I teatri veneziani e gli Inquisitori della Repubblica

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Francesco Guardi. La cena e il ballo al San Benedetto per i Conti del Nord

I teatri veneziani e gli Inquisitori della Repubblica

I teatri a Venezia sotto la Repubblica erano quattordici, ma generalmente nello stesso tempo non se ne aprivano che sette od otto di cui cinque o sei per la musica e sempre due per la commedia, ogni sera affollati “massime i più cospicui musicali come san Giovanni Grisostomo, san Benedetto e san Samuele“.

Con tale numero di teatri e con le idee nuove che venivano di Francia alla fine del Settecento, gli Inquisitori di Stato avevano un bel da fare non solo per la sorveglianza dei costumi, ma per quella anche delle idee che in qualche maniera potessero “traviare l’animo de li sudditi fedeli“.

I capri espiatori di questa assidua vigilanza erano i direttori delle compagnie comiche e gli impresari dei teatri d’opera i quali venivano spesso chiamati in palazzo Ducale e severamente ammoniti. Così il 18 novembre 1776 il segretario degli Inquisitori fece radunare nella sala della “Bussola” gli impresari Michiel Dall’Agata del teatro San Benedetto, Zorzi Cim del San Samuele e i capi comici Antonio Sacchi e Girolamo Medebach per “precettarli nel modo più ressoluto e preciso di non permettere a patrizi, niuno eccettuato, l’ingresso ai teatri, quando non siano vestiti in maschera con l’abito solito usarsi come vuol la legge. Tanto veniva loro commesso di eseguire in pena della vita“.

Difatti la Repubblica per togliere “la licenziosa troppo avanzata libertà con la quale comparivano nei teatri le nobildonne vestite con la massima indecenza” aveva stabilito per tutta la nobiltà di presentarsi in teatro con tabarro e bauta, ma i nobili, “in spregio alle pubbliche leggi“, se entravano in maschera se la toglievano subito mostrandosi in pubblico come meglio credevano.

Al teatro di San Benedetto nella sera del 20 dicembre 1776 Missier grande notava le patrizie Laura Basadonna, Maria Priuli, Catina Grimani e Loredana Duodo e fattane denuncia, venivano tutte e quattro condannate a trenta ducati di multa e per trenta sere veniva proibito loro l’ingresso in qualsiasi teatro.

Nel gennaio dell’anno seguente si dava allo stesso teatro di San Benedetto, il più elegante allora dei teatri veneziani, il ballo “Coriolano” di Giuseppe Canciani, e il confidente Giacomo Casanova, che faceva le sue prime armi come spia degli inquisitori, li avvertiva in un suo referto: “Il ballo Coriolano seminò nelle menti un certo spirito di rivolta che fe’ nascere sinistri ragionamenti e discorsi temerari“. Il tribunale degli inquisitori chiamò subito l’impresario, quel tal Michiel Dall’Agata, al quale venne ordinato che non si “voleva più che fosse fatto il ballo di Coriolano in pena della vita“.

Nello stesso anno fu chiuso per dodici sere il teatro di San Giovanni Grisostomo: vi si dava una nuova opera. “Il Sogno di Mustafà“, e nel secondo atto c’era una cantata di giovani Turchi. Figurarsi i Veneziani che li odiavano come il peccato: urla, fischi, grida tanto che si dovette sospendere la rappresentazione, si chiuse il teatro e l’impresario ebbe una multa di cento ducati.

Pure a San Giovanni Grisostomo nel 1785 si rappresentava una tragedia di Giovanni Pindemonte, fratello d’Ippolito, intitolata “I coloni di Candia” che diede pretesto a dimostrazioni contro i Greci e a grida scandalose, tanto che fu proibita la recita con un severo ammonimento all’impresario “qual non aveva capito l’umor del pubblico“.

Gli inquisitori aumentavano la vigilanza, ma ormai i costumi erano troppo corrotti e le idee di Francia facevano strada nelle lagune. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 31 agosto 1928

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