudecca detta de scopulo.

Mentre dunque per il lodevole oggetto di toglier l’invalso scandalo ciò si operava dal zelo di San Lorenzo, le astute donne ricorsero piangenti al senato, esponendo, che dopo aver condotta l’intera lor vita in un monastero mantenuto con le lor doti, venivano esse minacciate di esserne escluse per volontà del vescovo determinato ad introdur in lor vece nel luogo una congregazione di monaci, onde esse poi fossero sforzate a terminare i loro giorni raminghe, e mendiche. Commosso il senato dalle maliziose querele, operò nell’anno 1441 appresso il prelato, perché restassero le monache nell’antiche lor sedi, dovendo soggiacere ai meritati castighi qualunque di esse contaminaste con gli onesti costumi la santità di lor professione.

Furono queste speciose apparenze di finto ravvedimento, ma ben presto gli eccessi scandalosi, che andarono sempre più aumentandosi, fecero conoscere che la celeste prudenza, con cui si regolava l’illuminato prelato, era superiore ad ogni umana veduta. Per cui il senato stesso nauseato della inonestà, e rilassatezza delle scandalose femmine con suo decreto dell’anno 1448 animò lo zelo del vescovo ad operare liberamente circa le monache e Monastero di Sant’Angelo di Contorta, come meglio conoscesse esser del divino onore, e del decoro anche del Dominio.

Quantunque però e l’ecclesiastica, e la laica podestà unite si fossero nella stabilita esclusione, contuttociò ella andò differendosi fino all’anno 1474, in cui con nuovo diploma comandò il pontefice Sisto IV al patriarca di Venezia Maffeo Gerardo, che in esecuzione dello stabilito dal suo predecessore Eugenio IV, dovesse ridur ad altri chiostri dell’ordine benedettino le monache di Sant’Angelo di Contorta, ed unir poi il loro monastero e rendite a quello di Santa Croce, in cui le religiose dal numero di trentasei, in cui erano al tempo di papa Eugenio, accresciute si erano oltre le cento sotto il felice governo della beata Eufemia abbadessa, alla di cui direzione sottomesse si erano abbracciando lo stato religioso molte delle più qualificate vergini veneziane. Unì dunque il patriarca i due monasteri e le loro rendite, ma con assai discreta esecuzione lasciò nel luogo di Sant’Angelo le sue abitatrici, assegnando porzione dei beni al loro sostentamento, dal che avendo esse defunto nuovo motivo di doglianze ricorsero al pontefice Innocenzo VIII, per la di cui autorità restò nuovamente nell’anno 1492 confermato il comando dei suoi precessori, e la divisione stabilita dal patriarca. Non desistettero però dall’ardita intrapresa le ostinate femmine, finché con nuovo giudizio emanato contro di esse nell’anno 1508, e da poi col tempo, che andò levandole dal mondo, si finirono le contese, e restò il monastero di Santa Croce in pacifico possesso di quell’isola. Stette per pochi anni vuota di religiosi abitatori l’isola: poiché nell’anno 1518 i Carmelitani della congregazione di Mantova (come altrove si è detto) l’ottennero dalle monache, e vi si fermarono fino all’anno 1555, in cui per permissione del senato la lasciarono per fissare la lor permanenza in Venezia nell’Isola della Giudecca. Reso poi il luogo di Sant’Angelo incapace di essere abitazione di comunità religiosa, fu per ordine pubblico destinato alla fabbrica delle polveri per le artiglierie, al qual uso servì fino all’anno 1589, in cui per un improvviso incendio delle polveri restò atterrato e distrutto.

Al soprammentovato beneficio della comandata unione dei due monasteri già ne aveva fatti precedere degli altri il pontefice Sisto IV. Poiché nel giorno 14 dell’anno 1471 con lettere apostoliche dirette al patriarca di Venezia, e ad altri di lui colleghi commissari apostolici loro commise, che unir dovessero al Monastero di Santa Croce della Giudecca il diroccato convento di San Domenico di Tusculano, già abitato dai religiosi dell’Ordine dei Predicatori, e poco dopo nel giorno 8 del susseguente marzo, concesse ed unì al monastero stesso di Santa Croce li due luoghi di Santa Felicita di Romano, nella diocesi padovana, e di San Giorgio vicino a Castelfranco Diocesi di Treviso, già posseduti da una congregazione di Preti Secolari chiamata di Pietro di Malerba, e già fondata ai tempi di Eugenio IV dal beato Beltrame sacerdote ferrarese sotto l’invocazione del dottor San Girolamo, e col nome di poveri Eremiti. L’ultima beneficenza di beni temporali concessa dalla paterna provvidenza della Santa Sede seguì nell’anno 1506, in cui il pontefice Giulio II, con suo diploma soggetto all’abbadessa, ed al convento di Santa Croce della Giudecca la chiesa parrocchiale di Santa Maria di Nono situata nella diocesi di Padova con tutte le di lei rendite, e prerogative.

Animate dalla continuazione delle divine misericordie le buone Religiose perseverarono costantemente nell’intrapresa carriera di perfezione: onde diffusasi anche nei lontani paesi la fama di lor virtù, furono nell’anno 1546 chiamate tre di esse, cioè Aurelia, e Vittoria native di Nicosia, e Maria Colomba veneziana insieme con una conversa di San Giovanni di Torcello nominata Barbara, dagli ambasciatori del Regno di Cipro venuti a Venezia affinché seco loro si portassero in quel regno per restituire nel Convento di Santa Maria Maggiore, detto di Nostra Signora di Sur, l’ordine monastico, e fondarvi l’istituto di San Benedetto.

Frattanto mentre la liberalità apostolica andava sollevando con le sopra enunziate unioni le ristrettezze del monastero, l’antica chiesa indebolita dal lungo tempo eccitò i pensieri delle monache alla sua rinnovazione, per l’incominciamento della quale nel giorno 25 di aprile dell’anno 1508 fu posta la prima pietra benedetta nei fondamenti, e nel breve giro d’un settennio si ridusse a compimento la sacra fabbrica, che poi ricorrendo lo stesso giorno 25 aprile nell’anno 1515 fu da Antonio Contarini patriarca di Venezia solennemente consacrata. Riuscì ella e per la magnificenza degli altari, e per la ricchezza delle sacre suppellettili assai riguardevole; ma il di lei decoro maggiore l’ottenne dalla preziosità delle sacre reliquie ad essa in vari tempi offerte, che la rendono un santuario.

Sono esse: diverse porzioni del salutifero legno della Santissima Croce rinchiuse in reliquiari di greca manifattura, nei quali la perfezione del lavoro supera di gran lunga il valor dell’argento dorato, di cui sono composti. Una porzione della porpora addossata a Cristo Redentore nella di lui Passione, rinchiusa essa pure in nobilissimo reliquiario. Il pollice e l’indice della destra mano di San Giovanni Grisostomo incorrotti, nella carne dei quali si vede ancora durevole l’impressione della penna per il continuato esercizio dello scrivere, come si legge nella di lui vita. I sacri capi dei Santi Ermogene, e Teofane martiri illustri della Grecia. Un piede di Santa Teodosia martire, ed alcuni frammenti dell’ossa dei Santi Benedetto abbate, Scolastica vergine, e Placido monaco martire. Molte ossa delle compagne della vergine e martire Sant’Orsola; ed altre insigni reliquie dei Santi Cosma, Gaudenzio, Eugenio, ed altri Martiri tratte dai sacri cimiteri romani.

Il corpo di Sant’Atanasio celebre dottor di Santa Chiesa, e patriarca d’Alessandria, che incorrotto si custodisce nell’altare al di lui nome dedicato, benché senza testa, la quale (come altrove si è detto) si crede sia stata offerta al Monastero di San Girolamo. Viene ogni anno il sacro corpo nel giorno antecedente alla sua solennità visitato dai sacerdoti della Chiesa di San Giorgio dei Greci, i quali per disposizione testamentaria di Tommaso Flangini, sono tenuti d’ivi cantare in rito greco i primi vesperi ad onore del santo, ed offrire al di lui altare dodici candele di cera. L’ammirabile traslazione di questo sacro corpo fu elegantemente descritta da Ermolao Barbaro vescovo di Verona in lingua latina, ed è pure con rozza frase veneziana distesa da autore anonimo fra i registri del monastero, dai quali fonti fedelmente si è tratto il seguente compendio.

Nel mese di Dicembre  dell’anno 1454 ritrovandosi in Costantinopoli con sua nave Domenico Zottarelli si portò a visitarlo un vescovo greco cattolico, e nel discorso entrò ad esagerare la deplorabile sciagura di quella cospicua metropoli caduta due anni avanti nelle mani dei barbari, e lo strapazzo ingiurioso fatto alle cose sacre, ed alle reliquie dei santi. Mostrò allora il Zottarelli un fervido desiderio di ottenere alcuno di quei preziosi depositi per toglierlo alla profanazione dei barbari, e ridurlo in luogo, ove fosse decentemente venerato. Applaudì il buon vescovo al disegno, e gli manifestò esservi in parte remota della città una cappella coperta di piombo (e disegnò il preciso sito) in cui giaceva riposto il corpo del gran patriarca Sant’Atanasio. Giubilò a tal avviso il Zottarelli, e chiamato a sé un acconciatore di barche di suo seguito, uomo pratico della lingua greca, e dei siti di Costantinopoli, gli aprì il secreto delle cose risapute, e lo eccitò all’acquisto del venerabile corpo. Assentì il buon uomo, ed attesa la congiuntura di un giorno piovoso vestitosi da marinaro si portò alla dinotata chiesa, in cui giaceva il santo corpo riposto in una cassa di tavole dipinta con l’immagine, e nome di Sant’Atanasio. Aperta poi la cassa, ed estrattone il sacro deposito, lo ripose in un sacco, a tal oggetto seco lui portato; indi nascosto il lodevole furto sotto le vesti s’incamminò alla nave. Appena però uscito di chiesa scoperse venirgli incontro in qualche distanza sei turchi, per timore dei quali divertendo il cammino entrò in una abbandonata vigna, e sotto l’erba che ivi alta sorgeva, nascose il santo corpo. Ritornato poi sulla strada, ed interrogato dai turchi chi egli fosse, tostoché ebbe risposto di essere marinaro di nave mercantile fu lasciato proseguire il suo viaggio con libertà. Sottrattosi dunque da tal impedimento ritornò egli a ricuperare il nascosto tesoro, e lo protesse Iddio per il rimanente di sua strada con una continuata pioggia, che l’accompagnò senza incontro di persona veruna fino al termine dell’imbarcarsi. Appena però giunto alla nave si serenò il cielo, ed il padrone della nave l’accolse con giubilo, e con egual venerazione, e fece nello stesso tempo voto a Dio di presentare l’acquistato santo corpo al monastero di Santa Croce della Giudecca. Fu poi per i meriti del santo preservata prodigiosamente la nave dall’imminente pericolo d’infrangersi, e nel frattempo che si disponeva al ritorno premise il Zottarelli avvisi alle monache del sacro donativo, che stabilito egli aveva di presentare alla loro chiesa. Ne fecero esse ben tosto consapevole il patriarca San Lorenzo Giustiniano, il quale prima che la nave arrivasse, volle da persone pratiche dei luoghi, e delle chiese di Costantinopoli rendersi informato della verità dei fatti, e poté rilevare, che veramente in una chiesa situata nella contrada, detta Astrofalo negli ultimi confini della città di Costantinopoli riposava in una cappella coperta di piombo il corpo del patriarca Sant’Atanasio. Viaggiando frattanto la nave ebbe l’incontro di due navi catalane, le quali avendo risaputo di qual ricchezza fosse carica la nave veneziana, l’attendevano per derubargliela con violenza; ma Iddio, che aveva destinato d’arricchirne Venezia, fece che con modo meraviglioso la nave sottraesse di notte tempo alla loro veduta, e poco dopo giungesse felicemente al porto di Malamocco. Ivi dunque arrivata felicemente la nave, il Zottarelli tratto da essa il sacro corpo, e postolo in una piccola barca da trasporto, detta peota, lo portò al palazzo patriarcale, e lo presentò al santo prelato, da cui fu segretamente mandato al Monastero di Santa Croce, vietando il prestargli veruno culto, se prima non si fosse accertato della identità. Esaminati dunque i testimoni, ed avuti i necessari sicuri riscontri esser il corpo trasportato a Venezia quello stesso, che si venerava in Costantinopoli nella chiesa d’Astrofalo, a cui mancava un dito della mano destra portato già molto tempo prima in Venezia, e donato al monastero di San Lorenzo, decretò il santo patriarca, che potesse esporsi alla pubblica venerazione. Per rendere però cospicua la solennità della traslazione, invitò lo zelante patriarca ad intervenirvi il principe, ed il senato, e molti vescovi delle circonvicine città, che di buon animo si portarono a Venezia per render più fastoso il trionfo del santo dottore, e patriarca. La mattina dunque della domenica fra l’ottava dell’Ascensione dell’anno 1455, giorno destinato alla sacra funzione, prima del far del giorno fu il santo corpo trasportato dal Monastero di Santa Croce alla Basilica Ducale di San Marco, ed ivi onorevolmente esposto sopra l’altare maggiore. Giunta poi l’ora competente si portò alla Chiesa Ducale il patriarca con l’accompagnamento di vescovi e prelati in numero di quindici, e di ambi i cleri secolare, e regolare della città, ed ivi fatto levar il santo corpo da otto prelati mitrati, precedendo le quattro Scuole Grandi, con pomposo apparato s’incamminò la processione per imbarcarsi verso il Monastero di Santa Croce. Era procellosa la giornata, ed un forte vento insorto minacciava di non lasciare incominciare, o d’interrompere la funzione; ma il santo prelato, che la dirigeva, pieno di fiducia comandò che s’incamminassero, ed al primo spuntare del santo corpo fuori delle porte di San Marco, si serenò il cielo, e cessò il vento, cosicché con perfetta tranquillità continuò e terminò il pomposo trasporto, accompagnato devotamente dal principe, e dal senato fino a depositare il santo corpo nel luogo onorevole apparecchiatogli per perpetuo riposo nella Chiesa di Santa Croce. Moltissimi furono i miracoli, coi quali Dio glorificò l’illustre suo servo così nel giorno della traslazione, come dopo, i quali sono anche il più luminoso e veridico attestato dell’identità del santo corpo, di cui è costante tradizione, aver nel giorno festivo del suo trasporto tramandato continuamente un soavissimo odore sentito, ed ammirato da tutti i circostanti.

Si conserva pure nel coro interiore delle monache il rispettabile corpo della beata Eufemia Giustiniana già abbadessa del monastero, le di cui eroiche virtù, e prodigiose azioni si leggono descritte nei registri del monastero, dai quali è con fedeltà tratto il seguente trasunto.

Nacque in Venezia la beata Eufemia dalla nobilissima famiglia Giustiniana, e quantunque noti non siano i nomi dei di lei genitori, pur certo è, esser ella stata nipote del patriarca di Venezia San Lorenzo Giustiniano, da cui era amata non tanto per la congiunzione del sangue, quanto per la somiglianza delle virtù.

Prevenuta fino nella sua più tenera età dalle dolcezze della grazia, non sapeva trovar piacere, che nell’orazione: rendendo tutti i suoi desideri ad unirsi a Dio vestì l’abito religioso di San Benedetto nel decimosettimo anno dell’età sua, e ne professò poi solennemente la regola nel giorno 28 di giugno dell’anno 1426. fra le mani di Margarita dalla Fossa, allora abbadessa del monastero. Consacrata sposa a Gesù Cristo cercò con fervore d’imitarne le virtù, e fatta un esemplare di religiosa perfezione, divenne in poco tempo l’ammirazione della comunità, che nell’anno 1444, senza avere riguardo alla di lei ripugnanza, ed alle di lei lagrime la elesse abbadessa in luogo della defunta Margarita dalla Fossa. Nel nuovo grado si credette Eufemia in obbligo di dar alle sue figlie maggiori esempi d’umiltà, di mortificazione, e di regolarità, e ne accese talmente il fervore, che bene spesso dovette con discretezza moderarne l’austerità, e le penitenze. Persuasa, che la nuova carica non le dava altro vantaggio sopra le sue monache, che un rigoroso debito di servir loro, e d’impiegarsi senza riserva per le loro necessità, non si può abbastanza esprimere con quanta attenzione ella loro assistesse non solo per guidarle sane all’acquisto della perfezione; ma per sollevarle inferme fino ad abbandonare spesse fiate il dolce esercizio delle sue contemplazioni per fermarsi indefessa al loro servigio. Risplendette maggiormente il fuoco della di lei carità nell’anno 1464. allorché il morbo pestilenziale, che affliggeva Venezia, entrò ad inferire anche nei chiostri di Santa Croce, ed in pochi giorni rapì dal mondo quattro monache, lasciando le altre ripiene non men di terrore, che di tristezza. Fece in questa occasione comparire la buona abbadessa l’amor materno, che ella aveva per le sue religiose. Poiché superiore ad ogni spavento, nulla curando l’evidente pericolo di sua vita, si fermò costante al conforto delle moribonde, che spirarono l’anima fra le di lei braccia. Dimostrò Dio con un miracolo quanto grata le riuscisse la carità dell’ottima madre, poiché mentre agonizzava attaccata dal male la quinta monaca, comparve alle grate del parlatorio un giovane cavaliere straniero, e dopo aver risaputo dalla portinaia di nome Scolastica la cagione della di lei tristezza, le impose di riferire all’abbadessa, essere molto gradita a Dio la di lei misericordia verso le inferme; si confortasse però, che da quel punto in avvenire mai più avrebbe avuto ingresso nei loro chiostri un sì funesto flagello. Chiesta indi, ed assaggiata una tazza d’acqua, disparve. L’esito verificò la predizione: non essendo da quel punto più nel monastero infettata alcuna dal male; e nell’anno 1576, allorché la pestilenza infieriva per tutta la città con orribili stragi, il Monastero di Santa Croce ne restò totalmente illeso. Per la qual cosa si rinnovò la fausta memoria dell’apparizione seguita, e per via dell’acqua di quel pozzo, cui gustò il prodigioso giovane, prima per ordine del patriarca benedetta dal piovano di Sant’Eufemia con le reliquie del martire San Sebastiano (creduto universalmente l’apparso cavaliere), seguirono non solo in Venezia, ma nei paesi circonvicini ancora, ove fu portata, mirabili guarigioni.

Animata da dimostrazioni sì evidenti della divina protezione la santa abbadessa, andò sempre accrescendo il fervore di sua carità, e la sua fiducia in Dio, con la quale merito, che in un’estrema penuria del suo monastero comparissero visibili due angeli, i quali apprestato il pane necessario al vitto delle monache, incontanente disparvero. Ma queste non furono le maggiori grazie, con le quali Dio favorisse la sua serva. Donata del dono dei miracoli, e di profezia predisse a molti i casi, che dovevano loro avvenire, e ben a loro nascosto alcuni, che ne dispregiarono i consigli, nel funesto esito di loro intraprese riconobbero la verità delle predizioni. Da tale spirito commossa un giorno mentre nel coro si recitava l’ora di prima, improvvisamente comandò alle monache, che tosto con candele accese in mano portar si dovessero processionalmente alla porta del monastero, ove appena giunte si videro da un devoto uomo (il quale a niuno aveva partecipata la sua intenzione) portare in dono una devota immagine di Maria Vergine, che poi si rese celebre anco per miracoli.

La riputazione dunque della di lei santità sparsa essendosi per tutta Venezia, mosse moltissime vergini a vestire l’abito religioso sotto la di lei direzione; onde essendo stata eletta abbadessa di trentaseí monache lasciò al suo morire il monastero popolato di oltre cento religiose. A favore di così pia, e numerosa comunità la dotò Iddio del discernimento degli spiriti, e della penetrazione dei cuori: perciò frequentemente conosciute le tentazioni, da cui erano combattute le sue religiose, ne calmava lo spirito, e confermava le novizie nel santo proposito dell’intrapresa vita religiosa.

Frattanto le fatiche da lei per la sua carità intraprese furono sì eccessive, che posero in rovina la di lei sanità, e fu colta da una improvvisa malattia, che la ridusse all’estremo; del che reso consapevole il santo patriarca Giustiniano, mandò tosto a consolare le religiose di lei figlie assicurandole, che i meriti della loro abbadessa non erano ancora arrivati al lor colmo, e però sarebbe in breve restituita alla primiera salute. L’esito felice della malattia verificò il vaticinio del santo, ed il fervore e la carità dell’abbadessa si aumentarono, anche più dopo la recuperata salute. Provò poi Iddio la di lei costanza con una disgrazia. Poiché impiegandosi ella per sua umiltà nei più abbietti ministeri, se le rovesciò sulla destra mano una caldaia piena d’acqua bollente, del di cui ardore sentì bensì, e tollerò con pazienza l’aspro dolore, ma restò libera la mano alla continuazione delle caritatevoli operazioni. Consumata in fine dalla rigidezza, con cui trattava sé stessa, e dal continuo faticare ad altrui vantaggio, cadde in una gravissima malattia, che conobbe doverla unire a Dio. Gli ultimi giorni della vita non furono per essa che un continuato esercizio d’umiltà, di pazienza, e di carità, e sentendosi giunta all’estremo, dopo aver ricevuti con ammirabile divozione i sacramenti ultimi di santa chiesa, circondata dalle sue religiose, che si struggevano in pianto per la perdita di sì buona Madre, consegnò soavemente il suo spirito a Dio nel giorno 2 di giugno dell’anno 1487, e dell’età sua settantesimo nono.

I di lei funerali furono onorari dalle acclamazioni del popolo, che la venerava per santa, e da celeste armonia degli spiriti angelici, che furono uditi cantare tanto nel tempo della sepoltura, quanto dappoi sopra il luogo, ove era stata deposta. Fu questo luogo il pubblico cimitero delle suore, nel di cui terreno esposto all’aria, e sommamente umido fu tra i cadaveri dell’altre defunte collocato senza distinzione veruna il corpo della venerabile abbadessa. Ma Dio, che veglia all’onore dei suoi servi, non volendo che quel corpo sede già di un’anima tanto a lui cara riposasse in un luogo cotanto umile, fece che di notte tempo risplendessero sopra di esso prodigiosi splendori, e si udissero concerti di paradiso; onde da ciò eccitare le monache estratto il venerabile cadavere dalla terra, e ripostolo in, una cassa lo depositarono in più onorevole luogo. Ma da questo pure, in cui si rinnovarono gli splendori e i canti celesti fu nuovamente levato l’ammirabile corpo ritrovato intero, incorrotto, e palpabile in guisa di chi dorme, e per mano delle lagrimanti monache fu deposto in una decente urna di marmo nell’interiore sacristia della chiesa; finché per consiglio di saggi, e pii uomini fu trasportato nel coro interiore delle monache, affinché con la veduta di esso si animassero le religiose alla perseveranza, e fosse anche facile il sodisfare alla divozione dei qualificati personaggi bramosi di ammirarne l’ammirabile incorruzione.

Innalzato poi nell’anno 1620 alla sede patriarcale di Venezia Giovanni Tiepolo, primicerio di San Marco, desiderò nei primi giorni di sua dignità portarsi a riverire il corpo della beata, e postosi innanzi ad esso a ginocchia piegate, raccomandò sé stesso alla di lei protezione nel grave peso, che aveva assunto. Dopo ciò nell’anno susseguente 1621, facendo il buon patriarca dipingere alcune immagini dei santi, e beati veneziani per riporle in una cappella nella chiesa volgarmente chiamata della Madonna dell’Orto, gli apparve una notte in visione la beata Eufemia, e fattasi conoscere per quella, di cui aveva nell’anno antecedente venerata la mortale spoglia gli ordinò, che dovesse far riporre il ritratto fra gli altri santi veneziani. Dubitò prima della verità di tal visione il prudente prelato; ma replicata l’apparizione, comandò tosto la formazione di due ritratti, uno dei quali egli ripore fece nella suddetta Cappella, e l’altro lo mandò in gradito dono al Monastero di Santa Croce. Con numero grande di prodigiose guarigioni fece conoscere Iddio i meriti della fedele sua sposa, il di cui venerabile corpo continua tuttavia a godere dei privilegi di quella singolare preservazione, che ottenne fino dai tempi della prima sua sepoltura. (1)

Visita della chiesa (1733)

Questa chiesa ha cinque altari ed è ornata da riguardevoli pitture. Sotto il coro a mano sinistra vi è un quadro con la Madonna, San Giovanni Battista, e San Giuseppe di maniera parmeggianinesca. Segue un quadro con Nostro Signore nato, di Antonio Zanchi. Vi è poi la palla con i Santi Benedetto, e Scolastica nell’alto, e sul piano San Lorenzo Giustiniani di Sebastiano Ricci. Dal lato destro dell’organo vi è la Fede, di Pietro Ricchi, dal sinistro Sant’Elena, di Matteo Ponzone. Segue la tavola con i Santi Domenico, e Rosa di Antonio Zanchi. Sopra la porta della sacrestia vi è Cristo all’Orto di Michele Sobleau, opera degna. La palla di Sant’Atanasio e di Antonio Zanchi. Il quadro con la Madonna, la Croce, e vari Santi sopra il finestrone è di Matteo Punzone. Due Santi vescovi sono della scuola del Tiziano. (2)

Eventi più recenti

Quando Venezia fu assoggettata a Napoleone, il monastero fu soppresso e divenne una casa di correzione che arrivò ad ospitare diverse centinaia di detenuti. Fu poi un magazzino per la raccolta del tabacco, ma dagli anni sessanta del Novecento è divenuta sede sussidiaria dell’archivio di stato di Venezia. (3)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ANTONIO MARIA ZANETTI. Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia ossia Rinnovazione delle Ricche Miniere di Marco Boschini (Pietro Bassaglia al segno di Salamandra – Venezia 1733)

(3) https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa di Santa Croce (Giudecca)

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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