Fra Paolo Sarpi, religioso, consultore e teologo, nel quarto centenario della sua morte

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Fra Paolo Sarpi (foto dalla rete)

Fra Paolo Sarpi, religioso, consultore e teologo, nel quarto centenario della sua morte 

Erano circa le ore 3 del mattino del 15 gennaio 1622, secondo il calendario veneto che cominciava l’anno a marzo, e del 1623 secondo il computo comune quando l’anima immortale di Fra Paolo Sarpi lasciò la sua spoglia terrena. Gli ultimi pensieri del frate furono per il suo Dio e per la sua Patria: “Andate a dormire, disse ai frati che attorniavano il suo letto, ed io anderò a Dio donde siamo venuti” e pochi momenti dopo, al Dio onnipotente accumunando la patria, mormorò: “Esto perpetua“, e chiusi eternamente gli occhi si addormentò per sempre quella grande mente che aveva tanto pensato.

La Repubblica Veneta, anche con i morti sempre parca di lode, innanzi alla salma del forse più illustre, fra tanti illustri suoi figli, decretò alla sua memoria un busto di marmo nella Chiesa dei Servi a Santa Fosca ed il patrizio veneto Antonio Venier fu incaricato della iscrizione da apporsi ad ilustrazione del busto stesso. Il piccolo monumento non fu fatto per l’intrigo di papa Urbano VIII avverso al Sarpi, che considerava sempre un eretico impenitente, ma ci rimane l’epigrafe del Venier che ai posteri ricorda la grande figura del frate Servita, la sua integrità, la sua sapienza che dominava gli affetti, la sua religione congiunta all’amor di Venezia, alla quale insegnava essere in sé stessa la maggior difesa della proprie libertà anziché nelle fortezze e negli eserciti, “Maius libertatis praesidium in se quam in arcibus, exercitibus positum“.

Narrano le storie che la prima fanciulezza di Fra Paolo, al secolo Pietro Sarpi, fu di una rara precocità ed appena ventiduenne, nel Capitolo dei Serventi di Mantova del 19 maggio 1574, fu insignito del grado di baccelliere in teologia e cinque anni più tardi, nel Capitolo dell’Ordine stesso convocato a Verona, fu a pieni voti eletto padre provinciale, primo esempio in 350 anni da che durava l’Ordine del Servi che un uomo così giovane fosse innalzato a quella dignità così importante.

Il giovane frate studiava assiduamente le matematiche, l’astronomia, la chimica, l’anatomia e la meccanica e molti illustri forestieri, attratti dalla sua forma, venuti a Venezia gli fecero omaggio di una loro visita e restarono ammirati dalla sua eloquaneza piana ma vigorosa, della sua polemica di analisi convicente, della sua vasta e stringata erudizione. Fra Paolo seguiva quasi inconscio con la potenza del suo ingegno la sua strada ascendente; fu per due volte a Roma per la sua alta carica nell’Ordine dei Servi e studiò, come sapeva fare lui, l’ambiente e la curia Romana specialmente nei rapporti che allora correvano con la Serenissima; rapporti altremodo tesi poiché Roma voleva schiacciare l’indipendenza di Venezia con la sovranità della Chiesa, non ricordando che il Leone di San Marco nella sua splendida fierezza tiene la zampa sul vangelo dell’Evangelista.

La lotta tra la Chiesa e lo Stato Veneto scoppiò nel 1605 e la causa occasionale ne fu un certo conte Brandolino, abate di Nervesa nel Montello, accusato di furto di furto, di stupro, di assassinio, protetto da Roma ed incarcerato dal Consiglio dei Dieci. Roma reclamava la libertà dell’abate, Venezia reclamava gli Scritti dei suoi tribunali, Roma scomunicò il Senato, Venezia ricorse a Fra Paolo eleggendolo suo Consultore e Teologo.

Fra Paolo era giunto all’apogeo della sua gloria e nel 1606 pubblicò il Trattato dell’Interdetto in cui si confutava la potestà del pontefie oltre alla regola della legge divina, e così grande rumore menò in tutta Europa il trattato che la curia di Roma cercò di attrarre a sé Fra Paolo e non furono omessi né onori, né promesse, né speranze. Si giunse perfino ad offrgli con il tramite di Francesco de Castro, ambasciatore del re di Spagna a Venezia, un cappello cardinalizio, ma Sarpi fu irremovibile nelle sue idee; sola risposta che egli dette fu questa: “Difendo una causa giusta“.

Non potendosi adescare l’intemerata coscienza del Frate si ricorse alla minaccia chiamandolo a Roma a giustificarsi presso l’Inquisizione ma egli non vi andò ed alla ripetuta citazione rispose il 25 novembre 1606 con il famoso manifesto agli inquisitori. Nella lotta aspra e formidabile gli scritti del Sarpi erano letti avidamente perfino negli Stati Pontifici, varcarono le Alpi tradotti in latino e non si ha forse nella storia esempio di tanto entusiasmo come quello sollevato dal Sarpi, ma egli personificava allora un principio altissimo e da lui dipendevano le sorti del Sacerdozio e dell’Impero.

Da quasi un anno durava l’Interdetto ma per la Serenissima l’interdetto non esisteva, il clero continuava quietamente nei suoi uffizi divini, le chiese stavano aperte giorno e notte e la processione del Corpus Domini non fu mai così magnifica come in quell’anno: Venezia scomunicata pareva divenuta più cattolica di prima. I Gesuiti, che non vollero sotto stare ai voleri dello Sato Veneto, furono espulsi il 14 giugno 1606 con voti 130 del Gran Consiglio.

Ma purtroppo non perdona l’ira della Curia Romana ed il 5 ottobre 1607 mentre il Sarpi, reduce dal Palazzo Ducale, ritornava al convento, fu assalito da cinque sicari e pugnalato al ponte di Santa Fosca. Una stilletata gli perforò il cappello, una il collare del vestito, due lo ferirono al collo, una quinta infine, passando dall’orecchio destro usciva tra il naso e la destra guncia e, traforato l’osso, il ferro rimaneva conficcato dentro e contorto. Fra Paolo cadde “come morto” e fu ventura, poiché gli assassini credendo di averlo ammazzato, atterrirono la gente sparando alcuni colpi di archibugio riuscendo, nella confusione seguitane, a darsi alla fuga ed ecclisarsi. Non morì, ma la malattia durò più mesi e Venezia tutta seguiva con trepidazione le alternative tra speranza e timori per la vita del grande infermo. Al suo letto quasi in permanenza stava il celebre medico chirurgo Acquapendente, professore di Padova, il quale una sera medicando al Sarpi la ferita alla testa disse non aver mai veduto ferita più strana e Fra Paolo celiando rispose: “Eppure il mondo vuole che sia data Stilo Romamae Curae“.

Il Senato con decreto 27 ottobre 1607 proclamò il grande Servita  “molto benemerito della Signoria nostra ed a noi grandemente caro“, e prometteva a che, nel caso di nuova aggressione, si levasse in suo aiuto, un premio di 2000 ducati per ogni assassino ucciso a 4000 per ciascun preso vivo e tale decreto fu in tutta Venezia gridato pubblicamente dal banditore e diffuso a stampa per tutte le provincie.

Egli però rinuciò ai decretati onori e compensò la Repubblica delle tante premure prodigategli, mettendo sempre più a profitto del Senato le vaste sue cognizioni, risolvendo gli affari più delicati e spinosi in ogni ramo della vita civica. Quando, ad esempio, austriaci e spagnoli si unirono a Roma per contendere a Venezia il dominio dell’Adriatico, egli era la guida sapiente che rese trionfante il diritto della Repubblica.

Paolo Sarpi, in relazione sin dal 1610 con Galileo Galilei, e in corrispondenza con gli scienziati e pensatori più illustri d’Europa, fissò in opere poderose il suo sapere. I suoi scritti, sotto una ruvida corteccia, sono tutto succo e vigore. Il suo stile è preciso some sono nette le sue idee. Egli rifugge ostentamente da ogni ricercatezza, solo preoccupato della sostanza.

La Storia documentata del Concilio di Trento, che suscitò tanto clamore e commenti e polemiche senza fine, pubblicata a Londra, a sua insaputa, nel 1619, il Trattato dei benefici, il Trattato dell’Interdetto, il Diritto di Asilo, la Storia della Sacra Inquisizione, la Storia degli Uscocchi, uno studio sulla Podestà dei Principi sono alcune delle più poderose fra le sue innumerevoli opere di carattere, storico o politico o scientifico.

Il 28 gennaio 1621, essendo morto Paolo V, il Sarpi ebbe a dire facetamente. “ora posso morire anch’io, sicuro che della mia morte non se ne farà più un miracolo“. Il nuovo papa Gregorio XIV, per instaurare nuove relazioni cordiali con Venezia, pretendeva dalla Repubblica il licenziamento di Fra Paolo, ma ne ebbe un rifuito e capì che sarebbe stato vano insistere.

Nel 1622 Paolo Sarpi stava facendo i preparativi per un viaggio in Terra Santa, con il proposito di ritirarsi poi in un convento del Levante, a chiudervi i giorni suoi, quando, il 26 maggio, mentre tornava nella Segreta dell’archivio di Stato, venne colto da malore. Superò la crisi, ma, pur rimanendo sulla breccia sino all’ultimo, non si riebbe più. L’8 gennaio 1623 celebrò l’ultima sua messa.

Il 13 gennaio riuscì ad alzarsi per qualche ora ed a girare senza sostegno da una stanza all’altra, ma l’indomani era costretto a letto ed un improvviso peggioramento dava subito la sensazione che le sue ore erano contate. La sera del 14 il Collegio chiese del Sarpi. Era agli estremi, gli venne risposto, fu chiesto allora come stesse di mente, è come sano, venne replicato. Allora furono fatte presentare al Consultore tre domande intorno a urgenti negoziati di grave importanza. Fra Paolo dettò le risposte che la sera stessa vennero lette al Senato, il quale deliberava in conformità. Con un supremo sforzo pose le braccia in croce, fissò poi il crocefisso e serenamente spirò.

La salma di Fra Paolo Sarpi venne sepolta nella Chiesa di Santa Maria dei Servi, ma poiché le sue ossa facevano ancora paura alla Curia Vaticana, che ne desiderava la dispersione e poiché se ne era ripetutamente tentato il ratio, così i frati, per metterlo in salvo, le trassero dalla tomba, occultandole dietro l’altare dell’Addolorata, di dove vennero tolte il 2 giugno 1828 e trasferite nella Chiesa di San Michele in Isola.

Il 20 settembre 1892 per pubblica sottoscrizione, la gloria del dotto Servita veniva immortalata nella bella statua in bronzo di Emilio Marsili, in campo Santa Fosca, a poche metri dal luogo dell’attentato. E la memoria di lui sarà sacra al culto dei veneziani sino a quando non si spenga il ricordo e la gratitudine. (1)

(1) Silvio Stringari. Il Gazzettino Illustrato e il Gazzettino 14 gennaio 1923

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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