Chiesa Santa Marta. Monastero di Monache Agostiniane. Chiesa secolarizzata, monastero demolito
Storia della chiesa e del monastero
All’estremo angolo di Dorsoduro si vedeva il monastero dedicato alla grande ospite del Signore la vergine Santa Marta. Ne fu la fondatrice l’onesta matrona Giacomina Scorpioni, abitante nella parrocchia di San Nicolò, la quale mossa da impulso di carità verso il suo prossimo deliberò di stabilire un ospitale, ove accogliere gli infermi poveri di sua parrocchia. Comunicato il pensiero ad alcuni nobili, non solo l’approvarono, ma molti, fra quali principalmente Marco Sanudo, e Filippo Salomone contribuirono considerabili somme a sussidio dell’intrapresa.
Perché però la pia opera legalmente procedesse, ricercato prima, e si ottenne l’assenso del capitolo parrocchiale; indi presentatasi la buona donna avanti ad Accursio preposto pistoiese, e vicario generale di Giacomo Albertini vescovo castellano nell’anno 1315, richiese la facoltà di fare ergere una chiesa, ed un ospitale sotto il titolo di Sant’Andrea apostolo, e di Santa Marta vergine, e stabilito prima un annuo perpetuo censo alla chiesa di San Nicolò, ricercò che a lei fosse concesso, finché vivesse, l’essere priora, oppure eleggerla, e dopo la di lei morte ne appartenesse il jus al nobile uomo Filippo Salomone benefico protettore, e procuratore del luogo, ed ai di lui eredi. Accolse l’istanza il vicario, e permessa l’erezione del luogo, decretò che tutti gli abitatori dell’ospitale fossero tenuti pregar Dio per le anime di Marco Sanudo Torcello prima benefattore, e di Filippo Salomone protettore, e procuratore.
Gettò ad onore dei Santi Andrea apostolo, e Marta vergine la prima pietra nei fondamenti della nuova chiesa Giovanni Zane vescovo di Caorle; ma procedendo poi per mancanza di aiuti assai lentamente l’opera, impazienti i preti capitolari di vederla ultimata, impetrarono dal vicario generale un comando, perché dovesse la Scorpioni fra certo determinato tempo sotto pena di scomunica adempiere le condizioni del decreto, ed innalzato l’ospitale, accogliervi i poveri come aveva promesso.
Si scosse al terrore di tal minaccia la buona donna, né vedendo altra maniera di sfuggirne il pericolo, si appellò al patriarca di Grado, e nell’anno 1316, ottenne dal vicario gradese favorevole giudizio, con cui fu dichiarato ingiusto il comando del vicario castellano.
I vari atti frattanto, che corsero nella controversia, diedero opportuno tempo allo stabilimento dell’ospitale; ma prima d’introdurvi i poveri mutò la fondatrice i pensieri, e deliberò di fondare nel luogo un monastero di monache. Risaputa dai preti della parrocchiale la nuova determinazione, e chiamata la fondatrice in giudizio avanti il vicario generale, istarono non solo perché vietata le fosse l’istituzione del monastero, ma perché ancora fossero rescissi i patti del contratto già stabilito, stanteché al tempo della convenzione Giacomina Scorpioni era (dicevano essi) conversa professa del Monastero di San Mauro di Burano, e perciò essendo legata coi voti della professione, facoltà non aveva per obbligarsi ai contratti. Esaminò accuratamente il vicario le cose prodotte, né trovandole consone alla verità confermò i patti stabiliti, ed obbligò la Scorpioni ad accettare i poveri nell’Ospitale dei Santi Andrea apostolo, e Marta vergine.
Ciò che le fu negato per giustizia in giudizio, procurò Giacomina di ottenere per grazia. Che però portatasi ai piedi del vescovo Giacomo arrivato poco avanti in Venezia, impetrò dallo stesso per la particolare devozione, che professava ai due santi titolari del luogo, di poter mutare l’ospitale in monastero, eleggervi l’abadessa, e scegliersi un sacerdote, che alle religiose ivi adunate così inferme come sane amministrare dovesse tutti gli ecclesiastici sacramenti, obbligando il monastero all’annuo censo di una libbra di cera da offrirsi al vescovo Castellano nella solennità a San Pietro. Fu segnato il favorevole decreto nel giorno 23 di giugno dell’anno 1318, e nel giorno primo del susseguente luglio Giacomina Scorpioni fondatrice e padrona del Monastero dei Santi Andrea apostolo, e Marta vergine da essa fondato elesse da presentarsi per abadessa del detto monastero Margarita Trevisana monaca benedettina in San Lorenzo dell’Isola d’Ammiano; e perciò le monache cola introdotte abbracciarono, e professarono poi la regola di San Benedetto.
Restò nel giorno penultimo d’ottobre confermata la nuova eletta abadessa dal vescovo castellano, il quale nello stesso giorno decretò, che dovessero le abadesse in avvenire fare presentare al nobile uomo Filippo Salomone, o ai di lui eredi ogni anno in perpetuo una rosa formata di seta quasi in risarcimento del jus, che egli perdeva d’istituire la priora dell’Ospitale, e che onestamente fosse ricercato il di lui assenso, o dei suoi eredi nel caso dell’elezioni già consumate dell’abadesse.
Insorse dopo ciò con nuove pretese il collegio capitolare della parrocchiale; ma dopo brevi contese convennero le parti egualmente desiderose di pace ad accordare, che i patti stabiliti per l’ospitale egualmente servire dovessero per il nuovo monastero, alla quale transazione acconsentendo il vescovo vi interpose la sua autorità, e ne segnò il decreto nel giorno 25 di ottobre dello stesso anno 1318.
Dalle gravi obbligazioni, che si erano con detti patti addossate le monache, furono poi con sentenza definitiva di Domenico patriarca di Grado liberate e prosciolte nell’anno 1328, avendo egli giudicato, che non ostante qualunque patto dovesse il monastero essere, ed intendersi indipendente, e giammai soggetto a giurisdizione alcuna della chiesa parrocchiale, solo in compenso dei danni patiti nei litigi decretò che il monastero corrispondesse per una sola volta certa determinata somma di danaro parte per riscattare il tesoro della chiesa già impegnato per proseguire i litigi, e parte perché impiegare si dovesse a perpetuo beneficio della chiesa, e del capitolo dei titolari.
Sopite queste contese, insorse poi a turbare la quiete delle religiose chi men lo doveva, cioè Filippo Salomone già benefattore, e dichiarato procuratore del luogo, il quale pretendendo di godere il juspatronato del monastero ricercò in giudizio avanti il vicario generale castellano, che conservare gli fossero tutte le prerogative al suo juspatronato spettanti. Varie furono le ragioni così dal Salomone, che dal monastero prodotte, e finalmente dopo vari atti seguiti, convennero ambi i vicari generali di Venezia, e di Grado, quegli nell’anno 1331 e questi nel 1339, in una sentenza loro consigliata da Guidone vescovo eletto di Modena, che restassero le monache assolte da ogni soggezione di juspatronato verso il Salomone, e solo tenute fossero all’annuo regalo di una rosa di seta, ed a richiederlo dell’onesto suo consenso nell’elezioni dell’Abbadesse, dopo però che esse elezioni fossero consumate.
Circa questi tempi, cioè nell’anno 1338, fu eretto sulla porta maggiore, che conduce alla chiesa, ed al monastero, un marmoreo simulacro di mezzo rilevo rappresentante la vergine Santa Marta, e da quell’anno addietro in ogni documento (fuorché nella sentenza suddetta del vicario generale gradese) il monastero, che prima si chiamava col doppio titolo dei Santi Andrea, e Marta, si legge con unico nome scritto Monastero di Santa Marta, il che passò ancora nell’uso comune, cosicché nell’anno 1397, l’abate di San Giorgio, ed il priore di San Salvatore come visitatori apostolici prescrivendo fra gli altri regole particolari a questo monastero lo chiamarono unicamente di Santa Marta, e similmente così la nominò la chiesa Innocenzo VIII, nell’anno 1406, decorandola di spirituali indulgenze.
Frattanto l’angusta debolissima chiesa appena scorso un secolo dalla sua fondazione minacciava prossima la caduta. Però nell’anno 1448, si disposero i fondamenti di una nuova così dilatata di piano, che comprendeva in sé stessa non solo la vecchia, ma tutto ancora il vicino cimitero, avendo la pubblica munificenza concesso nell’anno 1446, che per la dilatazione degli edifici si potesse riempire di terra una qualche porzione della pubblica laguna.
Mentre dunque andava sorgendo il maestoso edificio, svegliati come da sonno i capitolari di San Nicolò riprodussero le antiche loro pretese, richiedendo dall’arcidiacono di Castello Antonio Saracco, allora vicario generale del patriarca di Venezia, che obbligare dovesse le monache a ricevere gli ecclesiastici sacramenti dalla Chiesa di San Nicolò, nella di cui parrocchia era piantato il loro monastero. Accolse le istanze dei preti, e le risposte delle monache il savio Vicario, e con nuova definitiva sentenza nell’anno 1467, confermò al monastero le sue già stabilite esenzioni, e fece che fosse registrata la sua sentenza nei libri stessi della chiesa parrocchiale. Onorò poi Saracco fatto arcivescovo di Corinto la nuova perfezionata chiesa con solenne consacrazione, dedicandola a Dio nel giorno 1 di maggio dell’anno 1480, sotto il titolo di Santa Marta vergine, le di cui reliquie insieme con quelle dei santi suoi fratelli Lazzaro, e Maddalena ripose nell’altare maggiore della chiesa innalzato ad onore della santa titolare.
Una però più riguardevole reliquia della vergine Santa Marta, cioè una di lei mano coperta ancora della sua carne, ed intatta si venera chiusa in un particolar reliquiario, e fu donata a questo monastero da Ambrogio Contarini patrizio veneto, rinomato per i suoi viaggi raccontati dal Rannusio nella Raccolta dei Viaggiatori.
Portatosi questi in Costantinopoli nell’anno 1463, dopo l’espugnazione fatta dall’imperatore turco della città di Metellino, ivi dal vescovo della detta città intese che tra le altre reliquie arrivate in potere del turco nella fatale conquista vi era la mano incorrotta della gran vergine Santa Marta. Ansioso dunque il buon gentiluomo di levare dalle mani dei barbari sì prezioso tesoro, adoperò il mezzo di uno dei medici del gran signore nominato Giacomo, e per di lui opera non risparmiando a spese ottenne la detta venerabile reliquia, obbligandosi con voto di presentarla alla chiesa ad essa santa dedicata in Venezia. Adempì tosto che arrivò in patria il Contarini la sua promessa, e per maggior chiarezza del fatto addusse alcuni testimoni, che interrogati giurarono ciò essere vero, e ben saperlo, perché al tempo dell’acquisto della sacra mano erano presenti in Costantinopoli, dove riseppero il tutto.
A questa, che per essere della santa titolare, si deve sembrare la più preziosa, aggiungersi devono altri venerabili tesori devotamente custoditi in questa chiesa, e sono, il corpo di Sant’Agapito martire; i capi di San Celso e di Santa Trienia pure martiri, che dai cimiteri romani, ove riposavano, furono tradotti in Venezia, e donati a questo monastero; un osso dei fanciulli Martiri di Betlemme; una mascella di Santa Sabina martire; ed un osso del martire San Damiano.
Nel mentre che il monastero nel suo materiale, e nell’ampiezza del suo recinto andava dilatandosi, la spirituale sua struttura dell’osservanza, e del religioso costume andava di giorno in giorno minorandosi. Che però Antonio Contarini piissimo patriarca di Venezia, mentre con l’autorità apostolica andava riformando gli sconcertati monasteri della sua diocesi, rivolse la pastorale sua provvidenza anche a questo di Santa Marta, e non ritrovando in esso chi potesse intraprendere la grande opera della riforma, divise il monastero, e raccolte in una parte le antiche abitatrici conventuali, vi introdusse nell’altra cinque monache osservanti tratte dal Monastero di San Giuseppe, in cui si professava la regola di Sant’Agostino. Le visitò poi il zelante prelato alcuni giorni dopo la loro introduzione, e costituì la più idonea fra esse in coadiutrice dell’abadessa delle conventuali, consegnando le chiavi e l’amministrazione del monastero secondo la facoltà impartitagli dall’apostoliche costituzioni.
Quantunque però il monastero, in cui le nuove abitatrici erano accolte fosse stato sin dalla sua fondazione istituito sotto la regola di San Benedetto, contuttociò il buon patriarca concesse loro il continuare nell’abito e nell’osservanza dell’ordine di Sant’Agostino, a cui arruolate si erano nei chiostri di San Giuseppe, e di più permise, che nel medesimo istituto vestite fossero, e professassero le donzelle da loro ammesse alla religione. Nato poi sopra tal punto qualche non irragionevole dubbio, credettero di dover accorrere alla suprema autorità di Clemente VII, per poter tanto esse, quanto le altre da loro vestite vivere quietamente, e morire nella professione della regola agostiniana, come se il monastero di Santa Marta fosse stato dal punto del loro ingresso trasferito dall’istituto di San Benedetto a quello di Sant’Agostino. (1)
Visita della chiesa (1733)
La tavola dell’altare maggiore con Cristo e i Santi Marta, Maddalena, San Carlo, e Francesco è opera di Leandro Bassano. Dal destro lato di quella cappella vi è la Manna nel Deserto di Andrea Vicentino, ed al di sopra vi è una copia del convitto di Paolo, che è in Refettorio di San Sebastiano. Segue la tavola con Cristo morto opera della scuola dei Bassani. Passata la porta vi è la tavola con la Comunione di Santa Maria Maddalena; opera di Domenico Tintoretto. Vi è poi l’altra tavola con la Santissima Trinità, ed abbasso San Filippo Neri, ed altre Sante, di Bernardino Prudenti. In faccia a quella vi è la palla col martirio di San Lorenzo opera bella di Odoardo Fialetti. Segue dopo questa, l’altra tavola col Salvatore in aria, e molti angeli, e abbasso i Santi Girolamo ed Agostino una delle belle di Montemezzano. Vi è poi l’altra palla della Madonna di Reggio, e San Giuseppe, e in aria due puttini opera delle più belle di Matteo Ingoli. Sopra il detto altare vi è la Resurrezione di Cristo del Cav. Bambini. Segue la Probatica piscina, opera celebre di Santo Piatti. Si vede poi Cristo, che sana molti infermi dello stesso autore. Dopo l’organo vi è Cristo, che scaccia i mercanti dal Tempio; opera di Domenico Clavarino. Sopra il coro la Moltiplicazione del Pane e dei pesci è opera d’Antonio Zanchi. Al disotto Lazzaro risuscitato è di Pietro Ricchi, e Cristo, che va in Gerusalemme è opera d’Antonio Zanchi, fatta nella scuola di Francesco Ruschi. Il battesimo di Cristo, e la nascita fono opere di Cristoforo Tasca, come pure il quadro sopra l’altare di San Lorenzo. Segue la trasfigurazione, opera del Cav. Bambini, Il soffitto, adornati, e pittura è tutto del Lambranzi. Nella sacrestia la tavola con la Santissima Trinità è di Domenico Tintoretto. L’altro quadretto dell’Annunziata è dello stesso autore. Una mezza figura di un Salvatore vicino alla detta sacristia è della scuola di Tiziano. (2)
Eventi più recenti
Il Monastero venne chiuso nel 1808, ridotto a magazzino, indi demolito. La chiesa sussiste ancora, nell’interno del confine ferroviario. Nel Novecento dell’originario assetto dell’area nulla è rimasto, causa l’organizzazione delle strutture del nuovo porto e la successiva realizzazione del terminal automobilistico di piazzale Roma e della stazione marittima. La chiesa, deperita (per uso magazzino) e inglobata tra moderne strutture e parcheggi, è sopravvissuta alla radicalità dei cambiamenti, beneficiando negli anni 2000 un totale restauro con riconversione, che ne ha fatto un luogo di convegni ed esposizioni. (3)
(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).
(2) ANTONIO MARIA ZANETTI. Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia ossia Rinnovazione delle Ricche Miniere di Marco Boschini (Pietro Bassaglia al segno di Salamandra – Venezia 1733)
(3) https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_Santa_Marta_(Venezia)
FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.