La strage di vicentini nella grotta di San Bernardino a Mossano, durante la Guerra della Lega di Cambrai

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La Grotta di San Bernardino a Mossano. Vicenza

La strage di vicentini nella grotta di San Bernardino a Mossano

Scrive il Sanudo che il 26 maggio 1510 dei contadini, presso Barbarano, presero prigioniero un messo con molte lettere del duca di Ferrara e del conte di Mixocho indirizzate alla contessa de la Mirandola, vedova di Lodovico Pico (uomo di una memoria fuori dal comune) figlia di Gian Giacomo Triulzio, la quale per comando del padre aveva ridotto la Mirandola in una piazza d’armi francese.

In queste lettere si raccontava come la città di Vincenza era rimasta quasi deserta dopo l’occupazione dei francesi del principe Rodolfo d’Anhalt, il quale era intenzionato a distruggerla. Le missive riportavano inoltre una grave crudeltà commessa dalla soldatesca tedesca in una grotta non lontana da Sossano e dal campo degli imperiali. In questa grotta, profonda fino a 30 metri, avevano trovato rifugio circa 6000 tra uomini, donne e ragazzi del contado circonvicino. I tedeschi per snidarli avevano dato fuoco ad alcune fascine poste all’ingresso della grotta e “questi diavoli incarnati li hanno anegati di fumo tutti in dita grota, con tanta crudeltà che non se poria dir”. (1)

Un racconto, più dettagliato di questo evento, viene fatto da Simondo Sismondi nella sua Storia delle repubbliche italiane nei secoli di mezzo.

In quel periodo gli sventurati Vicentini si trovavano esposti a tutta la ferocia dei loro nemici. I Veneziani non avevano creduta la loro città in stato di tenere lungamente, ove fosse assediata, e non vollero esporsi a perdere la guarnigione che avrebbe dovuto difenderla. I Vicentini spedirono una deputazione al principe d’Anhalt, generale di Massimiliano, per impetrare grazia. Ma il principe, che stava in Vicenza, quando si era sollevata la città, rispose che i Vicentini erano colpevoli di ribellione contro il loro legittimo sovrano l’imperatore; che altro partito loro non restava che quello di porre a sua discrezione i loro beni, l’onore e la vita, senza lusingarsi che egli chiedesse così assoluta sommissione soltanto per dare maggiore risalto alla sua magnanimità, loro perdonando; che anzi dichiarava di volerli a sua discrezione, perché Vicenza fosse al mondo miserando esempio del castigo che merita la ribellione.

I deputati Vicentini non riportarono ai loro compatrioti che questa desolante risposta; ma l’insolente barbarie dei Tedeschi contribuì ad ingannare la loro cupidigia. Fin dal principio della guerra i Vicentini avevano dovuto affaticarsi sempre nel salvare le loro ricchezze dal saccheggio.

Non essendo la città loro lontana più di diciotto miglia da Padova, aveva colà poste in sicuro le loro donne, i figli, ed i migliori effetti. Il corso del Bacchiglione aveva facilitato il trasporto delle cose loro: onde quando si avvicinarono i Tedeschi, gli uomini seco trasportarono anche gli oggetti di minore importanza che tuttavia restavano in Vicenza; e questa città, abbandonata dal principe d’Anhalt al saccheggio, non satollò in verun modo la cupidigia dei suoi soldati.

Parte dei Vicentini e degli abitanti delle vicine campagne avevano scelto un altro luogo di rifugio. Nei monti, alle di cui falde è posta Vicenza, trovasi un vasto sotterraneo, chiamato la grotta di Masano o di Longara (*), scavata dalla mano degli uomini per levarne le pietre che servirono a fabbricare Vicenza e Padova. Assicurasi che si stende a molta profondità, formando un labirinto, i di cui scompartimenti non comunicano gli uni cogli altri che per mezzo di angusti passaggi, e che talvolta sono pure occupati dalle acque.

Non avendo questo sotterraneo che un angusto ingresso, può facilmente essere difeso, e nella precedente campagna aveva servito di rifugio agli abitanti del vicinato. Vi si erano ritirati coi loro effetti sei mila sventurati; le donne ed i fanciulli occupavano il fondo della grotta, gli uomini ne custodivano l’ingresso. Un capitano di avventurieri francese, chiamato l’Herisson, scoprì questo ritiro, ed invano cercò di penetrarvi colla sua truppa; vietandoglielo l’oscurità e gli andirivieni del luogo; ma risolse di soffocarvi tutti coloro che vi si trovavano, e perciò riempì di fascine la parte che aveva occupata, e vi appiccò il fuoco. Alcuni gentiluomini Vicentini, che trovavansi tra i rifugiati, supplicarono allora i Francesi, che fosse loro permesso di redimere con una taglia sè stessi, le loro mogli e figli, e tutti coloro che appartenevano a nobil sangue. Ma i contadini, loro compagni d’infortunio, gridarono che tutti dovevano assieme perire o salvarsi.

Frattanto tutta la caverna ardeva, e la sua bocca rassomigliava quella di una fornace. Gli avventurieri aspettarono che il fuoco avesse terminati i suoi guasti, prima di visitare il sotterraneo e di estrarne la preda acquistata con tanta crudeltà. Tutti i miseri rifugiati erano periti soffocati, ad eccezione di un giovinetto, che, trovandosi vicino ad uno spiraglio, riceveva un poco d’aria. Verun corpo era stato danneggiato dal fuoco, ma la sola loro attitudine faceva conoscere le angosce che sofferte avevano prima di morire. Molte donne gravide avevano partorito fra quei tormenti, ed i loro figliuoli erano morti con le madri.

Quando gli avventurieri portarono la loro preda al campo, e raccontarono come l’avevano conquistata, eccitarono l’universale indignazione: il cavaliere Bajardo recossi alla caverna con il carnefice dell’armata, e fece appiccare in sua presenza, in mezzo a questa scena d’orrore, due di quei miserabili che avevano acceso il fuoco. Ma nè pure questo castigo potè presso gli Italiani cancellare la memoria di tanta inumanità.

(*) Si tratta della grotta detta di San Bernardino a Mossano (versante sud-orientale dei Colli Berici)

(1) Marin Sanudo. I Diari. Volume 10

(2) Simondo Sismondi. Storia delle repubbliche italiane nei secoli di mezzo. Volume 14

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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