I caffè dei veneziani

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Pietro Longhi. La bottega del caffè. Gallerie di Palazzo Leoni Montanari Vicenza (foto dalla rete)

I caffè dei veneziani

Gian Francesco Morosini, bailo a Costantinopoli, così scriveva nella sua Relazione della Porta Ottomana, letta in senato nel 1585: Quasi di continuo stanno (i Turchi) a sedere, e, per trattenimento, usano di bere pubblicamente, così nelle botteghe, come anco per le strade, non solo uomini bassi, ma ancora dei più principali, un’acqua negra, bollente quanto possono sofferire, che si cava di una semente, che chiamano caveè, la quale dicono che ha la virtù di far star l’uomo svegliato.

Quest’acqua nera aveva fatto capolino anche a Venezia nel successivo secolo XVII, e già nel 1683 si vendeva in una bottega posta sotto le Procuratie Nuove. Ad essa altre se ne aggiunsero con il progressivo decorrere degli anni, per opera segnatamente di alcuni mercanti Arabi, ed Armeni, e dei Grigioni, quantunque da bel principio si chiamassero Botteghe da Acque, considerandosi, quale spaccio principale nelle medesime, le acque, o, come si direbbe adesso, le conserve agghiacciate. Siffatte botteghe nel 1759 si limitarono, per legge, al numero di 206.

Lungo sarebbe il nominare tutti i Caffè di Venezia, e perciò ci accontentiamo di dare una rapida occhiata a quelli soltanto del sestiere di San Marco, incominciando dalla Piazza. Sotto le Procuratie Vecchie vengono registrati dalle memorie del secolo scorso i Caffè del Re di Francia, dell’Abbondanza, di Pitt l’Eroe, della Regina d’Ungheria, dell’ Orfeo, del Redentore, del Coraggio, della Speranza, e dell’Arco Celeste (ora degli Specchi). Sotto le Procuratie Nuove esistevano in quella vece i Caffè della Venezia Trionfante, dell’Angelo Custode, del Duca di Toscana, del Buon Genio, del Doge, dell’Imperatore, dell’Imperatrice delle Russie, del Tamerlano, della Fortuna, di Diana, o degli Specchi, della Dama Veneta, dell’Aurora, della Pianta d’Oro, o dell’Arabo (che, per debiti del conduttore, venne fatto chiudere dal Governo nel 1757), delle Piastrelle, e della Pace.

Fra i citati caffè delle Procuratie Nuove merita particolare ricordo quello della Venezia Trionfante, che oggidì viene chiamato Florian, essendo stato aperto, circa al 1720, da Floriano Francesconi, un nipote del quale, per nome Valentino, comperò nel 1802 lo stabile dalla famiglia Lio, e si rese celebre per aver ospitato nella sua casa, sita in Campo Rusolo, a San Gallo, il grande Canova, colà decesso nel 1822.

E neppure vanno dimenticati il caffè dell’Aurora, aperto nel 1723 da un tal Giuseppe Boduzzi, per la splendidezza dei vasellami e delle porcellane, nè il caffè della Fortuna per la memoria del buon pittore Gaspare Diziani, colà spirato all’improvviso il 12 Agosto 1767.

Chi poi avesse voluto abbandonare la Piazza, ed avviarsi verso San Moisè, avrebbe ritrovato il caffè, presso il Ridotto, tenuto da un Liberale Simonetti, decesso il 14 Settembre 1763, lasciando ricca facoltà. E poco oltre, il caffè dei Mori, e quindi quello delle Rive sopra cui vi era un casino di società appellato dei Mami, perchè frequentato da gentiluomini vecchi e baggei. Pietro Gradenigo nei suoi Notatori ricorda che Giovanni Benesso, padrone del caffè delle Rive in Campo di San Moisè, spese, dal 1742 al 1764, fra caffè, zucchero, cioccolata, ed altre cose necessarie al di lui esercizio, trentaquattromila zecchini.

Anche la Frezzeria vantava i suoi caffè. Si legge che colà ne fu aperto uno nel 1762 da un Antonio Benintendi, con numerose lumiere di cristallo del Briatti ad uso Inglese, vasi, bottiglie, ecc. Il locale era lastricato con eleganza, ed aveva le pareti, ed il soffitto dipinti da lodato pennello. Troviamo però che troppo vi allignava il libertinaggio, per cui nel 1766 si proibì alle donne, quantunque nobili, di frequentarlo. Altro caffè della Frezzeria era quello di Stefano, nè si doveva spendere molti passi per ritrovare, nella prossima Calle dei Fuseri, quello del Gobbo, così detto perchè condotto da un Paolo del Mestro, che aveva questa imperfezione, e venne a morire nel 1773. Qui si radunavano all’epoca democratica alcune persone, che solevano scherzare, e ben meritevolmente, sulla falopa, o bugia, del promesso tempo felice, laonde ne sorse poscia, auspice l’abate Giuseppe Cosmici, il Casino Falopiano, che vive tuttavia, quantunque di vita poco rigogliosa, in Calle Bembo a San Luca.

Progredendo, potevi scorgere il caffè in Campo di San Bartolomeo, e, retrocedendo, quello in Calle delle Acque, attiguo alla riva, lodato dal Coronelli nella sua Guida del 1724, e ritrovo di dame e cavalieri, che si abbandonavano agli eccessi del giuoco, colà proibito colla legge 10 Novembre 1756. Veniva quindi, in Merceria di San Giuliano, il caffè di Menegazzo, che portava tal nome perchè n’era con duttore un Menico, uomo di grossa corporatura. In questo Caffè, che ai nostri tempi venne, quantunque per poco, riaperto all’insegna del Trovatore, praticavano vari letterati, fra cui il Baretti, i due Gozzi, e Daniele Farsetti. E fu qui che quest’ultimo, dopo avere un bel dì del 1745 ascoltato, fra le risa degli amici, certa scipita canzone di sacro argomento, recitata dal prete Giuseppe Sacchellari, statuiva di fondare l’accademia dei Granelleschi, eleggendovi a principe il Sacchellari medesimo.

Non lontano dal caffè di Menegazzo era quello d’Ancillotto, ovvero di Spadaria (ora trattoria alle Tre Stelle), ove pure frequentava il Baretti col suo avversario prete Biagio Schiavo, ed ove, volendosi, secondo la tradizione, aprire dai Giacobini negli ultimi tempi della Repubblica un gabinetto di libri e giornali venuti di Francia, fu spedito sopra luogo il terribile Cristofolo dei Cristofoli, fante dei Cai, il quale, tratto da parte il caffettiere, gli disse essere ordine degli Inquisitori che il primo a metter piede nel nuovo gabinetto dovesse, senza indugio, presentarsi al loro tribunale. Ciò valse ad impedire l’ideata apertura.

Quasi dietro, scorgevasi il caffè dei Secretarî, aperto tuttora, ed in cotal modo appellato perchè vi frequentavano i secretari della Serenissima, e poi il caffè di Campo della Guerra, il cui padrone Antonio Bresciani fu il primo, circa l’anno 1720, ad ingrandire le tazze da caffè, facendosele pagare non più due, ma cinque soldi. Vi concorrevano in copia i gentiluomini, e vi furono invitati anche principi esteri durante il loro soggiorno a Venezia, come Federico Augusto elettore di Sassonia, e poi re di Polonia, nonchè Carlo elettore di Baviera. Altro caffè di rinomanza era quello dei Due Ricordi in Merceria dell’Orologio, condotto nel 1760 da un Francesco Pigozzo, bravo confezionatore di eccellenti rosoli, e di squisiti gelati in forma di frutti.

Ma eccoci di bel nuovo alla Piazza di San Marco, e colà ti si presentava, presso San Basso, il caffè dei Due Leoni. Succedevano in Calle Larga il caffè degli Specchi (più tardi della Vittoria), il caffé della Nave, e quello dell’Alessandria. Chiudeva la serie il caffè al Ponte dell’Angelo, celebre anch’esso pel casino da giuoco apertosi nelle stanze superiori, e perchè vi conveniva una brigata di patrizi barnaboti malcontenti del governo, ed aspiranti a novità, presieduta dal procuratore Giorgio Pisani, che nel 1780 venne imprigionato nel castello di Verona.

Sebbene i nostri caffè non potessero vantare un tempo la splendidezza moderna, ma fossero, parlando in generale, bassi, disadorni, e nei primordi mancanti perfino di vetri, a schermo delle intemperie, erano assai frequentati tanto dal sesso maschile, quanto dal femminile. Specialmente di sera, potevano rassomigliarsi ad altrettanti teatri. Chi ciarlava, chi giuocava, chi mangiava e beveva, chi caritatevolmente criticava il prossimo, chi avanzavasi a far d’occhietto alle belle, chi intavolava qualche pratica amorosa, e tutto ciò in mezzo ad un grande frastuono, ed un continuo andirivieni di persone.

Dalle botteghe di caffè trasse talvolta il Goldoni le ispirazioni per le proprie immortali commedie. Allorquando poi sopravveniva la stagione delle maschere, la calca cresceva, e per godere dello spettacolo, solevano accorrere per tempo ai caffè le dame, e le altre donne calcolate civili, portando molte il cappello tripuntito, ed il tabarro di manto nero in segno di maschera, quantunque non avessero larva sul viso, il che non avrebbero potuto fare, se non altro, pel caldo eccessivo. Dice la Gazzetta Urbana del 18 febbraio 1789: “I caffè di Stefano, dei Mori, e delle Rive, che sono i ridotti dei morbinosi, ricevono in folla le maschere che tornano dai teatri, ed a mezzanotte tutte le stanze sono piene . Quante persone si trovano che godono delle delizie, dove tante altre proverebbero un martirio! Un caldo che affanna, una calca che opprime, uno strepito che assorda spaventano l’immaginazione di chi ama la quiete, e si vuol divertire con decenza e comodo, ma i nostri giovanotti di buon tempo starebbero anche sulle brace dove vi son femmine, e certe femmine, che cercano avventure, e godono di sentirsi dire delle belle cose da chi le conosce, e da chi non le conosce, vorrebbero carnovale tutto l’anno, e le notti lunghe come le settimane, pel solo piacere di queste tumultuose riduzioni“.

Del resto, i nostri caffè non sempre si mantennero nella moderazione dovuta. Ce ne possono far fede due decreti, l’uno in data 8 agosto 1748 col quale comandavasi ai caffettieri di levare le sedie sotto le Procuratie alle ore 24, e di chiudere le botteghe a due ore di notte; l’altro in data 22 giugno 1767 col quale proibivasi ai caffettieri medesimi d’accogliere femmine nella stagione in cui erano proibite le maschere.

(1) Giuseppe Tassini. Feste, spettacoli, divertimenti e piaceri degli antichi veneziani. Venezia. Stabilimento Tipografico Fontana. 1891

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