Quando nell’antica Venezia si spadellava in cucina

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Gabriele Bella. Il banchetto pubblico del doge. Fondazione Querini Stampalia (foto dalla rete)

Quando nell’antica Venezia si spadellava in cucina

Come tante delle cucine nostrane, anche quella veneziana ha origini lontane con piatti che sono arrivati fino a noi.

Il pesce. Cucinati secondo molteplici ricette, delizie spesso comuni sulle tavole plebee e nobili, erano diffusi piatti a base di “barbonzini” e “sfogi”, cioè piccole triglie e sogliole, rombi, passere, orate, sgombri, le “scarpene”, che erano gli scorfani, ma anche di pesca minuta a prezzi abbordabili. Più costoso il pesce di acqua dolce. Molto apprezzate le anguille allo spiedo delle quali era molto ghiotto il 77° doge della Serenissima, Andrea Gritti, tanto che una scorpacciata dell’amato piatto lo avrebbe portato alla tomba tre giorni dopo il Natale del 1538. Gli abitanti di alcune parti di Venezia, come il sestiere di Dorsoduro, erano pescatori per tradizione, oltre che barcaioli. Il Gastaldo dei pescatori, cioè il capo della loro corporazione, era chiamato “Doge dei Nicolotti” o “Doge dei Pescatori”. Godeva di alcuni privilegi, come l’invito a pranzare con il doge, quello vero, una volta all’anno e affiancare su una barchetta il Bucintoro con a bordo il collega più importante durante la cerimonia dello Sposalizio con il Mare.

I prezzi al mercato. Pochi anni prima la dipartita del doge Gritti, questi erano i prezzi che le massaie veneziane avrebbero trovato al mercato: 27 lire al paio i pavoni, uno scudo e mezzo le pernici e due i fagiani, tre lire per un cappone; più abbordabili i colombi venduti a trenta soldi la coppia. Dobbiamo queste precise informazioni e molto, molto altro sulla storia della Serenissima ai diari di Marin Sanudo, vissuto tra il 1466 e il 1536. Per non scialare era possibile rifugiarsi in piatti come le “coratelle di capretto in guzzetto”, già consigliato per la sua gustosità dal cuoco Domenico Romoli, detto “il Panonto”, nella sua opera magna “La Singolare Dottrina”, quale esempio di piatto popolare non disdegnato affatto anche dai più abbienti, fino alle mense nobiliari.

Piatti lagunari e “foresti. Oltre al Panonto, altri grandi cuochi come Cristoforo Messisburgo, Bartolomeo Scappi, Matteo Barbiero hanno fatto la storia della cucina lagunare e non solo, una cucina ricca d’ogni sorta di prelibatezza: gnocchi di farina e di pane, trippe, cacciagione, salse d’ogni tipo, “fricasse”, brodetti, “potaggi”, cioè minestre, polente, maccheroni, lasagne, tagliatelle, sfogliate, “truffoli” e ravioli, zuppe di grasso, di magro e acetose, la “minestra imperiale o napoletana”, zuppe di trippa, frittate semplici e doppie, mostarda, la salsa “peverata” che era bella pepata, caviale e un’infinita serie di piatti a base di pesce marino e di acqua dolce. Nei condimenti quantità industriali di zafferano, uva passa, chiodi di garofano, pepe, cannella, noce moscata e altre spezie costose, frutto dei traffici mercantile della Serenissima con l’Oriente. Vere leccornie erano considerate la mortadella di Cremona, il “cervellato fino” di Milano, i formaggi di Piacenza, le trippe di Treviso, le “lamprede” di Binasco, gli storioni ferraresi, le salsicce di Modena, i pigoli di Ravenna, i tordi di Perugia, le oche di Romagna, le quaglie di Lombardia. Poi antipasti a base di insalate di lattuga, mesticanza, carote, radicchio, indivia, capperi, cedroncelli, salumi assortiti, coratelle, polpette, lingue salmistrate e “tette di vacca”.

Una ricetta dello Scappi. Tratta da un libro dello Scappi, ecco una ricetta che ha avuto un certo successo, il “potagio di pezzi d’ombrina alla venetiana”, cioè una zuppa di pesce: “Piglinosi libre diece d’ombrina tagliata per lo traverso del pesce in due pezzi … E pongasi in un vaso di rame o di terra con once otto d’oglio e libre cinque di malvagia o vin bianco, due libre d’acqua, mezza libra d’agresto, tre once di zuccaro, una oncia di spetiaria venetiana e quattro once di zibibo, e faciasi cuocere ogni cosa insieme a lento foco … Servasi così caldo con fette di pane sotto e ‘l suo brodo sopra.”

Vino e dolci. Il vino più ricercato, e probabilmente anche il più diffuso nell’antica Venezia, era la Malvasia, “tonda” o “garba” secondo i gusti. Per assonanza aveva preso il nome da Monembasia o Monovasia, vale a dire “porto a una sola entrata”, una città della penisola di Morea, cioè il Peleponneso, in Grecia. Si poteva acquistare in varie mescite, le “botteghe da vin”, un consumo tanto diffuso che addirittura esistevano un canale e un “Sotoportego de la Malvasia” nel sestiere San Marco. Accompagnava principalmente il consumo di dolci soprattutto quelli a base di pinoli, ma anche i “calisoni”, obbligatorio omaggio al doge da parte di alcuni monasteri, le “spongade”, una specie di meringa, e poi ogni sorta di torta.

Il “bacalà”. Il lingua veneta scrive rigorosamente con una sola “c” ed è ila conseguenza di un terribile naufragio occorso al nobile Piero Querini sulle coste della Norvegia nel 1432. Salpato l’anno prima da Candia, l’odierna Creta, con un carico di vino e altre merci da rivendere nelle Fiandre, dopo molte e luttuose vicissitudini, il Querini e gli ultimi sedici superstiti dei 68 membri dell’equipaggio vengono soccorsi dai pescatori dell’isola di Røst, ribattezzata Rustene in veneziano, nell’arcipelago delle Lofoten. Querini, scaltro mercante, nota subito che il principale nutrimento dei suoi salvatori è il merluzzo sia fresco che salato, oppure essiccato e poi battuto con il roverso (legno) prima di essere consumato. Se ne procura una buona quantità di quello essiccato, in pratica lo stoccafisso, che in parte scambia lungo il tragitto di ritorno con vitto, alloggio e trasporti di vario genere. Il restante arriva a Venezia e, dopo una prima timida accoglienza, otterrà poi successo come bontà gastronomica e per le sue caratteristiche di cibo a lunga conservazione. Avrà un ruolo salvifico nelle mense della popolazione meno abbiente vessata dalle intransigenti regole alimentari imposte dal Concilio di Trento circa un secolo dopo, perché di larga resa e costo contenuto. Sarà infine consacrato a piatto della cucina italiana nel ricettario di Bartolomeo Scappi.

Spezie e sale. Preziose quanto l’oro e vendute in Europa a prezzi folli, quello delle spezie era un universo di gran valenza simbolica e insostituibile necessità pratica. Le spezie venivano esibite sulle tavole dei ricchi, un lusso eccitante per il quale chi aveva soldi era disposto a spendere. Erano anche indispensabili come coloranti nell’industria tessile e usate per i medicinali. Invece non sembra che servissero a conservare i cibi. Lo faceva meglio il sale, fortemente tassato dallo stato e con il contrabbando come immancabile conseguenza. In assenza di questo, la gente era obbligata a rifornirsi dal “postiere”, il negoziante autorizzato alla rivendita, ma a prezzi ben più alti. Un abitante di Venezia necessitava di circa quattordici libbre di sale all’anno e sborsava al contrabbandiere settanta soldi, più di mezzo ducato quanto questo era diviso in 124 soldi. Se la cifra era sopportabile per chi guadagnava cento ducati, la migliore delle paghe di un capo tecnico dell’Arsenale, sicuramente diventava un salasso per i venti di un operaio, ridotti a poco più della metà per garzoni e per le donne che cucivano le vele. In genere un popolano tirava a casa dieci soldi al giorno per le quasi duecentocinquanta giornate lavorative dell’anno, perché le altre erano tutte di festa.

Lo zucchero. Come le spezie, anche lo zucchero aveva recitato per lungo tempo il ruolo di segno visibile di condizioni economico e sociali privilegiate, fintanto che dal nuovo mondo non ne arriveranno quantità sempre maggiori con conseguente perdita di valore sul mercato. Devastanti le conseguenze per la salute dentale. Durante una sontuosa colazione a Palazzo Ducale in onore di Enrico III di Francia nel 1574, l’ospite era rimasto stupito nel notare come tutto sulle tavole fosse di zucchero: piatti, posate, tovaglie, pane, perfino il tovagliolo che gli si era spezzato in mano quando aveva tentato di piegarlo. Erano di zucchero anche le splendide sculture ornamentali opera del Sansovino: due leoni, una regina a cavallo tra due tigri, Davide e San Marco, re, papi, animali, piante e frutti.

I Provveditori alle Pompe. Creati in seguito all’applicazione delle leggi suntuarie emanate per contrastare gli eccessi del lusso in ogni sua forma, questi magistrati, già malissimo tollerati quando ficcavano il naso nelle doti e regali di nozze, nei guardaroba e nei gioielli delle dame e altro ancora, lo erano ancor più quando puntavano il dito sul desco dei veneziani. Era accaduto addirittura che i funzionari delegati ai controlli, detti “fanti”, fossero fatti bersaglio di ingiurie e lanci di frutta, ma si era trattato di casi estremi. Pare fosse molto più facile era accordarsi con questi impiegati di basso rango, poveri guardiani del lusso, una pattuglia di dodici uomini ai comandi di un capitano. Cosicché verso la metà del Rinascimento il Senato era dovuto intervenire contro la corruzione, prevedendo sei mesi di prigione e sei giorni di berlina per quei controllori sorpresi a farsi corrompere con “manzarie et robbe over denarj”. In pratica ci si era accorti che costoro durante le ispezioni, invece che denunciare gli eccessi, intascavano una bella mancia, si fermavano a banchettare, per poi tornare a casa con altre vivande nei fagotti.

L’orario dei pasti scandito da una campana. Gli orari di lavoro erano scanditi dal battacchio della Marangona, la campana maggiore di San Marco, validi per tutta la città e segnatamente per gli operai dell’Arsenale che le avevano dato il nome, essendo tra costoro numerosi i “marangoni”, cioè i falegnami. Le giornate lavorative iniziavano poco dopo l’alba, interrotte a mezzogiorno per la “marenda”, cioè il pranzo, e terminavano al tramonto quando i rintocchi del campanone imperversavano a distesa avviando l’intero popolo al sospirato “disnar”, la cena. Non ho trovato notizie di altri spuntini intermedi. (1)

(1) Gustavo Vitali. Articolo originale: Il Signore di Notte – Quando nell’antica Venezia si spadellava in cucina

FOTO: dalla rete. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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