Il terribile incendio che bruciò Rialto nel 1514

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Rialto e il Palazzo dei Camerlenghi dalla terrazza del Fontego dei Tedeschi

Il terribile incendio che bruciò Rialto nel 1514

Scriveva Marin Sanudo nei suoi Diari che, nel mese di gennaio del 1514, Venezia viveva con trepidazione la guerra contro i collegati di Cambrai. Le cose non andavano per nulla bene, tanto che si parlava “di una tansa che si vol meter per il bisogno di la guerra“, c’era chi non voleva “dar angaria a la masena a le biave“, e chi proponeva di tassare “le putane e li portadori de vin“, e sier Antonio Grimani procurator, savio del Consiglio, proponeva di chiamare in aiuto i Turchi “avanti de ruinar“, e in effetti in quei giorni Ali-Bey, dragomano orator del Gransignore turco, era in visita alla Repubblica. Faceva un freddo grandissimo e a tratti nevicava, la laguna era tutta ghiacciata e non si poteva andare o venire dalla terraferma, e l’acqua dolce si vendeva dalle barche a “secchi do al soldo”, perché i pozzi erano tutti asciutti.

In questo contesto, la sera del 10 gennaio, giorno dedicato a San Paolo di Tebe, scoppiò un violento incendio nel monastero dei Crosechieri, e poiché il vento era fortissimo in meno di tre ore lo bruciò tutto, risparmiando però la chiesa di Santa Maria dei Crosechieri (ora dei Gesuiti) dove si trovava il corpo di Santa Barbara. E nel mentre venivano suonate le campane a martello a San Zuane di Rialto (San Giovanni Elemosinario), giusto il solito per segnalare gli incendi, si scoprì, alle due di notte, un altro fuoco a Rialto in una bottega di telerie sotto l’insegna del Diamante, causato da una favilla caduta da una olla sulle tele, così il fuoco si sviluppò “apizandosi si in botege di tele come in botege di cordaruoli e con grandissimo vento da griego e tramontana”.

Il fuoco ardeva e tutti cercavano di svuotare le botteghe, i magazzini e gli uffici, chi portava via le proprie mercanzie, chi noleggiava le barche del traghetto per Padova, chi i burchi da vino, per caricarvi sopra le mercanzie che erano in pericolo di bruciare, ma nessuno rimediava al fuoco, il quale continuava alimentato dal vento fortissimo. Molti gentiluomini cercavano di mettere in salvo i soldi dei banchi e i registri degli uffici pubblici, e “li piovani di le chiexie di Rialto, San Jacomo, San Zuane e San Matio veneno con il corpo di Cristo tutti tre portandolo atorno Rialto, et nulla valeva”, il fuoco cresceva e in meno di sei ore bruciò tutto Rialto.

Bruciò l’Osteria della Scimmia, che era delle monache di San Lorenzo, la ruga dei zoielieri (l’attuale Ruga degli Oresi) fino alle volte dei frati di San Giorgio (sottoportico della Calle dei Do Mori), bruciarono le volte delle Drapperie (agglomerato di costruzioni ricostruite dopo l’incendio con un unico porticato) e gli uffici fino ai Camerlenghi di Comun, tutto Rialto vecchio e nuovo e la riva del Ferro (ora Riva del Vin), e di casa in casa arrivò a bruciare “la chiexia di San Zuane di Rialto, dove era di legno vero di la Croce, qual si brusio e se impiò nel campaniel in zima dove vi era do homeni che batevano le hore quando le sonava, e si brusoe dita zima, et li homeni che erano di sopra et tutto il coperto”.

Il fuoco che aveva ormai raggiunto la chiesa di Sant’Aponal (Sant’Apollinare), bruciò l’Osteria del Sole che era delle monache di San Servolo, ma essendo una fabbrica nuova rimasero in piedi i muri che rallentarono il fuoco verso la chiesa di San Matteo. Il fuoco continuò invece dalla parte del Canal Grande bruciando il Fontego delle Farine e la Dogana di Terra, s’insinuò in corte del Figher, attraversò il Canal grande e iniziò così ad ardere il palazzo dei Corner Piscopia, ma l’incendio fu prontamente spento. Qua e là alcune case che erano fabbricate da poco tempo si salvarono, si salvò la Chiesa di San Giacomo di Rialto perché aveva il tetto ricoperto di piombo, e dietro la chiesa si salvò l’Ufficio de le Razon Nove (revisori dei conti), i Camerlenghi de Comun (esattori e cassieri), i Consoli alla Mercanzia e la loggia sul Canal Grande presso il ponte di Rialto dove i consoli si sedevano d’estate (l’attuale Palazzo dei Camerlenghi venne costruito dopo l’incendio tra il 1525 e il 1528), della Camera dei Imprestiti (prestiti forzosi) restarono in piedi solo i muri, tutto il resto si bruciò, tutti gli uffici, tutte le volte, i magazzini, le botteghe, ogni cosa bruciò, e parte delle botteghe sul ponte di Rialto (che era ancora di legno) si buttarono giù per impedire al fuoco di svilupparsi oltre il Canal Grande.

L’Erbaria, la Frutteria e la Caseria si salvarono, i burchi si slegarono  perché per il grande fuoco non potevano stare ormeggiati alle rive, non si vedeva altro che barche, burchi e peate piene di merci, anche i campi delle chiese erano pieni di masserizie e mercanzie, e cioè il campo di San Cassiano, di San Silvestro, di San Aponal e di San Polo, tutti quelli che avevano casa nelle vicinanze di San Polo le svuotavano e quelli di San Tomà (San Tomaso) si apprestavano a farlo.

Per tutta la notte una moltitudine di gente si accalcò a Rialto e “stavano a veder per le strade, e corevano come si suol andar a’ perdoni”, ma nessun aiutava e “atendevano più presto a robar quello che potevano”. Il Consiglio dei Dieci ordinò quindi di far erigere due forche, a monito di chi rubava, una ai piedi del ponte di Rialto ed una in Pescaria, comandò che le maestranze dell’Arsenale si recassero a Rialto per “stalar quello gran fogo”, ordinò ai Guardiani delle Scuole grandi, ai Signori di notte e ai Capi delle contrade di controllare con uomini armati tutta la città, e la mattina seguente “erano molti zentilhomeni in maneghe strete che ordinava l’aiuto contro il gran fuoco”. L’incendio durò per tutto il giorno seguente, ma alla sera verso le ore 23 cominciò a diminuire, e all’una di notte “ita volente Deo”, cessò del tutto.

La mattina del 12 il Collegio si recò a Rialto per constatare i danni causati dall’incendio, e così, tra una cosa e l’altra, si scoprìrono 2000 ducati e un rubino tra le macerie di una bottega dei Dandolo, in un magazzino sopra le Cazude (magistratura addetta alla riscossione delle imposte arretrate) venne ritrovato uno scrigno con 7000 ducati, gioie e argenti, e nella volta di sier Sebastian Contarini vennero ritrovati 2000 ducati, e tra le tante cose preziose si ritrovò anche un bambino, sotto le macerie, che era ancora vivo.

I danni dell’incendio si stimarono in cinquecentomila ducati, si cercarono subito nuove sedi per i banchi e per le magistrature che avevano perso i loro uffici, “et cussi fo mandato marangoni a conzar diti banchi et oficii”, e si emise una legge, contro quelle persone che approfittando della confusione avevano rubato delle mercanzie e si dava loro tempo una settimana per restituire il mal tolto, pena la forca. Nei giorni successivi si pulirono le strade, e i Provveditori sopra Rialto ordinarono che tutti quelli che avevano “volte, case e boteghe in Rialto che sono sta brusate, debano portar via el suo ruinazo a Lio, alla casa di zudei, aliter sarano fati portar a loro spese”.

Scriveva ancora il Sanudo che, nei giorni dell’incendio, sier Antonio Querini q. Francesco che stava a Camposampiero, vide in cielo tre soli e un “arcobalen de sotto a la roversa con le ponte in suso, cossa di grandissimo prodigio”, e la notte vide in cielo tre lune, e questa cosa dei tre soli e delle tre lune fu vista anche in altre parti dello Stato da Tera, ed ad Este fu visto di notte in cielo  “una cossa longa et la luna di molti colori”, e il famoso cronista terminava il resocondo dell’incendio scrivendo:  “questi sono grandi segnali di Dio che vuol cussì per li nostri peccati et injustitie che si fa”. (1)

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(1) Marin Sanudo. Diari Vol. 17

Dall’alto in basso, da sinistra a destra: Campiello del Sole; Ruga Vechia San GioVanni; Ruga Vechia San Giovanni; Chiesa di San Giovanni Elemosinario; Campo Rialto Novo; Ruga dei Oresi; Palazzo dei Camerlenghi; Campo San Giacomo de Rialto; Ruga Vechia San Giovanni (volte dei frati di San Giorgio); Volte della Drapperia;

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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