Famiglia Dandolo
Dandolo. Anche intorno alla famiglia Dandolo sono discrepanti tra loro gli scrittori nel fissarne l’origine. Alcuni affermano, che procedesse essa da Daulo, compagno d’Antenore, e quindi di sangue trojano, da cui, dicono, esser venute le due case Daulo, poi Dandolo di Venezia, e Dotto di Padova, come si ingegna provare Lodovico Lazarello, nel Poema intorno la giostra eseguita in Padova l’anno 1460; seguito dal marchese Dal Pozzo, nella sua Matilde; dall’Orsato, nella sua Storia di Padova, e dal conte Jacopo Zabarella, nella sua Aula. Altri, come il Longo, nella sua Istoria, dicono procedere questa casa della Gente Longa, patrizia romana, e che anticamente si appellò Ipata, avendo poi mutato in Dandolo il cognome preso dalla frase dando jure, cioé dall’amministrare giustizia.
Altri ancora, siccome il Frescot, nella sua Nobiltà veneta, e Francesco Bracciolini, nella Notizia dell’isola di San Nicolò detto de Mendicoli, riferiscono: che dalla Germania passò nella Liguria, ove signoreggiò parecchi luoghi e castella, donde poi venne in Altino, e quindi nelle Isole Realtine: alla quale ultima derivazione assente Giorgio Piloni nella sua Istoria di Belluno.
In qualunque modo sia la cosa, è certo però che questa casa è antichissima, annoverandosi fra le dodici prime dette apostoliche, che formarono il corpo della nobiltà patrizia. Laonde sostenne il tribunato più volte ed in più isole; concorse alla creazione del primo doge, e produsse in larga copia uomini illustri in ogni ordine, contando quattro dogi, una regina di Rascia ed una dogaressa, cioè Zilia Dandolo, moglie del doge Lorenzo Priuli. Fu anche questa casa signora di Gallipoli, di Andro e di altre isole nella Grecia, e si rese benemerita alla religione procurando alla patria li sacri corpi dei santi Teodoro, Tarasio, Simeone e della vergine e martire Lucia. Eresse le chiese di San Luca, con li Pizzamano; di San Pontaleone con li Signoli, e riedificò quella del Corpus Domini. Ila monumenti distinti e memorie in parecchie altre chiese, tra le quali, in San Marco, in Santi Giovanni e Paolo, ai Frari, in San Francesco della Vigna, in San Salvatore ed in San Fantino.
Quindici scudi diversi riporta il Coronelli nel suo Blasone, usati in vari tempi dalla famiglia in parola; ma a soli tre si ridussero da ultimo. Il primo, e più antico, è diviso d’argento e vermiglio, ed è quello sottoposto all’immagine del doge Enrico: il secondo, diviso d’argento ed azzurro con sei gigli, tre per ogni campo dei colori contrapposti, il quale fu alzato dal nostro doge, allorché, trovandosi all’acquisto di Costantinopoli, si avvide essere il proprio simile allo scudo del marchese di Monferrato, e ciò fece, giusta il Rannusio, per distinguerlo da quello, onde non accadessero equivoci nelle insegne del campo; il quale scudo si doveva veramente sottoporre alla sua immagine, invece del primo. Il terzo fu alterato dal doge Francesco Dandolo, che aggiunse all’antico scudo una croce d’argento in punta sopra il vermiglio, e ciò in memoria dell’ambasceria lunga e difficile da lui sostenuta appo li pontefici Clemente V e Giovanni XXII, ottenendo alla fine l’assoluzione dalle censure fulminate contro la Repubblica.
Il doge Enrico Dandolo, nacque nel 1108, ed ebbe a padre Vitale q. Domenico. Nel 1171, passò con la flotta, comandata dal doge Vitale II Michiel, contro Emmanuele, imperatore d’Oriente, al quale poi fu spedito, con Filippo Greco, per trattare della pace, che non ebbe effetto. Anzi più di un storico asserisce, che al greco Augusto, sendo venuto in uggia il Dandolo per avere con calore e fermezza sostenuto l’onore e l’interesse della propria nazione, lo avesse fatto prendere ed abbacinare: cosa codesta che è taciuta da altri, ed affermato invece, che, saputo dal Dandolo a tempo del tradimento, fuggisse. Il che è ragionevole e consentaneo alla storia: mentre come si spiega, ad esempio, che sendo egli cieco, od almeno nella vista ottenebrato, fosse poi stato assunto al trono, ed avesse capitanato l’oste veneta, e condotta in tutte le imprese gloriose superiormente discorse? Fu poi spedito Enrico, con Giovanni Badoaro, a Guglielmo, re di Sicilia, per conchiudere, come conchiudere, una lega contro l’imperatore Emmanuele prefato. Nel 1177, intervenne alla stipulazione della pace seguita fra il pontefice Alessandro III e l’imperatore Federico Barbarossa; ed in appresso, unito a Pietro Foscarini, fu eletto arbitro per comporre le discordie sorte coi Ferraresi a cagione dei confini.
Nel 1178, fu uno dei quattro scelti a nominare li quaranta elettori del doge Orio Mastropiero; alla morte del quale venne egli innalzato alla suprema dignità della Repubblica. Ebbe due figli e una figlia. Il primo, Rainiero, fu vice-doge nell’assenza del padre, fu procuratore di San Marco de supra, eletto il 14 aprile 1217, in luogo di Graziano Zorzi (Coronelli); generale della flotta contro i corsari (1205); uno degli elettori del doge Pietro Ziani (1205); duca di Cundia (1211); sottomise Candia stessa ribelle, e morì, secondo il Coronelli citato nel 1229. Il secondo, Fantino, venne eletto patriarca latino di Costantinopoli dopo la morte di Tommaso Morosini: e la figlia impalmò il marchese di Monferrato.
Il doge Giovanni Dandolo, da San Salvatore, ebbe a padre quel Giberto q. Riniero, che nel 1260, sendo eletto generale di mare sconfisse i Genovesi. Giovanni, prima d’esser doge, lo troviamo, nel 1266, podestà di Bologna, chiamatovi da quel comune; e nel 1276, bailo per la Repubblica in Tiro. Era conte di Ossaro nella Dalmazia quando fu eletto doge, come dicemmo. Ebbe due figli distinti, Andrea e Marco. Il primo, cognominato Calvo o Callo, fu podestà in Calcide di Negroponte, nel 1274; e nel 1283 andò primo rettore a Pirano. Il dì 5 dicembre 1293 veniva da ultimo eletto a procurator di San Marco de supra in luogo del morto Marin Contarini, e passava tra i più nel febbraio 1296. Il secondo, fu mandato, nel 1277, con cinque galee contro gli Anconetani; nel 1280, andò ambasciatore per definire alcune vertenze tra il marchese d’Este ed il signor di Verona; nel 1287 intervenne nella pace stipulata tra Padovani e Veronesi, e da ultimo, nel 1294, fu deputato ad accordare le condizioni con li conti di Camino della loro dedizione alla Repubblica, seguita poi il dì 4 luglio del detto anno.
Il doge Francesco Dandolo, ebbe a padre Giovanni, q. Francesco. La sua molta prudenza e desterità nei maneggi politici gli meritò di essere eletto ambasciatore, con Carlo Quirini, nel 1310, appo Clemente V, e poscia a Giovanni XXII, in Avignone, onde adoprarsi con tutto l’impegno per l’assoluzione dalla scomunica fulminata per la guerra di Ferrara: ed egli con grande senno e perseveranza otteneva lo scopo della sua missione, giusta quanto narrammo superiormente. Per questi ed altri meriti saliva alla suprema dignità della patria, come dicemmo. Altre notizie di lui non potemmo raccogliere dai genealogisti, tranne quella che la di lui moglie aveva nome Elisabetta.
Il monumento del doge Francesco venne trasportato nel Seminario della Salute, allorquando fu ridotto il cenobio dei Frari ad uso del pubblico archivio. Esso monumento è costituito da un’urna, sul prospetto della quale è scolpito il transito della Madre Vergine, la cui anima è accolta dal Padre Eterno. Superiormente vi era una mezza luna dipinta nel 1339, opera interessante per l’età, in cui si vede il doge Francesco e la di lui moglie Elisabetta, presentati alla Vergine dai Santi del loro nome. Adesso la mezza luna fu tolta da sopra l’urna e riposta sulla porta maggiore della sagrestia, che conduce al coro della chiesa del Seminario stesso della Salute.
Il doge Andrea Dandolo nacque da Fantino senatore cospicuo. Fin dalla sua gioventù si diede allo studio, e si, che fu primo tra i nobili veneziani a prendere il dottorato nell’università di Padova, ove fu poi per alcun tempo egli stesso professore di legge. La sua dottrina, la nobiltà della stirpe, la ricchezza del patrimonio, il carattere suo dolce, da essere appellato Cortesia e conte di Virtù, meritarono che, in età di soli 24 anni, venisse creato, il di 21 luglio 1334, procuratore di San Marco de supra, in luogo del defunto Nicolò Contarini. Quindi veniva mandato, nel 1333, podestà a Trieste, ove ebbe in feudo da quel vescovo il castello, villa e territorio di Siparo, Fontana Georgica, Isola Pontiana, e Villa di Siciole, presso Pirano, con tutte le altre ville e territori dell’Istria, dal predetto castello di Siparo sino a Pala. Fu poi provveditore in campo nelle guerre contro Mastino Della Scala; e, nel 1339, secondo dice il Cappellari, proposto al dogado, lui rifiutante. Il Dandolo fu uomo più di consiglio che di guerra, né senza difficoltà fu indotto ad accettare il dogato a lui offerto la seconda volta.
Per natura dedito agli affari, e portato per inclinazione allo studio delle lettere, seppe opportunamente dividersi tra le occupazioni dell’uomo di stato e quelle d’uomo di spirito. In questa guisa, nel mentre amministrava la Repubblica, proteggeva le arti e le lettere, ed era letterato di principi merito egli medesimo. Conosceva intimamente le antichità della sua patria e scrisse due cronache latine di Venezia, di cui l’una fu pubblicata dal Muratori, nei suoi Rerum italicarum scriptores, e l’altra è tuttavia inedita. Queste cronache, nonostante i loro difetti, che son pur sempre quelli del tempo suo, hanno tali e tante virtù, che vincono i secoli, e rimangono siccome una delle principali fiaccole dell’incivilimento.
Egli fu intimo amico del Petrarca, ed esistono le lettere che si scrivevano questi due uomini illustri, come esiste la inscrizione che il Petrarca stesso aveva dettata per essere posta sul suo monumento in luogo di quella che venne scolpita. Tra i figli che ebbe, merita particolare menzione Leonardo duca di Condia nel 1301; ambasciatore a varie corti; podestà di Trevigi, più volte provveditore in campo: e distintosi nella guerra contro i Genovesi a Chioggia, e finalmente eletto, il dì 16 marzo 1382, procuratore di San Marco de ultra, dignità che poscia rinunziò per sdegno, non avendo potuto ottenere il ducato a cui concorse dopo la morte di Andrea Contarini.
Andrea Dandolo fu l’ultimo doge che fu tumulato nella basilica di San Marco, dappoiché dopo lui fu preso che nessuno più avesse ivi sepoltura, secondo riferisce il Sanudo. La magnifica cassa che rinserra i resti mortali di lui, di stile archiacuto, porta sul coperchio disteso il simulacro del morto duce, dietro al cui capo ed ai piedi stan due celesti con incensieri nell’una mano, nel mentre con l’altra sostengono i lembi delle cortine, che giù scendono, e che son raccomandate ad un piano coperchio. La fronte della cassa stessa è divisa in cinque compartimenti, nei quali si vedono, in quello centrale Maria seduta col Figlio in braccio, e negli altri quattro il martirio degli apostoli Giovanni ed Andrea, e l’Annunziazione della Vergine. Sotto la cassa è collocata la inscrizione seguente:
QVEM REVERENDA CONORS VIRTVTVM TEMPORE NVLLO
DESERVIT, GELIDI BREVIS HAEC TENENET AVLA SEPVLCHRI.
MEMBRA VALENTIS ERANT PROBITAS, CVI DOGMATA SENSVS
INGENIVM PENETRANS MODVS ATQVE PROSAMINIS ALTI.
NOBILITATIS OPVS, MORVVM SERIESQVE VETVSTA
QVI DEDIT ASSIDVOS PATRIAE MEMORANDVS HONORES.
ET QVIA CLARA SONANT POPVLIS SVA CESTA PER ORBEM
PLVRA SINIT CALAMVS MERITO RECITANDA NOTARE
DANDVLA QVEM SOBOLES PEPERIT GENEROSA DVCATVM
ANDREAM OMNIMODAM VENETVM RATIONE MERENTEM
SEPTIMA DVMQVE DIES SEPTEMBRIS MILLE TRECENTOS
QVATVOR AT DECIES IAM QVINQVE DEDISSET OBIVIT. (1)
(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI
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