I poeti dialettali veneziani

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Alessandro Milesi. Corteggiamento al mercato.

I poeti dialettali veneziani

Nella letteratura dialettale veneziana, si riflette la briosa arguzia e grazia del suo popolo antico, la libera agilità delle gondole, la limpidità e mitezza del cielo, che si inarca su glorie millenarie meravigliose.

La tristezza e il lutto non sono frequenti nella letteratura vernacola, creata sopra tutto per esprimere l’amore che canta la bellezza, l’amore che ne brama il possesso, l’amore che la bacia e trionfa dei ritegni.

Comincia un commediografo e attore del Cinquecento, Andrea Calmo, a raccontare un’avventura d’amore al Lido, con una Rosina, che non si avvolge certo nei veli pudibondi di una Vestale. E appare un arcivescovo, nientemeno! un arcivescovo di Corfù (giovane, per altro) che inneggia con pittoresca voluttà alle sfolgoranti bellezze di una popolana cenciosa (La strazzosa). Costei vive in una povera casa, ma ricca d’incanti è la sua fresca bellezza; i raggi ne risplendono tra cencio e cencio:

I razi de custia fra stazza e strazza.

Si chiama Maffeo Veniero il poeta arcivescovo. E non è parodia delle canzoni del Petrarca per Laura La strazzosa. No. E’ creazione ingenua sincera di un innamorato della bellezza, che cantò anche la Lode d’una bella putta.

Lasciamo che il “Cieco da VeneziaPaolo Britti, racconti, nel Seicento, con accompagnamento d’arpa, il suo amore infelice per una cattivella, che egli volta le spalle appena s’accorge che egli non ha più quattrini per presentarle piatti di vitello lesso e arrosto, o il bon vin moscadello. Anche nel suo lamento, Paolo Briti scherza; ride dell’abbandono.

Ma Giorgio Baffo, nato alla fine del Seicento e morto a Venezia nel suo palazzo a San Maurizio nel 1768, ahimè! tramuta l’amore in oscenità; ma con quel estro ed ingegno! Eppure, la sua vita trascorse morigerata e pura. Le sue impurità stavano tutte nel suo calamaio.

Fosco nell’aspetto e nel verso, procede grave di passi e di rampogne contro le mollezze e i lussi della sua adorata Venezia, il figlio di un senatore, Angelo Maria Labia. Sotto le mode bizzarre, sotto i drappi gemmati, sotto quegli ori sfoggiati a profusione, sotto il baglior di quelle feste fra le baldorie che rallegrano Venezia, il Labia scorge i tristi segni della decadenza fatale della patria stato e religione, ai suoi occhi rattristati, volgono a rovina. In una delle feste solenni dell’Ascensione quando il Doge tra lo squillare di tutte le campane e il tuonar delle artiglierie ne sposava il mare dal Bucintoro maestoso tutto scintillante d’oro fra l’azzurro delle onde e del cielo, il Labia esclamava accorato:

Che lusso in ogni grado de persona!
…Oh che ragata! Oh che Bissone!
Che popolo! che gran foresteria!
Che Canal! che traghetti! oh Dio che done!
Eppur, no so el perché, mi pianzaria!

Ma Carlo Goldoni, il gran Goldoni, ride, delle miserie umane. Le commedie capolavori del suo genio immortale come quelle del Moliére (che Alessandro Manzoni posponeva al Goldoni) sono raggianti di buon umore. La conzateste, La gondola. Quanto sole in quei versi!

Ben malizioso il medico-poeta Lodovisio Pastò ne le smanie de Nineta in morte de Lesbin! E quale stilista pittoresco Francesco Gritti, negli apologhi, e con quale maestria maneggia l’ago della satira sociale e morale, pungendo, non lacerando. L’aseno verde è il suo capolavoro. Quelle tarde nozze di una cinquantenne ingalluzzita per un robusto giovanotto che sposa, sono da godere; specialmente per una trovata allegra di una serva indiavolata.

La novelletta Barba Simon e la morte potrebbe chiudere un pensiero più serio, più grave?

Eppure, lo spirito sereno del Gritti le presta colori festivi. E Amor e pazzia? … Quale parodia dei numi mitologici, con la quale anticipa quelle del Manzoni, del Grossi e di Carlo Porta! Francesco Gritti ebbe tanto spirito da unirsi ai fischiatori di una sua infelice commedia rappresentata a Venezia. Discendeva dal doge Gritti: morì nel 1811.

Al solo nominare La biondina in gondoleta, il sorriso spunta sulle labbra di tutti. E’ un secolo che vive la cullante barcarola e vivrà sino a che ci saranno biondine e gondole e facili carezze al blando venticello della notte. Quante gole anche famose, cantarono quella barcarola che Antonio Lamberti creava nelle molli strofe e che Simone Mayr (il quale compose sessantatré melodrammi uno di meno del suo allievo Gaetano Donizetti) metteva in musica; una musica che si culla placida come la gondola, e pare una ninna nanna: infatti la bionda dea (che era la famosa Marina Querini) s’addormentava.

In tutte le reggie e sale aristocratiche d’Europa, si cantò la Biondina; e a Venezia, in quasi tutte le case, sul Canal Grande, e sulla laguna negli incantevoli pleniluni o al fulgente ammiccar delle stelle.

Antonio Lamberti restò famoso per quella barcarola come più tardi il chirurgo bellunese Pietro Pagello, per un’altra barcarola dedicata alla sua celebratissima amante: la Sand. Ma il Lamberti è autore vernacolo di altre poesie, che dipingono i costumi gai e spensierati della Venezia del suo tempo, al domani della caduta della Repubblica. Nelle sue rime, noti una punta di satira e una punta di sentimentalismo; egli sente pietà per la povera gente. Alcuni versi delle sue Quattro stagioni campestri e cittadine sono irrorate della sua pietà.

Ma poesie di vena più copiosa e impetuosa, sgorgano dal forte estro di Pietro Buratti. Anch’egli librò a volo alate canzoncine, qualcuna bricconcella come la Biondina; ma il suo carattere emergente è la fiera satira sociale dei costumi; è l’amarissimo sdegno patriottico contro gli stranieri, francesi e austriaci spogliatori e affamatori di Venezia. Il “veneziano” in lui freme, tuona. Che importa se per un coraggiosissimo brindisi alla mensa del prefetto napoleonico barone Galvagna, patisce il carcere, come più tardi, sotto l’Austria la soffrirà per le ottave sulla fuga clamorosa di un elefante da uno dei casotti di belve che una volta si improvvisavano sulla Riva degli Schiavoni? Egli non poteva frenarlo il suo furore satirico, terribile anche quando deride le depravazioni erotiche di donne viziose e di patrizi rammolliti.

Ma Pietro Buratti fu capace di elevarsi anche alle vette della ode filosofica, nella commovente ode per la morte di un suo povero bambino, straziato da malattia crudele. Pietro Buratti morì d’improvviso in un suo poderetto a San Bughè presso Mogliano Veneto, nel 1832, un mese dopo il Lamberti, che morì a Belluno dov’è sepolto.

E’ un’ora funerea questa che squilla adesso da San Marco! Gli austriaci assediano Venezia, e sulla divina città, che fra gli orrori del colera, della fame ha giurato di resistere “a ogni costo” cominciano barbare bombe roventi.

Canti guerreschi s’alzano dagli eroici difensori del Ponte, Jacopo Vincenzo Foscarini, combatte insieme con quei valorosi; ma cade dagli spalti e si spezza una gamba. Ebbene egli non si perde nelle avversità, il suo brio, la sua arguzia. Eppure i suoi canti seri con quelli che eccitano a combattere con tutta la foga il nemico, hanno la veemenza dei canti di Tirteo, del Koerner del Berchet.

Italiani all’armi! all’armi!
Fero, piombo, bronzo, fogo
Piere, copi, travi, marmi
Doparemo in ogni logo
Per cassar via da de qua
La tedesca crudeltà!
E sterminio e morte ai cani
Che da cani ne tegniva,
La semenza dei tirani
No ga qua da restar viva
.

I canti popolari veneziani sono pieni d’accento umani; sono voci del popolo che anonimo, li ha creati nello spazio dei secoli. Jacopo Vincenzo Foscarini ne compose anch’egli sotto il nome di El barcariol; nome che egli democraticamente assunse come poeta; ed egli gareggia davvero col popolo in quei canti di marinai innamorati che sospirano alla loro amante lontana; di madri che addormentano il loro bambino; di giovani gondolieri che vincono la regata che vogliono onestamente sposare. Il ritmo è lo stesso dei canti popolari genuini; lo stesso profumo di semplicità, di sincerità di bontà; perché il popolo veneziano è buono; e buono lo mostra nella sua prima favella rimata El barcariol. (1)

(1) Raffaello Barbiera. IL GAZZETTINO ILLUSTRATO, 2 ottobre 1921.

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