L’antico rito Patriarchino e le Cerimonie ducali nella Chiesa di San Marco

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Alberto Prosdocimi. La Basilica di San Marco (1881). Venetia 1600. Nascite e rinascite. Palazzo Ducale

L’antico rito Patriarchino e le Cerimonie ducali nella Chiesa di San Marco

Nella Chiesa vi furono, nei tempi andati, diversi tipi di riti liturgici, tutti derivati dai tempi apostolici. Il papa Pio V determinò di mettere rimedio a questo disordine, e con le due Bolle Quod a Nobis (9 luglio 1568) e Quo primum tempore (14 luglio 1570) stabiliva un unico rito, il Gregoriano o Romano. Dei riti occidentali, oltre al Romano, ne rimasero altri quattro approvati, ed erano il Mozarabico, il Gallicano, il Patriarchino e l’Ambrosiano, oggi solo quest’ultimo è ancora in vigore. Il rito Patriarchino era il sacro rito della Cappella Ducale di San Marco. 

Non vi è dubbio che il Patriarchino, il quale durò sino al 19 ottobre 1807 (anno in cui di fatto la chiesa di San Marco divenne Basilica), fosse l’antico rito Gradese. Il Gradese era per certo l’antichissimo rito introdotto in Aquileia dai primi capi di questa chiesa. È noto, come nel 489 Marcelliano, vescovo aquileiese, per fuggire la persecuzione di Teodorico, si ricoverasse tra le mura di Grado trasferendovi la sede episcopale, ed è perciò più che probabile vi trasferisse altresì il proprio rito. Tra i quattro riti occidentali quello che meno si discostava dal Gregoriano o Romano era proprio il Patriarchino, specialmente nella celebrazione della santa messa.

Con il Breve apostolico di Callisto III  (1456), ottenuto ad istanza del patriarca Maffeo Contarini, successore di San Lorenzo Giustiniani, cessò nella diocesi di Venezia il rito Patriarchino, rimanendo in vigore soltanto in San Marco, Cappella Ducale del Doge. Per tale motivo nel rito Patriarchino, chiamato in dialetto anche Marcolino, continuavano ad introdursi delle modificazioni per volere dei dogi.

Le pricipali differenze, fra il rito Romano e il rito Patriarchino, esistevano nei colori dei paramenti sacri, nel culto di Maria Vergine,  nell’amministrazione dei Sacramenti, nelle maggiori solennità dell’anno, e nelle cerimonie religioso-politiche, ovvero ducali.  

Il papa Innocenzo III prescrisse per i paramenti sacri quattro colori: bianco, rosso, verde e nero; quest’ultimo si usava per i mortori e nei giorni di penitenza e digiuno: in seguito si aggiunse ai precedenti un quinto colore, il violaceo o pavonazzo, che si adoperava nei giorni penitenziali, riservando il nero per il Venerdì Santo e per gli uffici mortuari. Secondo il rito Romano per l’officio delle Sante, siano vergini o vedove, si usa ora il bianco ed ora il rosso (questo nel caso che abbiano sofferto il martirio per Cristo); mentre il rito Patriarchino per le sante donne ammetteva tre colori, il bianco, il rosso ed il verde, vale a dire, per le vergini non martirizzate il primo, il secondo per le martiri, ed il verde per le altre. Nella Cappella Ducale di San Marco si conservò l’uso del color nero in certe sacre cerimonie, nei tempi di sventura e specialmente di pestilenza. 

È cosa notissima essere stata in Venezia fino dai suoi primordî fervente la devozione verso la Vergine; sarebbe bastevole a provarlo, oltre al gran numero di chiese, cappelle e confraternite, qui erette in onore della Madre di Dio, che nel giorno dell’Annunziazione di Maria Vergine si festeggiava la fondazione della città. Da qui venne, che nel rito di San Marco vi fossero speciali preghiere e cerimonie relativamente al culto di Maria. In primo luogo, nelle messe della Madonna si recitavasi o si cantava il Gloria, in secondo luogo mentre il rito Romano ammette le sole litanie lauretane, speciali litanie si cantavano in San Marco ad onore di Maria Vergine (tratte dalle aquileiesi) le quali comprendono ben quarantuno invocazioni alla Madonna.

Nel Battesimo il rito Patriarchino conservava gli esorcismi, le preghiere e le cerimonie che prescrive il Romano,  ma vi faceva qualche aggiunta, tra cui quella, che il padrino deponeva sul pavimento della chiesa il battezzando e tosto lo ripigliava tra le braccia; nel frattempo si recitavano alcune preghiere, fra le quali il Pater Noster.  Nel Matrimonio il rito Patriarchino variava dal Romano nelle benedizioni, e nell’anello, che non si metteva nell’ annulare sinistro ma nel destro. nel Matrimonio patriarchino era previsto inoltre che il sacerdote sull’altare benedicesse pane e vino, dandone poi ai due sposi in simbolo di unione e convivenza. Nell’Estrema Unzione, nel rito Patriarchino si suonava una campana ad avvertire che un fedele era in punto di morte; inoltre, mentre nel rito Romano si ungono occhi, orecchie, narici, bocca, mani e piedi (agli uomini anche i lombi), sei o sette unzioni, nel Patriarchino erano nove, giacchè (omessa sempre quella dei lombi) il sacerdote ungeva prima degli occhi il capo, e dopo la bocca il petto e il dorso fra le scapole: e queste nove unzioni erano seguite da molte preghiere.

Nelle celebrazione delle primarie solennità, alla vigilia dell’Epifania, vi era il rito d’immergere tre volte nella vasca dell’acqua una delle reliquie della Croce. Quest’uso di benedire con solennità la Reliquia della croce, nella vigilia dell’Epifania, vigeva anche nelle altre chiese parrocchiali di Venezia, tuttavia nelle altre chiese in luogo della Reliquia s’immergeva nella vasca dell’acqua una croce d’argento, perciò questa benedizione si chiamava il Battesimo della Croce.

La Domenica delle Palme quando la processione usciva dalla chiesa per la porta che dà nel cortile del palazzo del Doge, giunta innanzi alla porta maggiore, sostava, ed alcuni cantori salivano alla loggia ove sono i quattro cavalli della basilica, e durante il canto dell’inno Gloria, laus et honor ecc., i cherichetti gettavano al popolo colombi, uccelli e corone d’ulivo. È certo che, in qualche occasione la pressa del popolo per cogliere questi donativi, aveva prodotto confusione e tramestio, poiché, il 18 marzo 1625, il doge Giovanni Cornermosso da convenienti rispetti” comandava ai canonici ducali “che nella Domenica delle Palme non dobbiate gettar ne far gettar uccelli di sorte alcuna al popolo, come si soleva far gli anni passati; ma del tutto resti levato quest’ uso, per non partorir quelli buoni effetti che faceva quando fu istituito“. Tuttavia, forse a conferma del nostro antico proverbio: “La legge veneziana dura una settimana“, questo uso non fu levato. 

Nel Giovedì Santo il Confiteor (il quale si canta prima della Comunione generale del clero e del popolo) discordava dal Romano, si recitava o si cantava anche in altre occasioni. Alla sera si usava mostrare al popolo le principali Reliquie della Passione di Nostro Signore, cerimonia la quale non era esclusivamente propria di Venezia. In questa ostensione, che si faceva in San Marco anche nella sera della vigilia dell’Ascensione, con la differenza tuttavia, che in questo giorno le sole donne avevano accesso alla chiesa, mentre ne erano escluse nel Giovedì Santo. Dopo le due ostensioni si dispensavano candeline benedette.

Al Venerdì Santo, quando nel canto della passione si giungeva al Di viserunt sibi ecc., i cherici denudavano l’altare; e poi, finito il passio, si toglieva la cortina che copriva la Pala d’oro, il celebrante scopriva poi, una preziosa reliquia della Croce che tosto dopo era adorata dal Doge con il suo seguito e dal clero. Questa reliquia dopo la solenne adorazione era collocata sui gradini dell’antico altare del Sacramento. Alla sera dopo la predica, in processione si portava nel sepolcro il Sacramento; uscivano per la porta della Carta in piazza a fare tre soste (alla pietra del Bando, innanzi la porta maggiore della chiesa ed in piazzetta di San Basso) si collocava nel Sepolcro la Santissima Eucaristia ivi portata in una specie di feretro (caileto) sulle spalle di quattro canonici vestiti di tunicelle di sciamito nero. Posto il Sacramento nel Sepolcro (nell’odierna cappella della Beata Vergine dei Mascoli) il Gran Cancelliere riceveva dal Doge l’anello che egli dava al Vicario, e questi tosto con esso suggellava il tabercolo, restituendolo quindi al Serenissimo.  

Nel Sabato Santo, non dodici, ma cinque profezie si leggevano dopo la benedizione del Cero pasquale, ed erano la prima, la quarta, l’ottava, l’undecima e la quinta. Già fin dalla mattina il fuoco ed i cinque grani d’incenso erano stati privatamente benedetti. Dopo le solite preghiere susseguenti la lettura delle profezie, nella cappella del Battisterio si benediceva il Fonte, e poi nel ritorno al coro tutti si fermavano tre volte all’intimazione del diacono che portava il Cero e che, progressivamente in tuono sempre più alto, tre volte cantava: Attendite. Alla terza sosta, poco lontano dalla porta maggiore verso il presbiterio, il diacono dava fuoco alla maregna, vocabolo veneziano corrispondente a matrigna, ma che in questa occasione indicava un globo di sottile filo di ferro ripieno di stoppa ed attaccato alla catena donde anche adesso pende la lampada crociata. Questa cerimonia alcuni la interpretano quale ammonizione salutare delle vanità di questo mondo. Dopo la messa i cinque grani d’incenso (invece di rimanere affissi al Cero) ed il Lumen Cristi si dividevano tra il Serenissimo, il Primicerio, il Celebrante e gli assistenti alla sacra funzione.

Alla mattina della Domenica di Pasqua il clero si recava al palazzo Ducale, e e con il Doge, con gli ambasciatori e con la Signoria, uscendo per la porta della Carta, si fermava fuori della maggiore: là il celebrante per ben tre volte vi picchiava con uno degli anelli di bronzo ad essa attaccati. I cantori dall’interno cantavano allora: “Quem quæritis in sepulcro, christicolæ?” e gli altri di fuori rispondendo: “Jesum Nazarenum crucifixum, o Cœlicolæ” soggiungevano i primi: “Non est hic: surrexit sicut prædixerat. Ite, nuntiate quia surrexit, dicentes: Venite et videte locum ubi positus erat Dominus, alleluja, alleluja“. Si aprivano tosto le porte, e tutti processionalmente si recavano al Sepolcro; qui il monsignor Vicario, nello scendere la gradinata per ben tre volte diceva: “Surrexit Christus” al che si rispondeva in coro: “Deo gratias“.

Le Rogazioni, che erano prescritte per il giorno di San Marco, si facevano nella Cappella Ducale nel giorno precedente la festa del Santo patrono di Venezia, non dovendosi in tal giorno “far attioni di lutto et meste“. Al Magnificat dei primi vesperi dell’Apparizione del Santo patrono un sacerdote girava per la chiesa, aspergendola di acqua odorosa (acqua d’Angeli), e ciò a ricordo “della fragranza sentita il giorno dell’ Apparitione di san Marco nella Colonna alla Croce“. A tale scopo la Procuratia provvedeva annualmente una bozza (tre litri) di quest’acqua nanfa (acqua profumata estratta per distillazione dai fiori di arancio).

Infine per le sacre funzioni ducali, giova ricordare, come il Doge avesse pieno ed assoluto dominio sulla Cappella Ducale, e che, quando vi si recava alle sacre cerimonie, egli fosse cinto delle più smaglianti pompe ed onoranze. Il Doge aveva non pochi privilegi cerimoniali, fra cui quello di tener coperto il capo, anche durante la messa, con il camauro di rensa (detto scufia) cui levava soltanto in certe solenni occasioni, cioè all’adorazione della Croce nel Venerdì Santo, alla processione del Corpus Domini, ecc.. Inoltre il Doge, genuflesso su ricco cuscino di velluto chermesino, rispondeva all’introito nelle messe solenni, alle quali poi assisteva, anticamente dal bigonzo (chiamavano allora così il pergamo ottagono a capo della navata centrale in San Marco nel corno dell’epistola ) e più tardi dalla sua sfarzosa sedia nel presbiterio; mentre sei canonici in piviale gli stavano ai lati e con esso recitavano il Kyrie, il Gloria, il Credo e l’Agnus; prima del celebrante il doge baciava il Vangelo, era incensato e riceveva la pace. Ed a queste onoranze ci teneva molto il Serenissimo; basti pensare, che nell’anno 1654 l’arcidiacono Capis fu bandito con il maestro di cerimonie per aver incensato il Patriarca, non dopo, ma contemporaneamente al doge Francesco Molino. (1)

(1) La Basilica di San Marco in Venezia. Ilustrata nella storia e nell’arte da scrittori veneziani sotto la direzione di Camillo Boito. Ferdinando Ongania Editore. VENEZIA 1888

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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